Fedra, Antigone, Clitennestra, Lena
da Fuochi di Marguerite Yourcenar
Interprete: Laura Morante
Musiche dal vivo: Roberto D’Erasmo (Afterhours)
e Roberto Angelini
Cura registica: Fabrizio Arcuri
Credits fotografia: Franca Centaro
L’elemento indicatore di uno spettacolo ben riuscito, oltre allo stato di pieno appagamento una volta terminato, è che potresti riguardarlo di nuovo senza stancarti, oltre a voler leggere al più presto il libro da cui è stato tratto.
Questo è ciò che ho sentito dopo aver visto Fedra, Antigone, Clitennestra, Lena, trasposizione teatrale da Fuochi di Marguerite Yourcenar, interpretato da una delle attrici italiane più talentuose: Laura Morante. Quinto appuntamento della rassegna Per Voci Sole organizzata dalla Fondazione INDA al Teatro Greco di Siracusa, lo spettacolo è stato reso fruibile online non soltanto per 48 ore - come era avvenuto per i precedenti - ma per una settimana, così da darmi l’occasione di riguardarlo fino a quando non me ne fossi del tutto saziata.
La perfetta intonazione tra la viola e la chitarra acustica, suonate rispettivamente da Roberto D’Erasmo e Roberto Angelini sulle note di brani di Nick Drake, è un preludio all’altezza degli intensi monologhi che seguiranno; e, anzi, sarebbe meglio dire che recitazione e intermezzi si innalzano a vicenda come sul palmo d'una mano. La presenza scenica della Morante, così solida e materica pur mantenendo l’eleganza e la sobrietà che la contraddistinguono, è fortissima; sempre radicata al centro del palco, nel suo ornato soprabito, anche quando se ne discosta per lasciare la scena all’esibizione del duo. Così anche il testo, poetico, perforante, aulico - se possibile - nell’accezione più moderna del termine, va a inserirsi in questo quadro perfettamente composto, dove persino il frusciare dei fogli si fa musica, e né la presenza del leggio, né la meccanica della lettura disturbano in alcun modo l’immersività nello spettacolo.
Antigone, Lena, Fedra, Clitennestra: donne e mito nei loro istinti primigeni
Sebbene, nel titolo, l’elenco dei personaggi narranti sia stato invertito, è questo l’ordine che seguono le letture, affidate alla cura registica di Fabrizio Arcuri.
Antigone irrompe con urgenza dalla voce appassionata della Morante, squarcia il buio con la sua luce impossibile da uccidere. Eroina tragica, condannata al destino infausto di essere seppellita viva, è disperata, rabbiosa e insieme rassegnata, ma di una rassegnazione che non le china mai la testa a pentimento per la sua azione, nobile e tuttavia punita: aver dato una degna sepoltura, negatagli altrimenti da Creonte, al fratello Polinice. Antigone diviene dunque il simbolo della sorella esemplare, che “colma con il vino del suo amore l’urna vuota che è il corpo senza vita del fratello”, mantenendo alto come uno stendardo il valore sacro dell’onore e della famiglia. La disobbedienza la muta in essere angelico, quasi divino, ombra e acqua fresca nelle fiamme di un inferno, e infine in suicida, che con l’oscillare del suo corpo rimette in moto il mondo coi suoi astri. Qui il testo si presenta fortemente simbolico, carico di metafore e similitudini di grande impatto sull’immaginazione, ma un po’ complesso da seguire negli sviluppi e privo di elementi di modernità come in Lena.
Nel monologo successivo è più facile, infatti, comprendere le vicende pur non conoscendole prima: la narrazione è chiara, lineare, e non presenta i periodi troppo articolati, ancorché sublimi, di Antigone. Vi si sfiora il tema dell’omosessualità, attraverso il triangolo amoroso tra il tiranno Ipparco invaghitosi di Armodio, giovane amante di Aristogitone, a sua volta “padrone” della serva Lena, che si inserisce come quarto e centrale elemento. Quest’ultima, infatti, si ritiene ben più che una semplice serva: l’amore che prova per Aristogitone, qui rappresentato come un atleta, un pugile inebriato di vittorie, non le fa accettare il ruolo in cui egli la relega (“per compensarla di tante cure, si faceva amare” - racconta Lena) e la fa sentire una cagna che lo attende dietro la porta o che lo osserva allontanarsi per tradirla con la gloria. Anche in queste vicende, è la donna a emergere con il suo coraggio, la dedizione e l’orgoglio, arrivando a mordersi la lingua fino ad amputarla, “pur di non confessare i segreti che non conosceva” su Aristogitone, ricercato insieme ad Armodio dopo aver tentato di uccidere Ipparco: una realtà troppo umiliante da ammettere persino a se stessa, quella di non essere null’altro che una cortigiana senza tenerezza.
L’amore non ricambiato continua a essere il topos dei due monologhi successivi.
Il mito di Fedra - che può essere ricollegato come testo ad Antigone per il suo andamento contorto e sinuoso, sebbene più semplice nella trama - è quello di una donna respinta dall’amante di cui è anche matrigna: Ippolito, il figlio di Teseo. In Fedra si inserisce dunque anche il tema dell’incesto, del matrimonio senza sentimento con un marito “sposato distrattamente”, che la conducono a una realtà così inaccettabile da trovare unico rifugio nella menzogna, nella vendetta sotto forma di calunnia verso Ippolito, e infine nel suicidio, inevitabile dopo la morte causata al suo amato.
Il timore, più che la certezza, di essere rifiutata per sempre, dopo essere stata abbandonata per dieci anni e tradita innumerevoli volte, è anche in Clitennestra, sposa di Agamennone. Pure lei lo tradirà, ma per disperazione, con il nipote Egisto, di cui non è affatto innamorata, al punto da definirlo “figlio nato dall’assenza”. Il vero tradimento, allora, è paradossalmente nei confronti dell’amante, e l’adulterio, visto sotto questa luce, altro non è che “una forma disperata della fedeltà”, come sostiene la donna davanti a un’immaginaria Corte chiamata a giudicarla. Clitennestra, infatti, vedendo tornare Agamennone accompagnato dalla giovane Cassandra, bottino di guerra, non accetta il suo ritorno dopo una così lunga e incolmabile assenza, e decide di ucciderlo con la complicità del suo amante. Ciò che la spaventa di più, però, è l’eventualità di trovarsi riflessa, sfiorita, nell’indifferenza dei suoi occhi, ormai troppo vecchia e immeritevole del suo amore.
Tuttavia, nemmeno l’assassinio potrà mai liberarla da un’ossessione divenuta immortale.
Nella presenza di elementi più riconducibili alla nostra realtà che al passato, anche questo monologo ricalca lo stile di Lena, attualizzato e reso più accessibile anche a chi ignora le vicende della mitologia classica, pur mantenendosi ricercato e costellato di frasi e immagini d’effetto.
La Morante, per la durata di tutto lo spettacolo, non varia significativamente il registro dell’interpretazione, assecondando quest’alternanza. Si potrebbe dire, anzi, che si mantiene sul filo ininterrotto di una lettura solenne, impeccabile, avvolgente, entro cui si avviluppa essa stessa calandosi sempre più nella parte, come questi furori ancestrali che inghiottono miti e comuni mortali.
Valeria Minciullo