Crisotemi
Scritto da Ghiannis Ritsos (traduzione Nicola Crocetti)
Interprete Isabella Ragonese e Teho Teardo
Musiche dal vivo di Teho Teardo
Con al violoncello Giovanna Famulari, Laura Bisceglia
Cura registica Fabrizio Arcuri
Prosegue - e sta ormai per concludersi - la rassegna di monologhi Per voci sole al Teatro Greco di Siracusa, che con lo spettacolo Crisotemi sembra riprendere il filo da dove lo avevamo lasciato al precedente appuntamento.
L’ultimo soliloquio di Laura Morante si era infatti concluso con la condanna di Clitennestra, moglie di Agamennone e madre di Oreste, Elettra, la sacrificata Ifigenia e - per l’appunto - Crisotemi, che qui prende corpo e parola attraverso le movenze guizzanti e la voce poliedrica di Isabella Ragonese. Mai come per questo personaggio è stato così calzante il titolo Per voci sole, se si indica con l’aggettivo non soltanto la mancanza fisica di interlocutori, ma una solitudine inascoltata, come quella di chi non è mai stato compreso, e forse non è nemmeno mai esistito.
Crisotemi, inconsistente e irreale come un sogno
Chi conosce Crisotemi? Qual è stato il suo ruolo? E cosa ci rende esistenti non nel senso stretto di “creati”, ma al punto tale da essere riconosciuti e ricordati? Attraverso il poemetto di Ghiannis Ritsos a lei ispirato - purtroppo reciso in alcune parti assai poetiche ed evocative, sebbene qui trascurabili - Crisotemi racconta di sé e dei suoi ricordi, ma nemmeno questi le conferiscono una forma che, proprio come il testo, rimane indefinita e impalpabile. Figlia e sorella mite, sognante e svampita, per sempre adolescente, subisce un contesto sanguinoso di castighi familiari e morti terribili, non prendendone parte per vendicare l'uxoricidio del padre, come farà invece Oreste con la complicità di Elettra.
Ritsos le dà però una sorta di riconoscimento, con il pretesto di una giovane giornalista che si reca al palazzo della “Signora” per concederle - sarebbe qui il caso di dire, all’inverso - un’intervista. Sono passati molti anni, e Crisotemi vive lì relegata, all’ombra della rude montagna di cui si veste, lontano dal mondo che non le è mai appartenuto, e dal susseguirsi dei fatti della vita che osserva ormai dall’alto, come un’invisibile, apatica, presenza. Insieme a lei, qualche uccello di passaggio, i corpi freddi delle statue, e la nube stantia di oggetti abbandonati e di un tempo che pare essersi ammuffito anch’esso, privato del suo scorrere limpido e naturale. Crisotemi ne perde la cognizione svegliandosi come da un torpore, avverte un recondito fremito di felicità nell’essere riconosciuta, sebbene la sua condizione di “inapparente” sia stata da lei totalmente accettata o - sarebbe meglio dire - voluta, avendo contrapposto un mondo di evanescenza, fanciullezza e follia, a quello oscuro, ferreo e monolitico della famiglia che la circondava.
Crisotemi figlia e sorella
Quando non riusciamo a darci un’identità, la ricerchiamo facilmente nei giudizi degli altri, prendendoli come verità assolute su noi stessi; e quando ci sentiamo di vivere al margine degli eventi - come Crisotemi - ogni reazione ad una nostra, pur minima, azione ci appare essa stessa un evento memorabile. Questa è l’inevitabile spinta verso l’esterno che avverte Crisotemi, nonostante avesse ormai creato un mondo di fantasia in cui potersi muovere liberamente.
Le sue figure femminili di riferimento, attraverso le quali cerca di definirsi e ritagliarsi un ruolo, sono la madre Clitennestra e la sorella Elettra. Crisotemi descrive la prima come una donna collerica, affatto incline alla tenerezza, protetta da un’armatura poi rivelatasi illusoria, e che pareva renderla, invece, immortale. Basta un’opinione rivolta alla figlia, e persino un ingiusto castigo, a dare a Crisotemi un guizzo di gioia per questa inaspettata e insolita considerazione, in cui ritrova una conferma. Nel testo, le immagini che connotano il loro rapporto sono sempre in forte contrasto: alla gravezza di Clitennestra, alla sua severità, fa da contrappeso la leggerezza della figlia, che prova, un giorno, ad attaccarle un velo bianco sulla schiena come fosse l’ala di uccello, e ad aprirle uno spiraglio su quel mondo che le rimarrà per sempre estraneo. A Crisotemi, allora, non rimane che assecondare la spinta verso la fantasia, non trovando vicinanza nemmeno in sua sorella Elettra, che non le rassomiglia affatto. Nei suoi confronti, Crisotemi nutre un sentimento ambivalente, fatto di premure (entro cui trova un certo senso di utilità) e ammirazione, ma allo stesso tempo di totale incomprensione ed estraneità. Allora torna a rifugiarsi dove solo può riconoscersi: tra il gatto del vecchio giardino e i pesci rossi, in una stanza stipata di oggetti in disuso, facendo della Luna una compagna di giochi, e cercando, paradossalmente, dentro tutta quest’ombra, la luce.
Scenografia, musica e recitazione
La scelta del bianco, nel vestito e negli impalpabili veli che Isabella Ragonese talvolta stringe e libra nell’aria, o con cui si avvolge e protegge, obbediscono a questo senso costante di levità e di assenza di colpa. Il testo viene recitato senza esitazioni, accompagnato da una forte mimica e gestualità, e dal contatto visivo col pubblico, tanto che la presenza del leggio sembra quasi superflua. Al centro del palco, una grande poltrona in vimini intrecciato su cui sono adagiati i veli, accoglie l’attrice nell’alternanza tra parti in piedi e seduta. La Ragonese, premiata agli esordi proprio dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico che ha curato la rassegna, è perfettamente a suo agio nei panni di questa Crisotemi moderna, rappresentandola come un’eterna bambina, talvolta, o come una ragazza che non sapresti dire se un po’ brilla o del tutto fuori di sé; e infine, in alcuni frangenti, obbedendo a una scelta registica che la vuole - forse un po’ stonatamente - fin troppo matura e consapevole.
Ciò che invece non stona mai è la musica multiforme di Teho Teardo, che l’accompagna insieme alle violoncelliste Giovanna Famulari e Laura Bisceglia. I suoni sono a volte dei rintocchi di campana, il frinire nascosto delle cicale, fino alle commistioni suggestive tra la chitarra elettrica di Teardo e gli archi sapienti delle due musiciste. Sebbene le sonorità si facciano a volte particolarmente gravi e lugubri, ciò non genera squilibri con l’intera messa in scena, apportando invece un contrasto interessante.
Il finale e una considerazione
La musica, sul finire dello spettacolo, ricorda il rumore di un portone che sbatte ripetutamente; Crisotemi si congeda dalla giornalista e risale i gradoni di pietra per ritirarsi nel palazzo, non prima di aver ringraziato e chiesto perdono per la sua vita così sciocca e senza importanza. Eppure, dall’inizio alla fine, c’è in lei una sorta di autocompiacimento nell’essere diversa, nel non aver cospirato per uccidere la madre, e un bearsi a vivere nel perenne dormiveglia, da cui osserva di sottecchi la vita, con un senso di vaga superiorità.
E forse perché immersa in quest’epoca di sfrenati egocentrismi, dove la tendenza è tutt’altro che quella di stare al margine degli eventi e di mostrarsi soli, incerti e vulnerabili, che Crisotemi mi appare, nell’assenza e nel silenzio, la voce più genuina e distinguibile.
Valeria Minciullo