A Bolzano/Danza requiem al dolore e inno di rinascita
Il festival di danza contemporanea riparte dai classici
di Nicola Arrigoni
È una sdraio con un ombrellino malmesso, il segno di una vacanza, un’assenza, ma anche una pausa dal plot de Le Cygne composto da Mikhail Fokin per Anna Pavlova nel 1905, sul brano n. 13 del Carnevale degli animali di Camille Saint Saën. Il festival Bolzano Danza ha chiesto a coreografi ospiti della kermesse di regalare una loro personale interpretazione de La morte del cigno, creazioni confluite sotto il progetto Swans Never Die, ideato dal direttore artistico Emanuele Masi che muove dall’idea di ri-partire da una delle icone del balletto classico per rileggerlo secondo un taglio contemporaneo. Hanno ripensato Le Cygne Kor’sia, Radhouane El Meddeb, Club Guy & Roni, Olivier Dubois, Camilla Monga, Chiara Bersani, Silvia Gribaudi a cui si aggiungono i 16 diversi assoli, live e digital, di The Dying Swans Project della Gauthier Dance presentanti in parte in teatro nella serata denominata The Dying Swans Live Experience e in parte sui monitor allestiti nel quartiere Don Bosco di Bolzano per U-Game/Dying Swans. Quella sdraio balneare fermata nel tempo è il segno di un prendersi una pausa da sé stessi che per il cigno vuol dire decidere che per morire c’è sempre tempo.
In The Dying Swan Sofiko Nachkebiya, accompagnata al piano da Jochem Braraat, si ispira al finale di Swan Lake the Game. La scrittura coreografica di Roni Haver e Guy Weizman racconta di un cigno riottoso, non così determinato a farla finita. In preda ai fumi dell’alcool e con una pistola in mano per il cigno di Nachkebiya la fine tragica non è scontata, il ripensamento è dietro l’angolo e si sintetizza nella battuta: «C’è sempre tempo per morire». Potente e ironica, leggera e inquieta Sofiko Nachkebiya costruisce un pezzo pieno di virtuosismo e al tempo stesso dissacrante nella sua libertà di dire no alla morte per amore, di dire no alle scarpette e si mostra determinata a piegare la linearità dei passi classici al disequilibrio resiliente di un movimento che libera. In tutto questo tradizione e ansia innovativa coesistono con il sorriso, lo sgangherato procedere di un cigno tanto aggraziato quanto inconsolato della fine che lo dovrebbe attendere.
Con Peso piuma Silvia Gribaudi gioca sul suo corpo non conforme di danzatrice, gioca sulla tortura delle scarpette a punta, gioca con gli spettatori a cui chiede di mimare il movimento delle sue braccia in cui il tremare delle mani raccontano di una lenta, ma inesorabile agonia del cigno morituro. Silvia Gribaudi incoraggia gli spettatori ad agire, parla di «neuroni a specchio» e costruisce un piccolo e leggero divertissement in cui la semantica del balletto classico viene gioiosamente irrisa nel suo faticoso sforzo di combattere la forza di gravità. Ciò che propone Gribaudi è un elzeviro, è un esercizio di bella e ironica scrittura coreografica in cui il corpo della danzatrice si fa cortocircuito per un cigno che perde piume e si ritrova ad uscire di scena caricato su un carrello, davanti agli sguardi divertiti di un pubblico invitato a mimare quella morte del cigno, francamente e intelligentemente comica. Sono questi due esempi del progetto Swans Never Die da cui Bolzano Danza ha deciso di ripartire, guardando a una icona della tradizione, un po’ come dire: ricominciamo dai fondamentali e ricostruiamo il pensiero sulla danza, interrotto dalla pandemia.
Tradizione e contemporaneità diventano un tratto distintivo dell’edizione 2021, lo sono nelle diverse anime del festival, ma soprattutto nella consapevolezza che la riflessione sul linguaggio debba coesistere al linguaggio come mezzo per leggere, interpretare, riflettere il mondo che ci circonda, i grandi temi di sempre, così come le urgenze di una contemporaneità che ci chiede di ricostruire e reinventare un nuovo modo di fare comunità. In questo senso l’aver proposto Graces di Silvia Gribaudi nel Parco delle Semirurali è stato un modo per uscire dal teatro, portare l’irridente coreografia di Gribaudi in un quartiere periferico di Bolzano, mettendo in scena la divertita provocazione che vede la coreografa flirtare e divertirsi con i corpi atletici dei tre danzatori Andrea Rampazzo, Matteo Marchesi e Siro Guglielmi. Il riferimento del titolo è alle Grazie del Canova, alla bellezza, ma ad andare in scena è un dialogo col pubblico che sottolinea come lo sguardo di chi assiste sia altrettanto importante dell’azione di chi è in scena, indispensabili l’uno all’altra perché scatti il teatro, la performance. Fuori contesto, in site specific Graces tiene, guarda meno alla provocazione/confronto fra i corpi statuari dei danzatori e quello non atletico di Silvia Gribaudi e si offre più come leggerissimo divertimento all’insegna di un danzare costruito con abilità coreutica e il giusto pizzico di ironia.
È un viaggio nel tempo e nei ricordi di un uomo che torna nella sua casa dell’infanzia quello che propone Hidden della coreografa Laly Ayguadé e della sua compagnia. Coperti da un cellophane i corpi emergono così come i ricordi dalla mente di quel signore in elegante abito beige. Il suono del telefono, le patate sbucciate da mamma, una pianta, un sofà o un tavolino attorno al quale giocare alla morra sono le immagini che emergono dal buio, immagini familiari definitivamente passate e che rivivono nella memoria con un pizzico di malinconia. In un mix di folclore e di racconto memoriale Hidden è uno spettacolo dalla forte fisicità dei danzatori, in cui le scene di lotta e sfida fra i tre fratelli e quelli di tenerezza di giovani amanti si susseguono in un continuum che è leggero e dolce come quei ricordi nascosti dal tempo. C’è spazio per i giochi, il sapore dei cibi di mamma, le sfide adolescenziali, c’è spazio per una vita che è evocata, una morte che è presente e di volta in volta esorcizzata o semplicemente allontanata. Tutto questo accade in Hidden un lavoro la cui pecca è forse quella di voler dire troppo e tutto, di concedersi a un certo stereotipo mediterraneo che rischia di banalizzare un po’ l’intera operazione. Hidden decolla ed emoziona quando il narrato lascia spazio ai corpi e a una coreografia che sa farsi ben volere, facile da seguire e in grado di equilibrare scene corali e delicati cammei grazie ai danzatori Anna Calsina, Diego Sinniger, Akira Yoshida, Lesard Tranis, Pierto Steiner che sanno essere un tutt’uno e comporre tableaux vivant inanellati sul filo del tempo che fu. La voce di Joana Gomila e la musica originale di Fanny Thollot fanno di Hidden un lavoro che sa giostrarsi abilmente fra energia e malinconia, nel segno di una coreografia che evoca e dice, inquieta e fa gioire in una corsa senza soluzione di continuità in cui rivivere quei ricordi che emergono gravidi di nostalgia.
È la cronaca che inevitabilmente irrompe – anche non volendo – nel pensiero che sta dietro ogni spettacolo o produzione che sia. Così è per Requeim (Sià Karà), produzione pensata nel 2020 per festeggiare i 40 anni dell’Orchestra Haydn. Fondazione Haydn/Bolzano Danza ha commissionato la riscrittura del Requiem di Mozart a Matteo Franceschini (Leone d’argento alla Biennale Musica 2019), partitura musicale destinata a trovare nel disegno coreografico di Radouane El Maddeb un suo compimento, nel segno di un requiem globale. La pandemia ha bloccato tutto, ritardato di un anno la messinscena, ma non la voglia di costruire un affresco umano di condivisione e convivenza. Sià karà in cubano sta per «smetti di piangere e cerca le soluzioni». Ed è questo lo spirito che aleggia nel lavoro del coreografo e della compagnia cubana La compagnie de Soi/Micompañia. In scena i danzatori cubani insieme a un nutrito gruppo di figuranti che per età, per colore della pelle, per abbigliamento raccontano di un’umanità variegata, raccontano il plurale del nostro tempo, presenze fisiche che sostengono e fanno da coro a un disegno coreografico che pesca a man bassa dalla tradizione rituale cubana. La riscrittura del Requiem mozartiano – di cui rimangono eco ricorrenti – vede intrecciarsi l’esecuzione della partitura da parte delll’Orchestra Haydn, diretta da Jean Deroyer con la melodia elettronica alla consolle, suonata dallo stesso Matteo Franceschini. In mezzo a questo dialogo i corpi dei ballerini, il rito coreutico messo in scena da Radouane El Maddeb in cui a prevalere non è il pianto, bensì la necessità di rialzarsi, di reagire, di elaborare il lutto, di metabolizzare il dolore per dare corpo a una nuova comunità, o forse a una comunità rinnovata. Per questo la dedica della produzione in prima mondiale – a novembre in scena ad Avignone e a dicembre a L’Avana a Cuba – è stata alle vittime del Covid. Ma chi si aspettava un lavoro funereo e cupo, ha dovuto in parte ricredersi e fare i conti con un lavoro intenso, a tratti luminoso, in cui la cupezza dei toni è destinata a risolversi in una eleganza del gesto e leggerezza di respiro. Ciò che va in scena è la voglia di ricostruire lo stare insieme che dalla fisicità dei ballerini si estende per contagio alla massa di figuranti che sono lì nella loro verità corporea a raccontare di un’umanità che non si dà per vinta. E allora, paradossalmente, alla fine si applaude alla composizione di Matteo Franceschini e alla coreografia di Radouane El Maddeb con un senso di levità. Il danzare da solisti dei ballerini cubani e il condividere lo spazio con i 25 figuranti costruiscono un mix, uno scambio di sguardi e di pose corporee che definisco un possibile ri-cominciare, forse una nuova alba, dopo tanto dolore. Per questo Requeim (Sià Karà) regala allo spettatore attento la consapevolezza di come il linguaggio dell’arte – più che mai oggi – possa aiutarci a trovare la via, possa essere quello specchio in cui riflettersi, lo spazio in cui elaborare visioni comunitarie, possibili utopie costruite su fondamenta di bellezza e pensiero.
Sta forse in questo la necessità per Bolzano Danza di intrecciare relazioni, mischiare la vocazione internazionale e multicodica con la realtà di Bolzano nel coinvolgimento della città e delle sue istituzioni in un continuo scambio di locale e globale, particolare e universale. Da qui la collaborazione con Museion, il museo di arte contemporanea, e Fondazione Haydn/Bolzano Danza. Da qui il coinvolgimento di Maria Hassabi, artista/performer cipriota ma naturalizzata newyorkese, che si è esibita all’interno della mostra di Jimmy Robert, Mirror Language. Corpo, immagine fissata nella fotografia, movimento e tempo sono le parole chiave della performance Untitled (2021) che Hassabi ha realizzato all’interno dell’esposizione. Il corpo della performer ha abitato lo spazio cadenzando il tempo con piccoli e continui movimenti in una sorta di danza al rallenty in dialogo con le opere di Robert: fotografie dello stesso artista che scomposte, piegate, arrotolate finiscono con comporre nuovi corpi, immagini speculari di inedite visioni. E allora con Jimmy Robert si può dire: «Di nuovo pliè. Tutt’uno con/ L’immagine nessun corpo/ ma una tenera superficie/ Da stampare/ Da strappare/ aperto». Forse il racconto di Bolzano Danza sta proprio in queste parole, in questo ripetere l’ennesimo pliè alla ricerca di una scrittura che si nutre del copro perché nella danza «il corpo diventa la parola sulla carta».