Dopo due edizioni autunnali (2021 e 2022) e una completamente saltata (2020) a causa del Covid19, il Festival di Castrovillari torna agli antichi splendori primaverili, toccando il numero 23 come l’anno in cui s’è svolto. Merito alla direzione artistica formata da un tenace e sempre entusiastico trio che risponde ai nomi di Dario De Luca, Saverio La Ruina, Settimio Pisano e un plauso al nuovo ufficio stampa che da quest’anno si avvale della professionalità di Maya Amenduni. Come è ormai consuetudine c’è sempre un’immagine che caratterizza il Festival calabrese e questa volta per il manifesto è stata scelta un’opera fotografica del russo Ivan Ozerov che vive a Mosca, ritraente un nudo di donna (forse solo un manichino) con gambe aperte e braccia penzolanti, racchiusa all’interno d’un ampio lenzuolo di plastica trasparente, certamente toccata da varie calamità, ma che lentamente si sta riprendendo per rinascere a nuova vita. Come del resto è questa manifestazione teatrale, amata dal pubblico e dai critici di tutta Italia, che cercano di non mancare a molte “prime” e a tanti spettacoli sui nuovi linguaggi della scena contemporanea. Nei tre giorni dei primi di giugno ho visto una decina di spettacoli e qui di seguito cerco di porgerli a chi avrà la voglia e la curiosità di leggermi.
I PERSIANI DI ESCHILO Castiglioni sacchi di sabbia. Foto Angelo Maggio
Per me vedere I Persiani di Eschilo secondo Silvio Castiglioni, teatrante navigato, fondatore assieme ad altri del CRT di Milano (Centro di Ricerca per il Teatro) e del Teatro di Ventura di Treviglio, è stato come tornare bambino quando nel cortile di casa mia radunavo un gruppo di amichetti e coetanei, che facevo pagare con poche lire, allestendo degli spettacolini tratti dai fumetti dell’epoca come Tex Willer, Capitan Miki e il Grande Blek, utilizzando soldatini, capanne e cavallini. Qui Castiglioni, nel Capannone dell’Autostazione, con la regia della compagnia pisana dei Sacchi di Sabbia, al posto dei soldatini utilizza delle formelle di legno rettangolari di varie misure, pure illuminate, muovendole con le sue mani e animandole con la sua voce. Sicché abbiamo di fronte una sorta di cuntista, alla maniera di Cuticchio, che anima dei pezzetti di legno colorati posti su due tavolini e che ci racconta la tragedia più antica del mondo. Quella che vede lo spocchioso Serse espandersi verso l’Ellade, muovere una guerra contro i greci a capo del suo esercito persiano che verrà sconfitto la prima vota nella battaglia navale di Salamina, mentre gli oracoli annunciano che avrebbe preso una seconda batosta a Platea, non ascoltando i sinistri presagi della madre Atossa e neppure i consigli del Coro dei vecchi che gli dicono di mettere la testa a posto, diventare saggio come il padre Dario e dare gloria all’impero di Persia.
LidOdissea Berardi Casolari. Foto Angelo Maggio
Gianfranco Berardi torna a Castrovillari, al Teatro Vittoria, presentando in anteprima il suo nuovo spettacolo titolato LidoOdissea, una sorta di parodia dell’eroe greco proiettato ai giorni nostri, ritornato dopo tante avventure nella sua Itaca, decidendo finalmente di prendersi una vacanza al mare nel luogo del titolo, con sua moglie Penelope (Gabriella Casolari), suo figlio Telemaco (Ludovico D’Agostino), in compagnia di un aedo non vedente, una sorta di Tiresia al femminile quello di Silvia Zaru. Sulla scena non mancano ombrelloni e sdraio e sono visibili gli usci azzurri d’un paio di cabine. Berardi, come è nella sua natura di teatrante a tutto tondo, è una forza della natura, un personaggio che nel ricordare a tratti le disavventure di quell’eroe greco, ce lo restituisce al tempo d’oggi come la figura di un uomo che, per dirla con Sartre, vive a porte chiuse dove l'enfer c'est les autres (l’inferno sono gli altri). S’annoia questo Ulisse di Berardi, bisticcia con Penelope e ha rispetto per Telemaco che sembra un giovane di buon senso, poi magari gioca al pallone e il pensiero vola a Nausicaa e certamente ai suoi amori con la ninfa Calipso e la maga Circe. Capisce questo eroe ritrovato che la società contemporanea è un’altra cosa, piena di Polifemi banchieri e di Amleti giustizieri, densa di gente per cui l’apparire è più importante dell’essere, pullulante di vuoti individui che pensano solo ad avere, accumulare ricchezze per raggiungere una felicità soltanto effimera. É un mondo complicato quello che viviamo, ricco d’inquietudine, anche di luoghi comuni che fanno dire a Berardi nel finale che chiederà scusa, andrà avanti e proverà ad essere Nessuno.
LA SINDROME DELLE FORMICHE Occhisulmondo. Foto Angelo Maggio
Ciro Masella e Giulia Zeetti protagonisti al Teatro Sybaris de La sindrome delle formiche di Danieli Aureli, pure regista assieme a Massimiliano Burini che firma a sua volta il disegno luci, per conto della Compagnia Occhisulmondo (tutto unito), sono una coppia indicata solo con le lettere “E”ed “F” e li vediamo per tutto il tempo dello spettacolo in un salone senza arredi, vi stazionano solo due piccole abat-jour, due paia di scarpe e una lampada al centro che pende dall’alto. Lui ha uno scatolo rosso in mano, lei niente. Li vediamo parlare come se al mondo fossero rimasti soltanto loro due, quasi come quei due personaggi de La nube purpurea (1901) di Matthew Philip Shiel. A lei fa paura la parola “squartato”, a lui niente, le ricorda più volte che devono uscire, andare a cena fuori. Invece, beckettianamente, restano chiusi in casa a parlare delle cose che più assalgono i loro pensieri. Le note della Canzone per te di Sergio Endrigo accarezza le loro parole e ad un tratto lei insegue colonie di formiche sul pavimento e le fa fuori sbattendoci sopra una di quelle scarpe a terra. Ma lei sa che è una battaglia persa perché questi insetti sono stati capaci di sopravvivere ai dinosauri. Ad un tratto i due si abbracciano. Vogliono capire il gradiente del loro amore. Un boato proveniente dal soffitto dei vicini di casa è accompagnato dalla caduta di polvere di calcinacci, somigliante invero alla polvere di borotalco, notoriamente in grado di tenere lontano quegl’invincibili insetti. Adesso lui le dona quello scatolo rosso. É il regalo per il suo compleanno: una piccola pianta grassa piene di spine che lei gradisce molto. Poi dopo essere ritornati dalla cena i due continuano a parlare, pure di tanta tristezza al mondo, dicendole lui che invecchieranno insieme portandola in braccio.
RE PIPUZZU Dario De Luca. Foto Angelo Maggio
Che Dario De Luca fosse un bravo attore lo sapevano già, ma non sapevano che fosse pure un formidabile contastorie in grado di ipnotizzare il pubblico di Castrovillari raccontando in dialetto calabrese e in lingua, la favola di Re Pipuzzu fattu a manu, un melologo per tre finali, tratta dalla fiaba Re Pepe di Letterio Di Francia riscritta da Marcello D’Alessandro, accompagnato dalle accattivanti musiche eseguite dal vivo con vari strumenti da Gianfranco De Franco. Agghindato con una lunga gonna verde-oliva, somigliante ad un satrapo seduto su una sedia con un leggio di fronte, De Luca inizia come si conviene con C’era una volta un re …raccontando appunto d’un re rimasto vedovo con una figlia da sposare, qui chiamata Reginotta, una fanciulla tosta che sa il fatto suo, cui non piace nessuno dei pretendenti che il padre le propone. E allora lei decide di farselo con le sue mani come le piace, impastando farina, zucchero e lievito. E voilà Re Pipuzzu l’uomo che sposerà facendola felice. Una gioia purtroppo che dura poco perché un giorno uscendo insieme in carrozza, un vento fortissimo simile ad un tornado lo fa volare via facendolo scomparire alla vista della sua Reginotta. La quale affranta per la perdita andrà a cercarlo per mari e monti, incontrando nel suo cammino tre diversi vecchi saggi dalla lunga barba che le daranno una castagna, una noce e una nocciola, in grado una volta aperte di trovare l’amore suo che nel frattempo ha avuto altre tresche amorose. A De Luca non piace la chiusura zuccherina del “vissero felici e contenti” e allora propone al pubblico della Sala Varcasia tre finali che dovrà votare con alzata di mano. Il primo finale è se la Reginotta dovrà tenersi Re Pipuzzu così come l’ha trovato, il secondo è se deve lasciarlo e il terzo è se deve impastarne uno nuovo. Secondo voi come ha votato la maggioranza del pubblico? E voi lettori come votereste?
CITTA SOLA lacadadargilla ferroni parise. Foto Angelo Maggio
Il personaggio tratteggiato da Olivia Lang nel suo libro Città sola, vivificato dalla lettura di Lisa Ferlazzo Natoli, pure regista assieme a Alessandro Ferroni, nell’impossibilità a raggiungere un grado d’intimità, esperimenta cosa significa essere soli in una città come New York dove la solitudine può essere un posto affollato. Non ho letto il testo tradotto da Francesca Mastruzzo, cui si deve a Fabrizio Sinisi riduzione e drammaturgia, ma la sensazione che ne ho ricavato è che questo spettacolo, molto intimo e personale nel suo incedere, sembra un radiodramma, buono più per la radio che per la scena. Anche perché la Natoli - per carità niente da dire sulla bravura - tranne che per alcuni frangenti, legge il testo tenendolo in mano per 80 minuti e il suo racconto enfatico, ironico, loico, intorno a “sette inquilini speciali”, colti dentro o fuori da quei grattaceli, illuminati la sera da somigliare a dei presepi, mi entrava meglio in testa quando chiudevo gli occhi e ascoltavo le sue parole accompagnate dai brani musicali Total Elipse di Klaus Nomi, O Superman (For Massenet) di Laurie Anderson, Too Many Friends dei Placebo, Paint it, Black dei Rolling Stones. Poi nomini New York e il pensiero va alle Torri gemelle, a Manhattan, al Moma, alla Pop Art di Andy Warhol e Basquiat, ai dipinti realisti di Edward Hopper che trasmettano la solitudine dell’American way, invero alcuni proiettati sulla scena curata dal collettivo romano Lacasadargilla (tutto unito) nello spazio del Capannone Autostazione.
VIA DEL POPOLO Scena Verticale. Foto Angelo Maggio
Ho ri-visto Via del Popolo di e con Saverio La Ruina al Teatro Vittoria della sua Castrovillari e devo dire che il simpatico performer calabrese riesce sempre ad entrare nella mente e nel cuore di chi assiste ai suoi singolari spettacoli. Nel rimandare i lettori al mio pezzo del 20 dicembre dell’anno scorso, pubblicato su Sipario.it, scorrendo l’alfabeto della rubrica, devo dire che in compagnia del collega Chimenti, ho percorso questa Via che ha dato il titolo allo spettacolo, trovando chiuse botteghe e case, compreso il Cinema e il Bar del padre di La Ruina, immaginando il futuro artista quando con la sua giacchetta bianca serviva i clienti ai tavolini, sciamando poi in strada a giocare con i suoi compagni al tempo in cui luoghi e persone apparivano in bianco e nero ma densi di poesia..
FELICISSIMA JURNATA Puteca caledonia. Foto Angelo Maggio
Giorni felici (1961), dramma capolavoro in due atti di Samuel Beckett, è diventato nelle mani della Puteca Calidonia (un collettivo attivo nel Rione Sanità di Napoli), Felicissima jurnata. Un testo messo in scena al Teatro Sybaris da Emanuele D’Errico, che ha pure curato la drammaturgia in dialetto napoletano, (per me non tutto comprensibile), interpretato da Antonella Morea nei panni d’una Winnie di 109 anni che ancora s’imbelletta, mette lo smalto alle unghie, suona e canta e da Dario Rea che non si chiama Willie ma Lello. La donna qui non è sepolta fino alla vita in un alto cumulo di sabbia, ma se ne sta seduta nella bocca d’una montagnola piramidale, simile al Vesuvio, (qualcosa di simile la realizzò Bob Wilson per Adriana Asti ad un Festival di Spoleto alcuni anni fa) lavorando a maglia, senza l’ombrellino che le ripari la testa, blaterando ininterrottamente su ogni cosa, spesso rimproverando il marito che si muovicchia come può in uno spazio piccolo, pieno zeppo di cianfrusaglie, pure d’una lavatrice che fa le bizze e d’un televisore illuminato che non trasmette niente perché pieno d’acqua. Tuttavia informandosi sulla salute del marito che ha avuto un ictus e un infarto, premurosa nel ricordarli di mettersi la cravatta e le mutande di lana, e mentre echeggino le parole della canzone Reginella, gli chiede se è felice della vita che ha vissuto, se crede ancora in Dio, se ha paura della morte e se gli vuole ancora bene. Infine Lello sale in alto nella postazione della moglie e non si capisce se il suo è un abbraccio affettuoso o un modo per soffocarla.
Giuseppe Provinzano in Storie di noi di Beatrice Monroy
Il 1992 è un anno da ricordare per sempre. Non solo per Palermo ma per tutto il mondo. Il 23 maggio 500 kilogrammi di tritolo fecero saltare a Capaci Giovanni Falcone sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre 57 giorni dopo, il 19 luglio, nella Via D’Amelio una rossa Fiat 126 carica di esplosivo uccisero Paolo Borsellino e cinque poliziotti. Due attentati di stampo terroristico- mafioso su cui sono stati scritti libri, realizzati film e spettacoli teatrali come questo Storie di noi, un testo tosto di Beatrice Monroy, interpretato e messo in scena da Giuseppe Provinzano, leader della compagnia Babel, nel Capannone Autostazione. Provinzano con la “i”, puntualizza l’attore e regista palermitano durante l’urticante spettacolo, e non Provenzano con la “e” noto mafioso mandante di tanti omicidi. Uno spettacolo che comincia con un forte boato, mentre Provinzano in tutta sportiva e coppoletta di lana in testa, giochicchia col pallone, avendo intorno sei tute bianche e due automobiline che gli girano intorno, mentre sul fondo scena sono stesi dei lenzuoli bianchi su cui s’imprimono delle lettere dell’alfabeto, il cui senso compiuto si vedrà soltanto alla fine. È uno spettacolo che dà voce alla gente comune, ignara come Provinzano che non sa cos’è successo, reagendo non solo indignandosi e maledicendo gli attentatori, ma organizzando cortei di protesta e altro ancora, perché il sangue di tanti innocenti non lordi più le strade di Palermo. Con il suo stile di cuntista, di scuola cuticchiana, in cui le parole si accavallano in modo sincopato, quasi musicale, Provinzano si cala nei panni di vari personaggi, pure quelli di complice o di pentito, piantando una sfilza di lumini accesi sul parterre, a formare quasi un piccolo cimitero di anime innocenti, sino a quando si leggerà a chiare lettere sul fondo: TREMA LA TERRA TREMA IL MONDO TUTTI GIU PER TERRA.
Beat Forward
Igor Urzela e Moreno Solinas hanno presentato al Teatro Sybaris uno spettacolo inedito di Teatro-danza appellato Beat Forward. Una ricerca particolare sui nostri corpi che si mettono in relazione con altre persone e su come siamo in grado di proiettare sugli altri alcune immagini di noi stessi. Quattro i danzatori, Roberta Racis, Silvia Sisto, Siro Gugliemi e Fabio Novembrini, che hanno dato vita per 35 minuti ad una coreografia pennellata sui loro corpi, la cui colonna sonora di musica techno era un inno ad una danza da centodieci pulsazioni al minuto, molto ritmata all’inizio dalla sola Racis cui poi si univano i suoi compagni, liberando energie sempre più intense, emulando con i movimenti delle braccia varie discipline sportive, in particolare la scherma, la pallacanestro, la ginnastica a corpo libero. Movimenti accompagnati a volte da gridolini, un modo forse per cambiare postura e direzione, non riuscendo tuttavia ad intrigare il pubblico che rimaneva impassibile e tutt’altro che ipnotizzato.
Welcome to my funeral
Chiudeva il Festival di Castrovillari 2023 un altro spettacolo di Teatro–danza d’una quarantina di minuti, il cui titolo era, manco a dirlo in inglese, Welcone to my funeral coreografato da Brandon Lagaert e andato in scena al Teatro Vittoria. Anche qui quattro danzatori, Alessandro Ottaviani, Anbel Barotte Moreno, Olivia Grassot, Tonia Laterza, in tuta bianca da ricercatori dello spazio, con tanto di mascherina tipo sub agli occhi, unico elemento con quale riescono a comunicare tra loro. Quattro fasci di luce fucsia ci trasportano in un mondo più virtuale che reale e si nota uno di loro a terra, rianimato poi dal gruppo facendogli indossare un collare luminoso e poi la maschera salvifica e danzando poi tutti al ritmo di musica techno. Una vaschetta piena d’acqua richiama l’attenzione di una loro, come se avesse fatto una scoperta mirabolante quando vi immergerà le mani e si bagnerà il viso, richiamando l’attenzione degli altri, due dei quali poi avranno un rapporto sessuale (credo) solo avvicinando le loro maschere, tenendole incollate l’una all’altra e distendendosi poi a terra senza più muoversi, mentre il quarto protagonista si esibirà senza maschera in una break dance a stretto contatto con le tavole del palcoscenico. Fine.
Gigi Giacobbe