La Berlinale ha compiuto, con quest'ultima edizione, il suo sessantacinquesimo anniversario. Un'età, questa, che nelle nostre società moderne costituisce una linea di demarcazione tra la vita scandita dal ritmo (più o meno coercitivo) dell'attività lavorativa remunerata, e la sua sospensione per l'entrata dell'organismo nella fase biologica ultima, quella della vecchiaia. Ma, come per quelle esistenze dedite all'arte, che di norma disconoscono l'età pensionabile, la kermesse berlinese procede con un certo ostentato spirito giovanile nella sua opera di scrematura delle pellicole fresche di conio. Questi suoi tratti inneggianti alla gioventù, se è vero che esistono, sono sicuramente da ricercare nelle opzioni che la contraddistinguono da sempre: un certo esibito entusiasmo per tematiche e forme stilistiche più palesemente trasgressive, per le produzioni indipendenti (si vedano soprattutto le sezioni denominate Panorama e Forum des jungen Films), per le cinematografie emergenti di Paesi economicamente svantaggiati, per opere di registi messi a tacere da regimi politici contrari alla libertà di espressione. È quest'ultimo il caso, assurto a emblema della odierna Berlinale, del cineasta iraniano Jafar Panahi, dal 2010 agli arresti domiciliari con un divieto ventennale di esercizio della propria professione. Vincitore con Pardé, nel 2013, insieme a Cambuzia Partovi, di un Orso d'argento per la migliore sceneggiatura, Panahi, fisicamente assente, ha concorso in quest'ultima edizione con il film Taxi aggiudicandosi l'oro.
Un esito, questo, per molti versi prevedibile. La giuria internazionale, in consonanza con l'atteggiamento assunto dal comitato di selezione del festival, ha optato per il massimo riconoscimento, solidarizzando così con la vittima e fornendo una risposta politica alla manovra liberticida messa in atto da quel sistema repressivo. Che non si tratti, tuttavia, di una vittoria immeritata, stanno a testimoniarlo i numerosi e unanimi apprezzamenti di critica e di pubblico: Taxi è certo un film "clandestino", e autoreferenziale per necessità – Panahi veste i panni di un improbabile tassista che, viaggiando per le strade di Teheran e intrattenendosi con i suoi presunti clienti sugli aspetti più disparati della vita sociale da ognuno di essi condivisa, pone al centro la propria condizione di artista esiliato in patria – ma dai pregi indiscutibili. Soprattutto se si tiene conto delle limitazioni tecniche rappresentate dall'uso di due o tre piccole telecamere sistemate nell'abitacolo della vettura. Un road movie che fa propri lo stile e i toni della commedia, ma che rivela anche una forte carica umana, a suo modo eversiva, incarnata dal perpetuo sorriso del protagonista e dalla sua calma ironia capace di trionfare su tutte le amarezze subìte.
Al genere del film di denuncia appartengono le opere di due registi cileni, El Club di Pablo Larrain, che ha ottenuto il Gran Premio della Giuria, e El boton de nacar, diretto da Patricio Guzmán, Orso d'argento alla sceneggiatura. Se Larrain, rinunciando ad affrontare il tema della dittatura di Pinochet, centrale nei suoi precedenti film (Tony Manero, Post Mortem e No), ne lascia intravedere i fantasmi e le passate complicità con il regime raccontando con mano sicura la storia esemplare di una piccola comunità isolata composta da preti cui è negata la pratica del sacerdozio per via delle colpe commesse in passato – tra le quali l'immancabile pedofilia – Guzmán, con un suggestivo documentario che coniuga la memoria dell'acqua con quella delle popolazioni, annientate o sottomesse, che abitavano un tempo la Patagonia, riporta abilmente il discorso sul tema dei desaparecidos, mostrando ancora una volta le atrocità del regime nella sequenza ad esempio dell'affondamento nell'oceano delle salme di presunti sovversivi – argomento questo che, trapassando dalla natura alla Storia, chiude ciclicamente la parabola esistenziale sul mistero dell'acqua.
Ugualmente insignito di un Orso d'argento (Alfred Bauer Preis), il guatemalteco Ixcanul di Jayro Bustamante narra di una famiglia contadina allogata in un tugurio e della figlia Maria, promessa sposa a un giovane benestante, ma messa incinta da un ragazzotto, bracciante in una piantagione di caffè, che per possederla le promette di portarla con sé nella sua fuga verso gli Stati Uniti; nonché del neonato dato per morto ma in realtà fatto sparire dal futuro marito per cancellare ogni traccia del disonore dal matrimonio concordato. Una storia semplice e lineare, ambientata in un mondo ancestrale, dominato dalle forze primigenie di un vulcano, che descrive la vita, il lavoro e le credenze di una popolazione maya superstite. Intensa, per la forte carica realistica, l'interpretazione di Maria Telón, nella parte della madre, e quella della giovane protagonista Maria Mercedes Coroy.
Non della fame atavica del mondo contadino, bensì del digiuno coatto e del suo rovescio bulimico dovuti a un'anomalia nelle relazioni famigliari della civiltà dei consumi, ci parla Body, diretto dalla polacca Małgorzata Szumowska (Orso d'argento per la migliore regia). Un giudice istruttore impeccabile nel suo mestiere ma detestato e avversato dalla figlia Olga, una giovane anoressica divenuta inconsolabile in seguito alla precoce scomparsa della madre, e Anna, la psicoterapeuta della ragazza e zelante animatrice di sedute spiritiche, sono i personaggi di questa vicenda che ha in sé le tonalità del dramma, ma i cui esiti tendono decisamente alla commedia. Ironica e toccante la sequenza finale, nella quale Anna, seduta a un tavolo con il padre e la figlia per evocare un qualche segno materno inviato dall'aldilà – a riprova delle sue doti medianiche messe costantemente in dubbio dall'uomo –, involontariamente riporta, grazie al suo fallimento, il sorriso (e la speranza) sui volti dei due. Vincitore ex aequo con la Szumowska, il rumeno Radu Jude, autore di Aferim!, film sarcastico al punto giusto e irriguardoso verso codici e convenzioni narrative, che usa il motivo dell'inseguimento e della caccia al fuorilegge, tipico di tanti western, per rimettere in gioco elementi culturali, etnici e religiosi di un'epoca solo apparentemente tramontata. Mentre l'Orso d'argento per la migliore attrice e per il migliore attore sono andati a Charlotte Rampling e a Tom Courtenay, i due protagonisti di 45 Years, diretto da Andrew Haigh, che descrive l'intimo dramma di un'anziana coppia, a una settimana dai festeggiamenti dell'anniversario del loro matrimonio, in seguito alla notizia giunta al marito del ritrovamento del corpo, perfettamente conservato in un ghiacciaio svizzero, della sua fidanzata infortunatasi mezzo secolo prima durante un'escursione. Una scoperta che, seppure fatta a distanza, incrina l'armonia e la fiducia dei due e mette sotto assedio il loro passato coniugale, obbligandoli a un più problematico bilancio.
Se dunque la vita con le sue imprevedibili sorprese è un continuo banco di prova che non risparmia neppure le età venerande, anche il cinema con le sue avventure e i suoi successi non sempre calcolabili può ad ogni nuovo passo rimettere in discussione l'esperienza di un artista consumato. Restare giovani nello spirito e nella sfida, per ritornare al nostro tema d'esordio, non è da tutti. E i risultati parlano chiaro. Stralunato e anacronisticamente provocatorio, Eisenstein in Guanajuato dell'ultrasettantenne Peter Greenaway delude chi, suggestionato dal titolo, intendesse la pellicola come un omaggio al genio intramontabile del cinema russo. Il film, senza quasi nemmeno sfiorare l'aspetto centrale di quel soggiorno, riduce il segmento biografico dell'esperienza messicana del regista di Ottobre e La corazzata Potëmkin al suo coming out omosessuale, sollecitato dalla sua guida locale, il bisessuale Palomino Cañedo, che inizia il suo ospite ai misteri della cultura locale e a una sensualità d'alcova condita, ad opera dei due contraenti, di battute sarcastiche sull'Unione Sovietica e il regime staliniano – che presto farà dell'omosessualità un reato - e sugli studios hollywoodiani che alle richieste del regista dei film inneggianti alla rivoluzione opposero un netto rifiuto. Farraginoso e inconcludente anche Knight of cups, del coetaneo statunitense Terrence Malick, meditazione presuntuosa sulla vita fatta di formule di saggezza a buon mercato. Interessante per la fotografia, anche se spesso tendente a un dinamismo perfezionista da spot pubblicitario, questo "itinerario alla ricerca di se stesso e del senso più profondo dell'esistenza" di un giovane (Christian Bale) insoddisfatto del successo e portato a estraniarsi da luoghi e persone responsabili del suo smarrimento, appare come una inutile e prolissa speculazione. Inoltre, infarcito con diverse celebrità (Cate Blanchett, Natalie Portman), spesso usate solo a mo' di comparse, insiste su ambienti e atmosfere fin troppo abusati nell'ultimo mezzo secolo di cinema.
Di scarso rilievo artistico sono risultati anche i film di Werner Herzog e Wim Wenders, ormai anche loro appartenenti alla schiera dei settantenni. The Queen of the Desert, nel celebrare la figura leggendaria di Gertrude Bell (Nicole Kidman), l'intrepida archeologa inglese divenuta poi protagonista della scena politica internazionale a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, ne esagera i toni e si abbandona a quell'esotismo di maniera tipico di tante pellicole hollywoodiane; Every thing will be fine, ultima fatica di Wenders, al quale è stata dedicata tra l'altro una intera retrospettiva, è un dramma psicologico che cerca, in una maniera atipica per il regista tedesco, di mettere a fuoco il sentimento di colpa di uno scrittore in crisi (James Franco) per il trauma subìto in seguito a un incidente che ha involontariamente provocato la morte di un bambino. Sarà che tutti si aspettano da questo autore un'opera finalmente capace di eguagliare i suoi magnifici esordi, ma a noi è sembrata questa piuttosto la riprova che la sua maestria risieda oggigiorno nel documentario e non più nel cinema narrativo.
Ben accolto il film italiano in concorso Vergine giurata, opera prima di Laura Bispuri, che avrebbe meritato almeno un premio per l'ottima interpretazione di Alba Rohrwacher nei panni di Hana, la donna albanese che riacquista corpo e identità, durante il soggiorno milanese a casa della sorellastra, dopo anni di camuffamento sessuale e di isolamento – un prezzo questo pagato all'antica legge albanese per una libertà altrimenti negata alle donne. Da vedere ancora, nella sezione Berlinale special, l'ultimo eccellente lavoro di Ermanno Olmi Ritorneranno i prati, e ancora, quale omaggio a Francesco Rosi recentemente scomparso, Uomini contro, che come l'altro cade nell'anno delle celebrazioni della Grande guerra.