coreografia Marina Giovannini
Compagnia Opus Ballet - direzione artistica di Rosanna Brocanello
Interpreti: Aura Calarco, Sofia Galvan, Stefania Menestrina, Giulia Orlando, Riccardo Papa,
Jennifer Lavinia Rosati, Emanuel Josè Viana Santos, Frederick Zoungla
Debutto: l’11 dicembre 2019, a CANGO, Cantieri Goldonetta – Firenze,
nell’ambito del festival “La Democrazia del Corpo 2019”
Nelle note di presentazione al suo nuovo spettacolo Dreamparade, la coreografa Marina Giovannini elenca una serie di verbi legati a delle azioni specifiche, come: saltellare, organizzare, riordinare, sparpagliare, disegnare, uniformare, domare, sedurre, eseguire, ricominciare, camminare, molleggiare... E molte altre indicazioni. Una scrittura coreografica dettata ai danzatori per attivare – così lo abbiamo percepito – un meccanismo di creazione libero e strutturato allo stesso tempo. Il risultato, pop, onirico, surreale, è accattivante. Dreamparade è un’astratta rilettura dello storico Parade, balletto cubofuturista del 1917, nato dalla collaborazione fra Jean Cocteau, Léonide Massine, Picasso e Erik Satie, per i Ballets Russes di Sergej Diaghilev, compagnia dalla quale discende tutta la storia della coreografia del ‘900. Spettacolo nuovissimo per l’epoca, dai ritmi furibondi, dove entrano anche i suoni della realtà (macchina da scrivere, sirena) e le acrobazie della danza muscolare, Parade cattura gli aspetti più sfacciati e vivaci della natura umana ispirandosi al mondo del circo. Protagonisti un mago cinese, una giovane ragazza americana, due manager e due acrobati che si esibiscono con l’intento di attrarre la curiosità del pubblico. La nostra, di spettatori chiamati ad essere parte integrante dell’opera, lo è anche per Dreamparade, pur non essendovi qui alcuna linea narrativa esplicita dei personaggi. Il senso lo troviamo nelle parole della stessa coreografa: “Sulle tracce di un’opera così distante cronologicamente da noi – dichiara Giovannini –, Dreamparade ricrea un paesaggio surreale, a tratti molto simile agli scenari contemporanei che stiamo attraversando. La promozione di se stessi oggi sembra irrinunciabile e spesso la comunicazione prende la scena ancor prima che ci sia qualcosa da comunicare. E forse torna, come nel secolo scorso attorno a Parade, l’urgenza di sapere se lo "spettacolo" non consista solo nel tentativo di attrarre il pubblico, in un gioco di seduzione fine a se stesso, o possa esistere perché capace di trascinarci, con un altro linguaggio, laddove la realtà non prevale, consentendoci di plasmare il pensiero e continuare a sognare, tutti quanti, spettatori e attori della nostra vita”. La “parata” di Marina Giovannini si plasma sui corpi dei giovani e bravi danzatori di Opus Ballet, compagnia sempre più versatile nelle diverse pratiche del linguaggio della danza. La coreografia procede per destrutturazione e per accumulazione di movimenti, posture, gesti; per passerelle ritmate e sinuose, avanti, indietro e in circolo, con soste e riprese, uscite e entrate. Semplici camminamenti, andamenti solitari e di gruppo, affastellamenti e smembramenti che lasciano disegni geometrici e frammenti di corpi posizionati nello spazio. Lo riempiono col loro vibrare lineare di fraseggi coreografici, con la ripetizione ossessiva di un loop acustico - a tratti contaminato dalla musica di Satie - che detta il passo e modifica la naturalezza del gesto. Il nostro osservare si sposta così in più direzioni ritrovando momenti in cui confluire verso un solo orizzonte. È quando l’ensemble si ricompone unendosi in un intreccio di braccia e di corpi, a formare un poetico blocco scultoreo fluido e ondivago, piramidale e orizzontale, che dal fondo si sposta in avanti sotto una luce che li isola trascolorando dall’azzurro al rosso. Colorati nei costumi dalle fogge quotidiane, poi a torso nudo, e con cenni di trucco sul viso, i danzatori si mostrano in equilibri o appoggi acrobatici, in ritmi da automi di colpo infranti da fughe, in vacillamenti di gambe e tensioni di braccia. Una vertigine che, pur risentendo di una costruzione da compattare maggiormente, ci trascina nel suo ritmo visivo come note di un pentagramma, conquistandoci.
Giuseppe Distefano