BALLET DE L’OPÉRA DE LYON
LAST WORK
coreografia Ohad Naharin
musica Grischa Lichtenberger, Maxim Warratt
scenografia Zohar Shoef
costumi Eri Nakamura
assistente coreografo/maître ballet Ariel Cohen, Guy Shomroni
luci Avi Yona Bueno (Bambi)
danzatori Yuya Aoki, Jacqueline Bâby, Eleonora Campello, Katrien De Bakker, Tyler Galster, Livia Gil, Paul Gregoire,
Jackson Haywood, Amanda Lana, Eline Larrory, Almudena Maldonado, Eline Malegue, Albert Nikolli, Amanda Peet,
Roylan Ramos, Ryo Shimizu, Giacomo Todeschi, Kaine Ward
runner Maëlle Garnier cover Mikio Kato, Jeshua Costa
Creato nel 2015 da Batsheva Dance Company
Produzione originale Batsheva Dance Company in coproduzione con
Montpellier Danse e Hellerau European Center for the Arts, Dresda. Con il
sostegno del Batsheva New Works Fund e della Dalia and Eli Hurvitz Foundation
Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia, 10 maggio 2025
Last Work, il rituale inquieto dove il gesto tace e il corpo grida. Una donna corre. Corre ininterrottamente, in linea retta, su un nastro trasportatore che sembra non avere inizio né fine. Corre vestita di azzurro, luminosa ma solitaria. Last Work è già iniziato. La corsa non è un’introduzione, è una condanna. Un flusso ininterrotto che diventa misura del tempo. Il Ballet de l’Opéra de Lyon affronta la potente partitura coreografica di Ohad Naharin con un rigore ipnotico e una severità cristallina. Non c’è mai abbandono, non c’è alcuna concessione accattivante, solo precisione e scontro. Il linguaggio Gaga, che nella sua origine è libertà e ascolto, qui si fa linguaggio strutturato, a tratti duro, un lessico fatto di contrazioni improvvise, corpi disarticolati, movimenti che si propagano come onde o spasmi. La tecnica dei danzatori è al servizio del pensiero di Ohad Naharin. Eleonora Campello emerge come se danzasse in dialogo con una materia invisibile. Almudena Maldonado è magnetica nella sua instabilità, l’asse si spezza e si ricompone in continue impennate ritmiche. Non c’è pathos, ma una costante tensione fra il corpo e lo spazio. Yuya Aoki lavora per sottrazione, con una verticalità che si spezza in crolli improvvisi, ogni movimento è definito ma mai prevedibile. Katrien De Bakker e Amanda Lana sono corpi che riflettono, ma non esitano. Albert Nikolli e Kaine Ward si distinguono per un’esattezza esasperata. È un ensemble che non interpreta, vive la coreografia. La danza qui è guerra e gioco, separazione e moltiplicazione. Naharin costruisce e distrugge geometrie con ferocia. Ci sono momenti di silenzio assoluto, in cui il corpo si isola dal gruppo e diventa manifesto di una condizione: il gesto non serve a comunicare ma a esistere. È il corpo come atto politico. Ed è qui che il gesto più carico, più esplicitamente ideologico, appare con devastante semplicità: una danzatrice entra in scena sventolando una grande bandiera bianca. Il colore vibra di ambiguità. Il gesto dello sventolare è lento, rituale, eppure inutile: nessuno la guarda, nessuno risponde. È una provocazione muta. La bandiera è un simbolo senza appartenenza, svuotato. Il paesaggio sonoro firmato da Grischa Lichtenberger e Maxim Warratt costruisce un habitat instabile: i suoni sono impulsi elettronici, frammenti dissonanti che tagliano l’aria. Il suono non accompagna, sfida. È un antagonista. La musica non dà ritmo, impone urgenza. In alcuni momenti la partitura sembra sparire del tutto, lasciando il corpo in un silenzio amplificato, dove il minimo movimento diventa suono. La luce di Avi Yona Bueno è piatta e immobile. Non ci sono ombre, né variazioni drammaturgiche: è una luce che espone, che analizza. È un’assenza di grazia che diventa condizione di verità. I danzatori non sono mai protetti, sempre visibili, sempre esposti al giudizio e allo sguardo. E poi, arriva il nastro. Prima appare come costruzione, poi con gesti chirurgici, il nastro adesivo delimita territori invisibili. È il segno di un controllo sottile, come quello del potere che delimita, separa, isola. Ma è nella parte finale che il nastro cambia funzione, e diventa costrizione vera. Uno a uno, i danzatori cominciano a essere legati, avvolti, intrappolati dal nastro adesivo. Il gesto è lento, inesorabile. Non c’è resistenza, solo accettazione. È un atto di resa o una forma di protesta silenziosa. Il corpo, in Last Work, è l’ultimo luogo di libertà. E anche il primo campo di battaglia. Il Ballet de l’Opéra de Lyon offre una lettura lucida, asciutta. Non cerca emozione, ma tensione. Non seduce. E alla fine, quella corsa, che non si è mai fermata, resta dentro come un allarme, anche dopo il silenzio, non finisce mai davvero. Anche quando lo spettacolo si chiude, l’eco rimane. In questa edizione del Ballet de l’Opéra de Lyon, la coreografia di Ohad Naharin riafferma la sua natura ambigua, e lo fa con una pulizia tecnica che diventa tagliente. Giulia Clai