TRILOGIA MOZART-DA PONTE
Direzione musicale Antonello Manacorda
Regia Jean Philippe Clarac e Olivier Deloeuil (Le Lab)
Il Conte D’Almaviva: Bjorn Burger
La Contessa D’Almaviva : Simona Saturova
Susanna: Sophia Burgos
Figaro : Robert Gleadow
Cherubino: Ginger Costa-Jackson
Guglielmo: Iurii Samoilov
Don Ottavio: Francisco Gatell
Bartolo: Alexander Roslavets
Barbarina: Caterina Di Tonno
Don Alfonso: Riccardo Novaro
Marcellina: Rinat Shaham
Don Basilio: Yves Saelens
Bruxelles, Teatro La Monnaie dal 18 febbraio al 28 marzo 2020
Co-prodotta con il Teatro Massimo di Palermo (dove arriverà in settembre) sta andando in scena a La Monnaie di Bruxelles la Trilogia dapontiana di Mozart (Nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte). L’ idea centrale dei due registi francesi è che le tre opere di Mozart sono in realtà una sola. E, più precisamente, sono un opera sul dominio maschile sulla donna. Per rendere evidente questa loro sublime intuizione (!?) I due (complice Manacorda) fanno del loro meglio per fondere vicende e personaggi delle tre opere. Proiettando sullo schermo ogni genere di video, dalle scene dell’ arresto di Weinberg e di Strauss Kahn per violenza sessuale a scene di altre violenze e altre opere, mentre l’occhio, per non perdere il filo, deve correre a perdifiato da un video all’altro, mentre qualcuno canta sulla scena, ma non si sa bene chi sia e a quale delle tre opere appartenga... Insomma: una gran confusione.
Per carità, il teatro è cosa viva. Deve saper parlare ad un pubblico non astratto, ma storicamente e culturalmente determinato. Niente di male, perciò, nell’interpretare, sottolineare, evidenziare, attualizzare un’opera classica che comunque, in quanto classica, è già per definizione attuale.
Parlare al pubblico di oggi è preoccupazione costante del sovrintendente del teatro La Monnaie Peter de Coluwe. Ripeto: niente di male. Il problema è che spesso, troppo spesso, a La Monnaie capita di immiserire i classici con riferimenti banali alla cronaca quotidiana, inserimenti che non aggiungono nulla, ma sfibrano il tessuto narrativo e alterano il meraviglioso equilibrio dei grandi capolavori. È accaduto già tante, troppe volte in questi ultimi anni. A frastornare e disturbare il pubblico non è tanto l’inserimento di arie e personaggi di un opera nell’altra. Al tempo di Mozart del resto era comune la pratica di arricchire lo spettacolo con arie e brani che con l’opera rappresentata avevano poco a che fare. Ma poteva accadere in apertura o, più spesso, in chiusura. Ora, vedersi sul più bello comparire davanti donna Elvira a cantare l’aria “Ah, fuggi, il traditor..” (Don Giovanni) nel bel mezzo di una seduta di Joga immaginata nella sala di ginnastica (proprio così) del Conte, sicuramente irrita e disorienta. Ma pazienza. Quel che ritengo invece imperdonabilmente superficiale è la riduzione della complessità dei temi della Trilogia (la trasgressione, la sfida al Cielo, la Morte....) ad una riduttiva fenomenologia del potere maschile. E ridicola, come quando si vedono apparire sulla scena i contadini del coro che canta l’elogio al Conte (per avere questi rinunciato allo ius primae noctis) indossando magliette del movimento di denuncia femminile " me too"... Occorre anche dire che Mozart ne esce miracolosamente illeso. Grazie ai cantanti e ad una eccellente direzione orchestrale, nella quale Manacorda si riscatta dalla sua partecipazione alle nefandezze della regia. Molto bravi i cantanti, tutti, ma una menzione speciale meritano il baritono Bjorn Burger (Conte d’Almaviva) e Ginger Costa Jackson (Cherubino), uno spiritello con una ricca voce di soprano che aleggia su una scena – almeno quella – bene ideata : un colorato edificio a tre piani con gran trambusto di personaggi e cantanti da un piano all’altro. Una dura prova per la loro voce, che tuttavia non ne soffre.
Attilio Moro