di Sergej Prokof'ev
direttore: Alexander Vedernikov
regia: Yuri Alexandrov, scene: Semyon Pastukh, costumi: Galina Solovyova, luci: Kamil Kutyev
coreografia: Andrey Bugaev
con Kotko Mikhail Gubski/Sergey Nayda, Nadezda Vasilieva, Olga Savova, Alexei Tanovitski
Orchestra e Coro del Teatro Lirico
Cagliari, Teatro Lirico, dal 22 aprile al 4 maggio 2009
Non è un capolavoro, Semën Kotko, l' opera di Sergej Prokof' ev che ha inaugurato la stagione del Lirico di Cagliari. Non è un capolavoro perché meno ispirata di tante altre pagine, operistiche e no, dell' autore ma non manca di suscitare estremo interesse. Per vari motivi: l' epoca di composizione (fine anni ' 30) e il soggetto - l' agrodolce storia d' amore di un reduce della Grande Guerra nella Ucraina dilaniata dal conflitto tra Armata Rossa e controrivoluzionari alleati coi tedeschi - dicono assai del non facile rapporto tra l' artista e il regime; il taglio drammaturgico sviluppa una coralità che anticipa Guerra e pace; lo sperimentalismo di introdurre la musica da film nell' impianto operistico. Da anni il Lirico di Cagliari disegna la stagione sparando le sue cartucce migliori all' apertura e ricorrendo al repertorio per il resto dell' anno. Morale, all' inizio c' è un' opera rarissima ma degna di riscoperta, seguita da Cavallerie, Tosche e Barbieri. É una politica che si può discutere ma è una politica. E Semën Kotko (in Italia fu data una volta sola alla Scala), degna di riscoperta lo è senz' altro. Un bel titolo che si fa poco perché costa molto (occorrono 26 interpreti e un megacoro) ma non fa record al botteghino, anche se poi il pubblico della seconda recita (campione più significativo di quello della prima, pieno di stampa e inviti) l' opera l' ha accolta con successo, se non con entusiasmo. Il Lirico ha fatto bene a riproporla perché ci ha creduto, e dunque ha assemblato un cast di valore, capitanato dalla pastosa, bellissima voce tenorile di Mikhail Gubskij e dalla teatralità di Tatiana Pavlovskaja (soprano lievemente stimbrato ma grintoso), e ha dato le chiavi dell' orchestra a un maestro affidabile e serio come Aleksandr Vedernikov, col risultato d' ottenere una concertazione non perfetta (certi idiomi si assorbono dopo anni) ma assai plausibile, bilanciata, persino espressiva per quel tanto che concede il Prokof' ev controllato e antiromantico di questa partitura. Da dimenticare invece la regia di Yuri Alesandrov, evidentemente pensata secondo gli standard antiquati del Marinskij di San Pietroburgo, teatro che coproduce lo spettacolo. C' è un po' d' ironia nel finale, quando «arrivano i nostri» dell' Armata Rossa, ma per il resto si assiste a una messinscena di un naturalismo risaputo, come non si vede più in Occidente da almeno tre decenni.
Enrico Girardi
I lavoratori del Teatro Lirico di Cagliari hanno fatto un bel gesto: invece di annullare per sciopero l'inaugurazione del festival di Sant'Efisio, come precedentemente annunciato, hanno pensato di devolvere la paga della giornata a favore dei terremotati abruzzesi. Tra grandi applausi, ha potuto, così, prendere il via la rappresentazione di Semën Kotko di Prokof’ev. Come tutti gli anni, un'opera di rara esecuzione attira a Cagliari l'attenzione della critica, italiana e straniera. Le esecuzioni musicali sono solitamente di alto livello. Così è stato per questo Semën Kotko, diretto da Alexander Vedernikov: orchestra in grado di valorizzare la scrittura sinfonica di Prokof’ev, cantanti numerosissimi (26!) tra cui alcuni davvero eccellenti come Michail Gubsky (Semën) Gennady Bezzubenkov (Tkacenko), Irina Loskutova (Ljubka), Tatiana Pavlovskaya (Sofia).
L'opera, eseguita a Mosca nel 1940, creò qualche imbarazzo all'epoca del patto Hitler-Stalin: rappresenta, infatti, l'invasione tedesca dell'Ucraina seguita alla Prima Guerra Mondiale, con le sofferenze dei contadini per le violenze degli invasori e le trame dei nazionalisti che minacciavano le conquiste sociali dei bolscevichi. Perciò, nel libretto steso da Prokof’ev con il romanziere Velentin Kataev, i tedeschi furono mutati in austriaci, ferma restando la celebrazione dell'eroismo popolare e del potere comunista che condurrà alla sospirata riunificazione dell’Ucraina con l'Unione Sovietica. L'argomento era, come si vede, strettamente legato alle celebrazioni di regime, cui Prokof’ev assimila la vicenda privata del soldato Semën Kotko che torna a casa dalla guerra e vede il suo sogno d'amore distrutto dal futuro suocero che obbliga la figlia a sposare un possidente terriero: ma Semën la recupera con metodi spicci, ossia incendiando la chiesa dove si svolge il matrimonio. Segue, così, il lieto fine.
L’opera ha due aspetti. Uno è la rappresentazione della vita contadina attraverso un procedimento analogo a quello compiuto da Janacek sulla lingua ceca: estrazione della musica dal suono della lingua russa, che rimane, però, in Prokof’ev ad un livello di resa esteriore, senza la capacità poetica di intendere la parola come espressione diretta della natura. Di qui la straordinaria monotonia dei primi due atti. Poi, quando arrivano gli austro-tedeschi e compiono le loro atrocità, la musica si sveglia: la corda epica di Prokof’ev si mette a vibrare, nell'orrore dei saccheggi e nei cori di lode alla santa-madre-terra. Qua e là, affiora anche la propensione visionaria del musicista, come mostra l'impressionante scena di pazzia di Ljubka che lamenta la morte del fidanzato impiccato. Sono squarci robusti di musica drammatica, prima che l'opera si richiuda di nuovo nell'asfissiante fluire del declamato, rotto qua e là da melodie facili e motivetti scattanti.
Lo spettacolo di Yuri Alexandrov con scene di Semyon Pastukh è pletorico: rende astrattamente l'idea del villaggio desolato dalla guerra, ma lo riempie con un carnevale di colori e di costumi, tra cosacchi e soldati, uomini incappucciati rossi e bianchi, tedeschi dall'elmo chiodato e contadinotte procaci: poco stile, insomma, e una certa, frastornante confusione.
Paolo Gallarati