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TRISTAN UND ISOLDE - regia Patrice Chéreau

Tristan und Isolde Tristan und Isolde Regia Patrice Chéreau

di Richard Wagner
direttore: Daniel Barenboim
regia: Patrice Chéreau, scene: Richard Peduzzi, costumi: Moidele Bickel, luci: Bertrand Couderc
con Ian Storey, Waltraud Meier, Michelle De Young, Gerd Grochowski, Matti Salminen, Will Hartmann
Milano, Teatro alla Scala, dal 7 dicembre 2007 al 2 gennaio 2008
Milano, Teatro alla Scala, dal 5 al 25 febbraio 2009

Panorama, N. 9 2009
Corriere della Sera, 7 febbraio 2009
Corriere della Sera, 9 dicembre 2009
Il Manifesto, 9 dicembre 2009
Il Tempo, 8 dicembre 2009
Avvenire, 8 dicembre 2009
Il Mattino, 8 dicembre 2009

«Tristano e Isotta» più grande della prima

Bello ogni tanto ripeter cose vecchie e buone. Per esempio: uno spettacolo intenso e magnifico a distanza di tempo cresce ancora. Succede quando lo si riprende con gli stessi artisti, e credendoci. Così, il Tristano e Isotta della Scala diretto da Daniel Barenboim con la regia di Patrice Chéreau, protagonisti Jan Storey e Waltraut Meyer, ripresentato a distanza d’una manciata di mesi dalla prima volta, era ancora più forte. La direzione tutta attenta a esplorare e trovare anziché esibire, moltiplicando le forze di un’orchestra importante, la regia che costringe a una continuità come un copione in prosa d’un grande autore, e dove tutti paiono attori provetti, la dedizione immensa e illuminata della stupenda Isotta, la tenuta generosa di Tristano ci portano tanto dentro la mitica creazione di Richard Wagner che uscendo, invece di giudicare, ci scopriamo a cercare di più. L’estremo sforzo di veggenza d’un musicista che cerca di sondare con le parole e il dramma l’assolutezza dell’amore ci avvolge di verità con la musica e si rifrange con mille domande, eccessive, sghembe, assurde, umane, sulla nostra mediocrità segretamente assetata di grandezza.

Lorenzo Arruga

Torna il Tristano di Barenboim ancora più nobile

MILANO - Tristano torna alla Scala. Salvo Brangäne, è in tutto e per tutto l' edizione che inaugurò la passata stagione e che fu recensita da Paolo Isotta. Stesso direttore, Barenboim, stessa regia, Chéreau, e stesso cast, con Waltraud Meier (Isolde), Ian Storey (Tristan), Matti Salminen (Re Marke), Gerd Grokhowski (Kurwenal) e la nuova Brangäne, Lioba Braun. Ma in un' opera la cui monumentalità non dipende dalla durata ma dalla vastità d' orizzonte che sta dietro ogni dettaglio, i dettagli fanno la differenza. Nella fattispecie, in meglio. Piacesse o meno il disegno complessivo, lo spettacolo è più asciutto, interiorizzato, oliato: non la «ripresa» affidata a un assistente ma altre 4-5 settimane di lavoro. Col risultato di un Re Mare meno «furioso» e in migliore equilibrio tra rabbia, sgomento, desolazione e senso d' impotenza. Dettagli, ma che fanno la differenza. Una miriade ve n' è nella lettura di Barenboim. L' anno scorso creò un suono e un impianto esecutivo. Stavolta, fermi restando quelli, ecco apparire ancora più densità e più trasparenza (con lui i termini non sono in contraddizione): senti per esempio come mai in passato quei ricami trillati dei legni mentre Kurwenal parla a Isolde nel primo atto e cento altri particolari del genere. E ancora, più baldanza cavalleresca, più cupezza livida, più lirismo (il tema dello sguardo nel I atto è da brividi). Eccellente l' orchestra, stupenda l' esecuzione. Notevole la crescita di Ian Storey (l' anno scorso debuttava, ora ha sostenuto la parte in diversi altri teatri) e la tenuta di due pezzi da novanta come la Meier e Salminen, capaci come prima e se possibile più di prima di regalare emozioni viscerali e profonde. Un filo sotto le attese Grokhowski e la Braun, ma è un trionfo come raramente il pubblico della Scala accorda in modo così incondizionato. È anche la meritata ricompensa per un teatro che in una settimana ha saputo presentare un' esibizione di Pollini il lunedì, una recita de L' affaire Makropulos il martedì, un concerto di Chailly, Lang Lang e il Gewandhausorchester il mercoledì e appunto questo Wagner il giovedì: Vienna e Berlino sotto la madonnina.

Enrico Girardi

Incubo Wagner

Grande Barenboim, buone voci ma Chéreau ha tradito l' opera

La «prima» del Tristano e Isolda è stata, come la prova generale, un trionfo, giustificato da gran parte dell' aspetto musicale dello spettacolo e dalla circostanza che il capolavoro mancava alla Scala da trent' anni. Il pubblico non ha fatto distinzioni fra questo e l' allestimento scenico perché «forte è l' incanto» dell' invenzione di Wagner e la sua musica induce in tutti una profonda commozione che può ottundere i sensi e il ragionamento. Ma Wagner è anche uno dei più grandi drammaturghi della Storia e si preoccupava minuziosamente e personalmente della regia dei suoi Drammi Musicali. Mi vedo quasi solo a nutrire le maggiori perplessità nei confronti dell' allestimento scenico di Patrice Chéreau e Richard Peduzzi, ambientazione da incubo nel I atto, e piena di sorprendenti errori di grammatica: ma non è questione di gusti personali, è questione in fatto: l' allestimento scenico deve rivelare il contenuto drammatico dell' opera, non stravolgerlo o commentarlo. Parliamo degli errori principali. Ho detto ieri che l' ambientazione ai giorni nostri di qualsiasi testo è un ormai vecchio esperanto registico della provincia tedesca, un presupposto obbligatorio. Schiller, Molière, Debussy, Mozart, Wagner, tutti omologati e la Scala omologata anch' essa: la quale dovrebbe indicare vie nuove, non andare a rimorchio. Quando parlo dell' orribile chiatta a motore incassata in un muro di mattoni scalcinati penso alla nave spinta verso i campi, che da lunge sembrano ancora azzurri, da una fresca brezza ch' empie le vele. In partitura c' è anche lo svelto motivo del vento. Oltre all' orrore specifico, aboliremo quest' ultimo perché vele e vento sono scomparsi? Sul ponte è una tenda, alloggio di Isolda. Non ha funzione esornativa, serve a separare Isolda e Brangania dalla vita della nave perché, nel mirabile svolgimento dell' antefatto, Brangania, e noi con lei, possiamo apprendere i terribili segreti di questo. Mi ripeto, alla Scala la tenda non c' è, e non potrebb' esserci su di una chiatta a motore: tutto ciò avviene in presenza dell' affaccendata ciurmaglia ed è drammaticamente ingiustificabile perché impossibile. Dico di più: nel corso dell' intero colloquio nella tenda Tristano e Isolda sono in potere di un' emozione tale che mai potrebbero affrontarlo in presenza di testimoni. Quando, bevuto alla fatale coppa, i due pronunciano ciascuno il nome dell' altro e penetrano nel loro eros metafisico, Chéreau ci fa assistere a cosa volgarissima: Tristano e Isolda si avvinghiano a terra in una sorta di raptus carnale e debbono essere separati con la violenza, come due cani che si accoppiano. Ciò avviene in presenza dell' intera ciurma: le corna di re Marke, si potrebbe osservare, sono pubbliche e bollate e la vicenda non potrebbe che terminarsi qui. Invece il Re, col suo cappottino chiaro, pochi secondi dopo monta a bordo e porge galantemente il braccio alla signora Marke. La sterminata scena d' amore del II atto si svolge sempre in un arido terreno con insediamenti industriali e il muro di mattoni da sfondo. V' è in essa, giusta Wagner, un punto particolarmente sublime: due volte Brangania, a spiare sul tetto e ad ammonire gli amanti che la notte è alla fine, fa udire l' arco del suo canto: e deve farlo udire dall' alto e da lontano, ella invisibile. Chéreau la fa trascinarsi in scena col manto d' Isolda in mano, come quelle vecchie cameriere fedeli d' un tempo, o come una vecchia mezzana professionista, e pronunciare di presenza il canto, mentre gli amanti restano sempre all' impiedi e Tristano è patetico in quel suo cappottino lungo modino-piccolo borghese. Sorprende che il maestro Barenboim abbia così realizzato un mutamento della partitura musicale. Prima, quando Isolda compie, contro l' avvertimento di Brangania, il gesto decisivo convenuto con Tristano per chiamarlo, butta a terra una lampada di plastica che si spegne senza frangersi. Dovrebbe estinguere una fiaccola: la fiaccola spenta e rovesciata era parte del simbolismo funerario degli Antichi, e Wagner vuole ricordare che prima dell' inizio della scena d' amore siamo già dentro la Morte. Ma basta a proposito d' una versione forse suggestiva per qualche, solo qualche, bell' attitudine scenica ma essenzialmente adulteratrice del Dramma Musicale. Il pubblico potrà anche andare in visibilio di fronte a tutto ciò: il dovere del critico è di distinguere e rilevare dati in fatto che non possono essere giustificati. D' altronde, si confesserà quanta disillusione vi sia nel compiere tale dovere. Gli spettacoli, s' è detto, sono tutti eguali, all' insegna della vicenda trasposta nell' epoca attuale e del cappottismo, quando non anche dei telefoni cellulari e delle macchine da scrivere, e si rischia di esprimere sempre le stesse cose, come dei vecchi patetici. Il maestro Barenboim dirige un Tristano severo e solenne giusta la grande tradizione; il che induce a perdonargli taluna libertà ritmica nel Preludio e la slabbratura di qualche accordo a piena orchestra. Dirige con grande cognizione di causa, a memoria, ed è capace di fare della poderosa orchestra anche un frusciante tappeto (II atto: a partire da O sink hernieder, Nacht der Liebe). Tra i solisti, lodevoli in particolare per l' impegno richiesto il clarinetto basso e il corno inglese. Waltraud Meyer è un' Isolda ammirevole per il dominio vocale e psicologico del ruolo che canta con tecnica intatta; mentre non allo stesso livello è l' interprete di Tristano, il tenore Ian Storey, che a mezzi vocali modesti aggiunge un difetto della fonazione articolata portante a dizione non chiara: e il canto è, come si dice in gergo, «ingolato». Ho già scritto che il re Marke di Matti Salminen è una vera personalità: si ascolta con emozione lo strenuo sforzo di ridurre a un sussurro l' enorme voce. Ottima la linea di canto di Michelle DeYoung, Brangania, soddisfacente il Kurwenal di Gert Grochowski; infine un cammeo l' «interno» del Marinaio, Alfredo Nigro.

Paolo Isotta

«Tristano e Isotta», la seduzione della parola
Milano

Era assente da quasi 30 anni dal palcoscenico della Scala Tristan und Isolde di Richard Wagner, titolo che curiosamente non aveva mai inaugurato una stagione del teatro milanese. Si comprende come il sovrintendente Stéphane Lissner abbia puntato su quest'opera per la terza inaugurazione della propria gestione, progettando un allestimento che unisce, con Daniel Barenboim e Patrice Chéreau, una guida musicale prestigiosa e un maestro del teatro di regia. Il quarto d'ora di applausi senza dissensi tributati, dopo cinque ore e mezza di spettacolo, dal pubblico della prima - comprensivo, quest'anno, di ben quattro capi di stato, Austria, Germania, Grecia, Qatar, oltre al presidente Napolitano - ha premiato la scelta del sovrintendente.
Questo Tristan non entrerà probabilmente fra le serate leggendarie della storia della Scala - ci vorrebbero, per questo, almeno delle voci complessivamente più autorevoli - ma è comunque un prodotto di alta qualità, che dona emozioni e fa discutere, e indica nella Scala un centro capace di offrire idee e cultura. Tristan und Isolde d'altronde, è un testo che, come è ben noto, si nutre di letteratura e filosofia, di Novalis e Schopenhauer, attraverso l'identificazione fra la notte e la morte, il pessimismo cosmico fondato sul desiderio inappagato. Tutti temi che è delicatissimo interpretare sotto il profilo scenico e musicale, e che non di rado vengono restituiti con soluzioni di maniera, consolidate da lunghe tradizioni. Alla Scala le novità sono venute soprattutto dalla parte visiva dello spettacolo. Certamente l'allestimento creato da Patrice Chéreau può sembrare legato al passato; appare infatti privo delle tecnologie, degli effetti speciali a cui ci hanno abituati i teatranti delle ultime generazioni: quasi un teatro povero, basato su un impianto scenico fisso di Richard Peduzzi, sul lavoro con l'attore, nonché sulla ripetizione di qualche cliché che appare ormai troppo abusato - come, nei costumi di Moidele Mickel, l'impermeabile bianco di Re Marke. Eppure questo teatro anni Settanta, possiede ancora una forza comunicativa e di riflessione capace di aprire nuovi spazi all'interpretazione di un testo troppo spesso considerato intrinsecamente privo di vera azione. Quanti Tristani abbiamo visto - sulla scia degli allestimenti simbolici di Wieland Wagner - nei quali i protagonisti erano immobilizzati in pose statuarie e ieratiche, sottolineate dai giochi di luce? Nulla di tutto ciò troviamo nello spettacolo milanese. Di simbolo ce n'è uno solo, un muro di mattoni, posto sul fondo, nel quale si apre al centro una enorme porta. Poco conta che si tratti di un muro di Villa Medici o di un altro muro romano, come suggerisce Peduzzi, attuale direttore dell'Accademia di Francia; comunica, questo simbolo, disagio, straniamento.
Pochi elementi differenziano così i vari atti: nel primo entra dal fondo una chiatta arrugginita e cadente, nel secondo si stagliano pochi cipressi, nel terzo c'è una scala che porta verso una piattaforma. Quel che soprattutto colpisce, è la capacità di Chéreau di usare questi spazi per un uso narrativo del testo; il teatro di Wagner si anima così di gesti, di azioni, di comportamenti che mostrano il dinamismo del racconto, del ragionamento, della dialettica, insomma della parola. Vediamo Isolde e Tristan lontani all'inizio, e alla fine avvinti sotto gli occhi dell'equipaggio che entra ed esce dalla stiva. Vediamo i due protagonisti, sotto gli occhi di Brangäne, vecchia nutrice, vinti dall'emozione nel grande duetto del secondo atto, le cui lunghe disquisizioni diventano un vero confronto dialettico di personalità. Vediamo re Marke abbracciare il traditore Tristan, dopo averlo fatto arrestare dalle sue guardie; e, nell'ultimo atto, Tristan assistito e sostenuto dai suoi vassalli. Il realismo di questa narrazione ribalta, insomma, la convenzionale staticità, e mostra la straordinaria forza comunicativa ed emozionale del teatro di Wagner, proprio nell'opera apparentemente meno predisposta a questa operazione. Il lavoro di Chéreau ha bisogno ovviamente anche di grandi attori sulla scena; e qui ci sono. Da questo punto di vista Waltraud Meier e Ian Storey sono due protagonisti d'eccezione; non altrettanto ineccepibili come cantanti. La Meier è una interprete che plasma l'espressività della parola come poche altre, e sa farsi perdonare se appare un po' tirata nel registro acuto e arriva piuttosto stanca alla pagina chiave della morte d'Isotta. Storey appare vocalmente pallido nel duetto del secondo atto, migliora nel terzo, soprattutto perché sceglie una chiave intimistica e evita di andare sopra le righe. Il migliore del cast è certamente Matti Salminen, non solo una voce imponente di basso profondo, ma un interprete che distilla ogni sillaba del suo lungo monologo. Adeguati, senza entusiasmare Michelle DeYoung (Brangäne) e Gerd Grochowski (Kurwenal). Di alta qualità tutti gli interpreti secondari, Will Hartmann (Melot), Alfredo Nigro (giovane marinaio), Ryland Davies (pastore), Ernesto Panariello (timoniere). Quanto alla guida musicale di Daniel Barenboim, è superfluo sottolineare il lavoro compiuto con l'orchestra della Scala, che si è mostrata quasi sempre ineccepibile; la sua direzione è di altissima classe nella narrazione della partitura, e sembra improntata a sottolinearne più l'aspirazione verso la dissoluzione e la morte che non la tensione erotica.
È una prospettiva che sottrae forse qualcosa all'opera, oltre a non sembrare particolarmente originale o personale. La presenza del maestro argentino sul podio scaligero deve essere comunque considerata un elemento centrale e di forza nella riuscita di questo Tristan und Isolde, produzione che è auspicabile possa rimanere a lungo nel repertorio del teatro milanese.

Arrigo Quattrocchi

«Tristano e Isotta» Una prima sublime con commozione

Parterre de Rois, tuttavia, come sempre per la serata evento, non solo per la presenza del presidente Napolitano, ma anche per quella dell'emiro del Qatar, di tre ministri italiani (tra cui Rutelli) e ben diciannove stranieri, oltre a tante personalità politiche e del mondo industriale, da Letta a Confalonieri e De Bortoli.
In scena si evocava Tristan und Isolde, capolavoro del musikalisch drama romantico.
Difficile raccontare dal di dentro il dramma di un amore impossibile come quello dei due amanti medioevali, un amore socialmente scorretto ma moralmente giustificato dalla ineluttabilità del filtro d'amore che unisce indissolubilmente sin oltre la morte la regina con il più fido araldo del Re. Solo un genio come Wagner, in cui i temi musicali si fanno quasi personaggi, poteva riuscire a conferire una dimensione universale a un dramma in tre atti quasi senza azione, o meglio con una travolgente metamorfosi (dall'odio all'amore) davvero tutta interiore. Un titolo, quello del Tristan und Isolde, sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro, e non sorprende che anche un wagneriano della prima ora come il regista Patrice Chéreau, che nel 1976 firmò con Boulez un iconoclasta Ring per il centenario del Festpielhaus di Bayreuth, abbia atteso a lungo prima di approdarvi.
Lo fa però ora, quasi trent'anni dopo quello storico battesimo wagneriano, al fianco di un altro wagneriano doc come l'argentino Daniel Barenboim, accanto al fedele scenografo Richard Peduzzi e per un'occasione importante come l'inaugurazione della Scala affrontando un'opera che non solo ha cambiato col suo ambiguo e destabilizzante cromatismo esasperato il futuro della musica occidentale sino a Schoenberg ed oltre, ma che ancor oggi cambia interiormente, a detta dello stesso Barenboim, chi la ascolta. Una vera e propria iniziazione musicale sul tema della irrefrenabilità dell'amore che si invera solo dopo la morte nell'annullamento della momentanea divisione corporea: Eros che sconfigge Thanatos.
Alla Scala Tristan mancava da quasi trent'anni e quando la bacchetta si leva su quel condensato di musica che è l'incandescente Preludio, si avverte netta la sensazione di essere alla presenza di una serata musicalmente straordinaria.
Chéreau a sorpresa invece che in una Cornovaglia immaginaria e nel nebbioso nord ambienta il dramma in una dimensione senza tempo e senza luogo ma dinanzi ad un vetusto muro, pare della antica Roma, città densa di ruderi che siglano il trascorrere del tempo e delle eterne rinascite.
Ed è un lembo delle Mura aureliane, segnate dalla storia, il passepartout dell'opera a fare da sfondo al primo tempestoso atto, per schiudersi poi nel secondo a un gruppo di cipressi e diventare infine cimiteriale e spettrale nell'epilogo del desolato Liebestod.
La nave che porta Isotta dal promesso sposo in Cornovaglia assume così la figura di uno spaccato tra quelle antiche mura, quasi un ponte levatoio, una chiatta invasa da valige e bagagli tra mozzi e marinai. Unico segno del mare il dominante azzurro, in diverse sfumature. L'abissale distanza che separa inizialmente i due amanti (un'isterica e recalcitrante Isotta, un infrigidito e attempato Tristano) sprofondati dal filtro magico negli abissi dell'amore, sembra d'incanto spezzarsi in un crescendo emotivo che dopo il filtro rende i due per sempre condannati ad un male d'amore incurabile.
Ed il muro antico riappare nello spoglio palazzo reale tagliato da luci sinistre in cui il senso di annientamento di un amante nell'altro si realizza nel celebre duetto d'amore.
Se la musica è per eccellenza, come dicevano i romantici, il linguaggio dei sentimenti, Tristano è certo la quintessenza della musica, perché permea di sé quei sentimenti abissali.
Alla fine consensi per tutti: per la coerente regia di Chéreau, dettagliata, esplicita e rigorosa (anche se a Sgarbi le scene di Peduzzi sono parse grottesche) come per la travolgente e curatissima lettura di Barenboim. Eccellente il cast con una superba Waltraud Meier come Isotta che trascolora dall'isteria alla passione travolgente, la giunonica Brangania di Michelle De Young, il perentorio e carismatico Marke di Matti Salminen che perde i segni della regalità, il cangiante Tristan di Ian Storey.
Ripetute chiamate alla ribalta degli artisti ad ogni finale di atto per un Tristano metafisico e contemporaneo.

Lorenzo Tozzi

Scala, dal silenzio a 13 minuti di applausi

Trionfa il «Tristano» di Wagner. Ma prima il commosso ricordo dei morti sul lavoro

Silenzio. Quello della morte. All'inizio e alla fine del viaggio di Tristano alla Scala. Una morte vera. E una evocata sulla scena. Prima che si alzi il sipario sul terzo Sant'Ambrogio dell'era Lissner alla Scala, la direzione, gli artisti, e i lavoratori chiedono un minuto di silenzio per le vittime del grave incidente sul lavoro avvenuto a Torino. Pubblico in piedi, prima di affrontare le oltre cinque ore di spettacolo che culminerà in un'altra morte, quella di Isotta, che con un tonfo sordo cade a terra senza vita. Nel silenzio di una sala che trattiene il fiato, un silenzio rotto solo dallo scricchiolare dei proiettori che piano piano si spengono. E poi gli applausi, che sembrano non voler finire, gli stessi che hanno salutato Daniel Berenboim e i cantanti a ogni inizio e fine di atto. Applausi poi che alla fine si protraggono per lunghi e intensi 13 minuti.
Calato il sipario, l'euforia per il successo del Tristano e Isotta di Wagner è dunque ancora alle stelle. In molti affollano il camerino del direttore per stringergli la mano. Qualcuno ha ancora gli occhi rossi per il pianto che si è fatto di fronte alla morte dei due amanti. I tecnici, sul palco, dopo il brindisi, iniziano a smontare l'imponente scenografia di Richard Peduzzi: domani si prova il prossimo spettacolo. Le lunghe assemblee per organizzare scioperi e proteste mai attuate sono storia passata: oggi c'è il nuovo cartellone da varare, tanto più dopo una prima come quella di quest'anno, che è diventata una questione internazionale.
È vero, c'è ancora quello zoccolo duro di 139 melomani che si sono messi in fila per conquistarsi un posto in loggione, ma cosa sono di fronte agli ottocento biglietti che il Comune di Milano si è accaparrato per tentare il tutto per tutto nella corsa verso l'Expo 2015? In sala una ventina di ministri, sindaci da città di tutto il mondo e cinque capi di Stato: in palco reale, accanto a Napolitano (a cui i lavoratori della Scala hanno consegnato durante l'intervallo un documento), salutato da affettuosi applausi, i presidenti tedesco Koehler, l'austriaco Fischer, greco Papoulias, l'emiro del Qatar Al Thani, con il tradizionale copricapo bianco.
Per loro il direttore d'orchestra argentino ha suonato l'Inno di Mameli. Ad accogliere i politici, il sindaco di Milano Moratti che tira fuori dalla manica l'asso Scala, il primo teatro lirico del mondo che, con questo Wagner, ha messo insieme per la prima volta in Italia Barenboim e il regista francese Patrice Chereau.
Sul palco uno spettacolo dal taglio moderno dove lettura musicale e interpretazione registica stanno sullo stesso piano. Barenboim, che anche questa volta non ha rinunciato alla sua lunga giacca nera preferendola al frac d'ordinanza, non ha nessuna partitura davanti, solo una salvietta bianca che usa di tanto in tanto per asciugarsi il viso: quattro ore di musica tutta a memoria diretta nota per nota, tenendo i cantanti appesi alla lunga bacchetta, il maestro affonda nel fiume in piena delle passioni wagneriane in una lettura tesa e vibrante dove i toni che prevalgono sono quelli cupi della notte. Gli stessi che ritroviamo nel tormento degli amanti, ben interpretati da Waltraud Meier e Ian Storey, con il nobile re Marke di Salminen. Il Tristano di Wagner è come una telenovela: puoi distrarti per qualche minuto e non perder nulla. Barenboim però riesce a tenere incollati gli spettatori alla poltrona avvincendoli, con Chereau, in un turbine di musica e immagini che molti in sala cercano di catturare con il flash dei telefonini. Quello del regista francese è un trattato di filosofia sull'amore e sulla morte, pieno di riferimenti colti, dal misticismo alla psicanalisi, che forse non sono colti fino in fondo dal pubblico impegnato a stacccare gli occhi dai videolibretti per non perdersi una parola del testo tedesco. Ma lo spettacolo di Chereau, che sfoglia la vicenda da tutti gli elementi fiabeschi, va dritto al cuore perché parla dell'uomo di oggi: se non sai dare un tempo agli hangar di ferro e cemento creati da Peduzzi capisci subito che in quello di Isotta il regista ferma il volto di tanti uomini che oggi, nei modi più diversi, cercano l'annientamento. L'eroina wagneriana è già morta al suo apparire in scena, non perché sa che il suo amore è impossibile, ma per il fatto di dover fare i conti con l'indifferenza di un mondo che la vuole ingabbiare nei suoi schemi senza lasciarle la libertà di essere una persona.
L'operazione Tristano, per la Scala e per Milano, dunque sembra essere riuscita. Lo dicono i posti ancora pieni dopo oltre cinque ore di spettacolo: alla prova generale in molti avevano lasciato la sala a mano a mano che la storia scorreva verso il tragico finale. E lo dicono i cinque capi di Stato, in piedi, ad applaudire Barenboim, l'orchestra salita per l'occasione sul palcoscenico e, con loro, la Scala.
Così la tragedia di Isotta raccontata nell'opera si lega idealmente a quella che ha colpito gli operai di Torino.

Pierachille Dolfini

Chéreau ha sfalsato il racconto su due piani Direzione tersa e geniale

Difficile, se non impossibile, isolare il meglio in uno spettacolo come quello che la Scala ha proposto ieri, semplicemente perfetto. A lungo si parlerà della regia di Chéreau, essenziale eppure così intensamente fisica nel porgere allo spettatore l'intesa tra due corpi e due menti, senza insistere sui «personaggi», ma puntando su una recitazione pensata e d'impatto. Chéreau quasi sfalsa il racconto su due piani spaziali: la trovata, di sapore cinematografico, ha l'effetto di contrapporre la dimensione "privata" del racconto a quella "pubblica". L'idea si avvale di un impianto scenico affascinante come quello disegnato da Richard Peduzzi, perso in un'epoca indefinita, in uno spazio dalle tinte e dalle forme forse mediterranee. Tersa almeno come la regia è la direzione musicale di Daniel Barenboim. Solo un genio può dirigere a memoria il «Tristano», perché questa è musica che non s'impara a memoria, ma si assorbe, si metabolizza, infine si ripercorre con lucida consapevolezza, andando a sfiorarne le profondità espressive e le arditezze formali. Parola, musica e gesto non si confondono ma si confortano vicendevolmente, senza che l'una invada il campo espressivo dell'altra. L'Orchestra sfodera una performance da incorniciare, con finezze di timbro ed effetti di raffinatezza cameristici, percepibili ad onta dello spessore di suono. Da ovazione le voci: Waltraud Meier (Isolde) è eravigliosa, Ian Storey (Tristan) persino commovente (nella foto, i due), Matti Salminen monumentale, Michelle de Young intensa. Tutti, per altro, splendidi attori.

Stefano Valanzuolo

Ultima modifica il Mercoledì, 17 Luglio 2013 10:13
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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