opera in cinque atti di E. Scribe e C. Duveyrier
musica di Giuseppe Verdi
direttore: Antonio Palumbo
regia: Andrej Serban
scene e costumi: Richard Hudson
coreografie: Lawrence Fanon
con Sondra Radvanovsky, Francisco Casanova
Genova, Teatro Carlo Felice, dal 19 al 28 ottobre 2007
Verdi che scrive I Vespri siciliani a pochi anni dall' Unità d' Italia è un tema interessantissimo, dunque studiatissimo. Anche perché dei Vespri in realtà non si sa un granché, nemmeno se fosse azione spontanea o preparata. Tantomeno Verdi, visto che gli studi sull' argomento iniziarono a fiorire parallelamente alla composizione dell' opera, non prima. Fatto sta che la scelta di Andrei Serban di non ambientare l' azione al tempo della rivolta contro gli Angioini, né al tempo di Verdi, ma piuttosto in un tempo, più neutro che astratto, come gli anni Dieci-Venti, sembra doversi al desiderio di evitare di inoltrarsi in un terreno minato, ginepraio di ipotesi e controipotesi storiograficamente discutibili, più che a intima convinzione. Un' architettura di muri bianchi mezzi diroccati, i francesi in tenuta coloniale color kaki, i siciliani come detta l' iconografia più frusta. Questo è quanto il regista romeno Andrei Serban e il collaboratore Richard Hudson (scene e costumi) prepararono per la messinscena dell' opera verdiana quando fu prodotta all' Opéra di Parigi. Ora è ripresa al Carlo Felice di Genova come spettacolo inaugurale. Uno scandalo - a proposito - fino a pochi anni fa, che si inaugurasse una stagione lirica con uno spettacolo d' importazione. Oggi è realtà vieppiù frequente. Inevitabile, forse. Gestualità, movimenti delle masse, recitazione: tutto passa, qualche trovata a parte, sotto analogo segno di neutralità. Ma è spettacolo elegante, importante, d' una staticità che tende al solenne. Si taglia il Balletto e si canta la versione in italiano. La musica è sghemba, una di quelle opere di Verdi che affascinano proprio per la non compiutezza di forma e stile. Renato Palumbo, peraltro, mostra un dominio e una consapevolezza dello strano modo d' essere di questa partitura, come la dirigesse da sempre. Sa stringere e allargare al momento opportuno, sa sottolineare tutto il bello. È l' ora del riscatto dopo il «fattaccio» di primavera scorsa, quel Freischütz berlinese che grida ancor vendetta. Il cast, poi, accanto alle voci molto «opportune» di Franco Vassallo, che scava nel doppio fondo della personalità di Monforte, e di Orlin Anastassov, tonitruante Procida, rivela una gemma in Sondra Radvanovskij: bel timbro, bel legato, sensibilità, personalità: Elena esemplare. Peccato solo che alla prova generale l' indisposizione dell' Arrigo di turno, Franco Vassallo, abbia portato in scena Alberto Cupido, del tutto inadeguato. Qualche buu per lui, ma per il resto della compagnia sono rose e fiori.
Enrico Girardi
Scongiurati in extremis scioperi di varia natura, il Carlo Felice di Genova è riuscito a inaugurare la stagione d'opera con i festeggiati Vespri Siciliani di Verdi. Sarebbe stato un peccato mandare all'aria lo spettacolo soprattutto per due fior di cantanti quali Sondra Radvanovsky e Francisco Casanova e, in parte, la direzione di Renato Palumbo, meno per l'allestimento di Andrei Serban, importato dalla parigina Opéra Bastille. Della duecentesca rivolta siciliana contro i dominatori francesi Serban fa un normale conflitto tra oppressori e oppressi, collocando l'azione in una modernità non troppo remota che, se non fosse per le coppole, diremmo guerra d'Algeria per via delle divise kaki dei francesi: però niente De Gaulle, Monforte potrebbe essere un generale qualsiasi. Della Sicilia resta un orizzonte marino artificiale, per il resto domina un muro di mattoni bianchi con un'ampia breccia, manco fosse Porta Pia, in mezzo un enorme pugno bianco simbolo d'oppressione. E' un simbolo a buon mercato in una Palermo che sembra più una Legoland monocolore.
Quel che si sente ha molto più senso, anzi: se qualcuno pensa, non senza ragione, che il soprano verdiano sia estinto, trova smentita nella Elena della Radvanovsky, voce calda, potente e duttile, lirica e drammatica, capace di dominare anche le agilità. E l'Arrigo di Casanova ha timbro limpido di tenore, generosità d'accenti, schiettezza di sentimento che vanno di pari passo con la buona intonazione condivisa con la Radvanovsky. Più lui che lei accusa qualche fatica in un'opera d'impegno estremo per scrittura e proporzioni, per tensioni interiori ed esteriori . Verdi la concepì quale monumentale grand-opéra da darsi nel 1855 all'Opéra di Parigi, con obbligatorio ballo nel terz'atto, non eseguito ora a Genova, dove peraltro il lavoro si dà nella corrente traduzione italiana. Ma in questa cornice dove i siciliani tramano la rivolta contro i francesi, la congiura si sposa ai conflitti dell'anima. Perché se Elena è volitiva nel vendicare il fratello e Giovanni da Procida è la vendetta fatta persona, Arrigo viene sballottato tra i due fuochi: ricambiato in amore da Elena, nella scena capitale del terz'atto scopre d'esser figlio proprio di quel Monforte che si deve abbattere, e che in ogni caso alla fine perirà. Serban cade sulla baggianata finale di esplosioni che accoppano tutti a terra, ma c'è la direzione di Palumbo a far capire che quella è una rivolta, non guerriglia. Dopo un primo atto imbarazzante per il mancato assieme fra orchestra e coro e per un'orchestra ancora svogliata quanto a timbri e dinamiche, Palumbo ha ben regolato il rapporto fra la cantabilità vocale e le scene drammatiche: ha in sé gli accenti della musica verdiana e, in ciò, prosegue con onestà la tradizione schietta dei direttori d'opera italiana.
Giangiorgio Satragni