libretto e musica: Alban Berg
direttore: Daniele Gatti
regia: Jürgen Flimm, scene: Erich Wonder, costumi: Florence von Gerkan, coreografia: Catharina Luhr
con Georg Nigl / Thomas Johannes Mayer, Endrik Wottrich, Evelyn Herlitzius
Milano, Teatro alla Scala, dal 19 febbraio al 9 marzo 2008
«Wozzeck» arriva sparato alla Scala di Milano, senza spiegazioni, senza le consuete dichiarazioni che è un'opera ostica e difficile col suo linguaggio aspro e dissonante, e riempie il teatro e viene applauditissimo. Ormai il Novecento è il passato, Alban Berg è distante come Beethoven e Vivaldi, quindi: è teatro vero, è musica tale da superare le generazioni e le loro contraddizioni? Lo è, la storia sgradevolissima del poveraccio oppresso che muore annegato, o si lascia morire per cercare nella palude il coltello con cui ha ucciso la moglie per giustificabile gelosia, si offre non alla nostra analisi, ma alla nostra partecipazione e alla nostra pietas, tutto procede inesorabile, compresso, violento, usciamo scossi e arricchiti.
La Scala ne ha sciorinato la profonda ricchezza nella direzione consapevole, sensibile, pensierosa, ineccepibile, di Daniele Gatti, e nello spettacolo un po' troppo grottesco ma abilissimo e funzionale di Jürgen Flimm, immagini appena disegnate e recitazione molto carica, con protagonista guizzante e di lacerante espressività Georg Nigl e con Evelyn Herlitzius smarrito personaggio quanto agguerrita interprete, toccante a tratti straordinariamente.
Lorenzo Arruga
Da ascoltare, non è chic ma inutile negarlo, Wozzeck chiede passione, competenza e pazienza. La storia grigia che sprofonda nel nero, desolazione, incubi, pazzia, palude e sangue, il poveretto costretto a esperimenti medici, tradito dalla moglie, uccisore di lei come per costrizione fatale, che si lascia coprire dalle acque mentre cerca il coltello insanguinato, è avvincente più che non attraente, impressionante più che non invogliante. Le parole pronunciate sono squallide e terribili. La musica, composta da Berg a un quarto del secolo scorso, quando, secondo il verbo di Schönberg azzerava le leggi della musica tonale tradizionale, ci urta non tanto per la malata violenza delle dissonanze, quanto per non potere seguire con la mente gli intrichi e la loro logica. Si avverte la tensione dell'opera ispirata e straordinaria, e bisogna avere volontà di proseguire per esserne alla fine premiati.
Da vedere in teatro, invece, è ormai un classico capolavoro. La perentoria drammaticità, la fulminea creazione del clima, il brivido della solitudine dei poveri personaggi che nemmeno l'orchestra e forse nemmeno la musica possono salvare impongono una tragicità che avvolge lo spettatore prima d'ogni sua reazione. Tutto procede inesorabile. Alla fine, le forme classiche della storia musicale che compongono l'ossatura dell'opera finiscono per lasciare un senso di ordine, di compiutezza.
La Scala ha ripreso lo spettacolo con la scenografia a sezioni cilindriche di Erich Wonder, come a dire un mondo immobile che è indifferente mostrare nella sua concretezza, e i costumi popolani attenti al grigiore dei personaggi, di Florence von Gerkan, nella regia di Jurgen Flimm, che ha scatenato i cantanti in una recitazione precisa che definisse i ritratti di ciascuno. Spettacolo coerente e realizzato con sapienza. Ma purtroppo questi ritratti sono grotteschi, prevale una stilizzazione meccanica delle persone; e così ciascuno è quello che fa nell'azione, senza un retroterra umano, alla fine sappiamo di lui solo quello che gli abbiamo visto fare.
Anche Daniele Gatti accentua o concede nella vocalità i falsetti estremi, le caratterizzazioni caricaturali, negli uomini attorno a Wozzeck, Erich Wottrich, Marlin Miller, Wolfgang A. Sperrhacke e Markus Marquardt, che si comportano come specialisti, e che forse potrebbero accordare meglio la loro fantasia con il meglio della concertazione di Gatti; che è invece un dominio classico della partitura, un respiro ampio e quel tanto di contrasto fra le zone pausate e quelle precipitate che ci spinge verso una riflessione più ricca. Per la quale sembrerebbero portati anche Evelyn Herlitzius, che ha momenti di confessione intima improvvisi, straordinari, in una interpretazione agitata, e il guizzante, maldestinato e musicalmente preciso protagonista Georg Nigl, Wozzeck che più Wozzeck non si può. Gatti ha fatto figurare eccellentemente coro e orchestra, e tutti sono stati festeggiati.
Lorenzo Arruga
Trionfale ritorno alla Scala della tragica opera di Alban Berg diretta da un intenso Daniele Gatti, con un ottimo cast vocale
Vorresti alzarti e uscire dalla sala quando Wozzeck estrae il coltello e uccide la sua Marie. Non tanto per l'impatto visivo dell'azione immaginata da Jürgen Flimm, in fondo un po' di liquido rosso a simulare il sangue e qualche convulsione del soprano che poi sprofonda negli abissi del palcoscenico, niente di più. Ma vorresti alzarti e uscire perché Wozzeck compie il gesto estremo nell'unico momento di lucidità che il regista gli concede durante tutto il corso dell'opera, un'ora e quaranta di musica (bellissima) tutta d'un fiato. Un'intuizione che ti fa venire un brivido lungo la schiena. Spiritato, con gli occhi spalancati sul nulla, così appare il soldato uscito dalla mente di Georg Büchner e messo in musica da Alban Berg all'alzarsi del sipario. E poi sempre irrequieto, agitato da una febbre dell'anima che lo porta a vagare senza una meta. Wozzeck, pilastro della musica del Novecento, è tornato l'altra sera alla Scala dove resterà in cartellone sino al 9 marzo nell'allestimento datato 1997 di Flimm.
Spettacolo ancora attuale, terribile nella sua lucida crudezza, a tratti inquietante come un reportage di cronaca nera, ma anche carico di poesia nei duetti silenziosi tra il figlio di Wozzeck e il matto che il regista vuole come un malinconico clown. Sul palco si muove un'umanità senza Dio dove a farla da padrone sono gli istinti primordiali, dove a vincere è chi riesce ad avere la meglio sull'altro, poco importa se attraverso la violenza fisica o verbale. E Wozzeck già dall'inizio è destinato a soccombere. La musica di Berg, mano a mano che le vicende precipitano verso il tragico finale, lascia filtrare nella storia un raggio di umana pietà, ma chiude le porte alla speranza: il figlio di Wozzeck resta solo a fare i conti con la crudeltà di chi gli dice: «Tua madre è morta ». Quella speranza che, invece, sembra ricercare in tutta l'opera Daniele Gatti, di nuovo, trionfalmente, sul podio scaligero per un titolo operistico. Il musicista milanese, accolto da calorosi applausi al suo apparire in proscenio, offre una lettura tesa e toccante delle partitura (che, tra l'altro, dirige a memoria), ben assecondato da un ottimo cast di cantanti/attori: il Wozzeck di Georg Nigl, la Marie di Evelyn Herlitzius, l'Andres di Marlin Miller, il dottore di Markus Marquardt e il Capitano di Wolfgang Ablinger.
Pierachille Dolfini
Il Wozzeck che ha debuttato ieri sera alla Scala sembra la miglior risposta del teatro alle polemiche che lo vedono contrapposto, quantomeno secondo le dichiarazioni dei rispettivi sovrintendenti, alla Staatsoper di Vienna. Una polemica poco comprensibile fintanto che le due istituzioni continueranno a seguire finalità e modelli gestionali agli antipodi. In ogni caso lo spettacolo, a lungo applaudito dal pubblico, si profila come l' esito di un teatro in piena salute. Un teatro che esibisce un' orchestra raramente sentita tanto affiatata e compatta, un coro che non perde occasione di confermare il proprio blasone di primo della classe, un allestimento che data 1997 ma che, grazie a un piano-prove da nuova produzione, arriva oliato come fosse sempre stato in scena da allora. La prova di Daniele Gatti è tale inoltre da rappresentare, se mai ve ne fosse bisogno, la definitiva consacrazione di lui. È eccezionale, il suo Wozzeck. Arriva d' un fiato (l' opera si esegue senza intervalli come usa alla Scala dai tempi di Abbado) con un suono plastico, denso, compatto, scolpito. Ciò nulla toglie al lirismo, che di questo prodigio di partitura è elemento essenziale. Un lirismo davvero vibrante non in quanto «ricercato» come è prassi per chi si trovi al cospetto di un' orchestra italiana ma in quanto scaturisce dalla pasta stessa delle tipiche sonorità bergiane: un lirismo implicito alla partitura, non «annesso» ad essa; in altre parole, un lirismo sulfureo ma non morbido; trasparente ma non leggero. Molto convincente l' allestimento di Jürgen Flimm, firma di punta della rigogliosa scuola registica tedesca. L' impianto scenico - due muri a forma di sezione di cilindro - è fisso, il che è scelta pericolosa per quanta fluidità narrativa potrebbe annettere a una drammaturgia che vive attraverso la successione di quadri distinti, vere e proprie istantanee tratte da Büchner. Ma Flimm è troppo avvertito per non cadere nel tranello ed anzi trasforma il dettaglio in punto di forza. L' iterazione che assumono gesti, simboli e immagini per il fatto di essere sempre «lì» sottolinea infatti l' elemento rituale di questo dramma. E se mai qualcuno ravvisi tracce naturalistiche nell' espressionismo dell' opera, questo allestimento scaccia via un tal fantasma una volta per tutte. Non solo: se v' è spettacolo in cui si può proprio dire che gli interpreti sono attori che cantano anziché cantanti che recitano, questo è il Wozzeck scaligero. Naturalmente, ciò è possibile perché il cast è formato da interpreti eccellenti; tutti, senza eccezioni, capaci di offrire un declamato nitido e flessibile al contempo. L' ottimo protagonista Georg Nigl è affiancato da una splendida Evelyn Herlitzius (Marie). Gli altri sono Marlin Miller (Andres), Endrik Wottrich (Il tamburmaggiore), Wolfgang Ablinger Sperrhacke (Il capitano), Markus Marquardt (Il dottore), Heinz Zednik (Il matto) e Ute Döring (Margaret).
Enrico Girardi
Tornare su un classico dell'opera moderna come il Wozzeck di Alban Berg (1925) è quasi doveroso per un teatro dell'importanza della Scala, che ha ripreso con un cast musicale tutto nuovo un allestimento del regista Jurgen Flimm creato una decina d'anni fa per la direzione musicale di Giuseppe Sinopoli. Ora sul podio c'è Daniele Gatti che, come ci si poteva aspettare, dà una nuova prova di penetrazione e adesione a quella tradizione austrotedesca di cui oggi è riconosciuto fra gli interpreti più autorevoli: come dimostra l'invito a dirigere Parsifal al prossimo Festival di Bayreuth. Questo Wozzeck scaligero colpisce per la carica di emotività, di quasi carnale veemenza che lo percorre; e ancora più colpirebbe con una maggiore essenzialità visiva che facesse da contraltare alla nevrotica irrequietezza della partitura orchestrale.
La scena di Erich Wonder, per la verità, è tutta compresa in un rigoroso impianto fisso, uno spazio circolare accortamente drammatizzato dalle luci radenti; l'impressione di ridondanza è dovuta soprattutto all'idea di Flimm di affollare di gente, quasi una sfilata di figure alla Grosz, gli intermezzi musicali fra una scena e l'altra, confondendo la funzione di queste pagine straordinarie: quella di ripensare quanto accaduto, mescolandoci dentro il presagio di quanto avverrà. Ma, a parte questa scelta di fondo, si tratta di una regìa di primo piano, frutto di una conoscenza capillare del testo, sempre incalzante e ricca di particolari: è sufficiente, ad esempio, il gesto affettuoso di Wozzeck che posa la sua misera giacchetta sulle spalle di Marie poco prima di assassinarla, perché si capisca che i due si avviano fuori, nel gelo notturno, a compiere il loro tragico destino.
La temperatura emotiva del tutto, fino ai confini del verismo, si tocca con mano nella prestazione maiuscola dei due protagonisti, gli acclamatissimi Georg Nigl quale Wozzeck e Evelyn Herlitzius, una Marie tutta da ricordare: fra loro una vera gara di bravura, nella drammaticità della recitazione e nel dominio di ogni stile vocale, dal parlante, all'intonazione intima, al lirismo eccitato; perfetti anche nel fisico del ruolo, come del resto Endrik Wottrich (il Tamburmaggiore), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (il Capitano), Markus Marquardt (il Dottore) e tutti gli altri, cori compresi, guidati da Bruno Casoni e, per le voci bianche, da Alfonso Caiani.
Pur attentissima alle minime sfumature della partitura, anche la direzione di Gatti ha la sua nota dominante nella passionalità, che culmina naturalmente nel famoso ultimo intermezzo, dove Mahler, Strauss e Puccini sembrano confluire in un disperato epicedio: nulla è più angoscioso di quelle cadenze tonali che piombano sui personaggi atterrandoli e allo stesso tempo comprendendoli in una corale pietà per gli oppressi. Lo spettacolo è dato di fila, un'ora e 40 senza intervalli, secondo un uso introdotto, a quanto pare, da Claudio Abbado; ma, con tutto il rispetto, la gettata unica oscura non poco la mirabile struttura simmetrica dei tre atti con cinque quadri ciascuno, e il calcolato spegnersi ogni volta nella notte: per cui uno stacco anche breve, magari lasciando il pubblico al posto, sembra preferibile. A un certo punto la tensione corre il rischio di calare per eccesso di concentrazione, e ci vuole il colpo su colpo delle prime tre o quattro scene dell'ultimo atto perché lo spettatore venga riacciuffato di peso e costretto a calarsi di nuovo nella sconvolgente intensità di quest'opera unica.
Giorgio Pestelli