una tragedia italiana
di Corrado Augias e Vladimiro Polchi
con Paolo Bonacelli, Lorenzo Amato
scene: Gianni Silvesri, luci: Mario Loprevite, musiche: Marcello Panni
regia: Giorgio Ferrara
Teatro Bellini, Napoli dal 3 febbraio 2009
Teatro Eliseo, Roma dal 20 al 25 novembre 2007
Il vero significato di questo spettacolo - «Aldo Moro, una tragedia italiana», che il Teatro Stabile della Sardegna presenta al Bellini - si precisa, in progressione, solo verso la fine. E tanto è abbastanza normale e ovvio. Ciò che invece risulta originale (e che, peraltro, costituisce il pregio, il valore e l'attualità dello spettacolo medesimo) è il fatto che quel significato scaturisce dal combinarsi di un pieno e di un vuoto, di una risposta brutale e indiscutibile nella sua concretezza e di una domanda ancora oggi inevasa. Trent'anni dopo la vicenda in questione, il testo di Corrado Augias e Vladimiro Polchi - ispirato alle lettere di Moro dalla «prigione del popolo» e agli scritti di Pasolini e Sciascia - ripercorre gli ultimi 55 giorni dello statista, anche sulla base dei telegiornali dell'epoca e di brani tratti dai film «Piazza delle Cinque Lune» di Renzo Martinelli e «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio. E la domanda inevasa di cui sopra è quella che si pose lo scrittore siciliano: «Forse sto cercando di capire gli "uomini delle Brigate Rosse", come il Papa li chiama. Cerco di capire quelli di loro che stanno a guardia di Moro e che lo processano: in quella difficile, terribile familiarità quotidiana che inevitabilmente si stabilisce nello scambiare parole colloquiali o di accuse e discolpe». La risposta, invece, è nel comunicato n. 9 delle Brigate Rosse: «Compagni, la battaglia iniziata il 16 marzo con la cattura di Aldo Moro è arrivata alla sua conclusione. Il Presidente della Democrazia Cristiana è stato condannato a morte. L'unico linguaggio che i servi dell'imperialismo hanno dimostrato di saper intendere è quello delle armi. Concludiamo quindi la battaglia eseguendo la sentenza». Sono parole che appaiono, insieme, impassibili, deliranti, feroci e disperate. E, per l'appunto, dobbiamo ancora oggi chiederci che cosa partorì quell'impassibilità, quel delirio, quella ferocia e quella disperazione. Dunque, il regista, Giorgio Ferrara, fa benissimo a calare l'insieme nella dimensione fredda e astratta di un oratorio laico. E un ulteriore pregio dell'allestimento sta nel fatto che l'impianto concettuale trova un perfetto riscontro sul piano visivo: Moro è chiuso in una sorta di gabbia di metallo e plexiglas (in altri termini risulta nello stesso tempo «nascosto» e «visibilissimo»), mentre il narratore/commentatore rimane costantemente «fuori», a girare intorno a quella gabbia come l'emblema della ridda di ipotesi, pareri e prese di posizione contrastanti e inutili che, spesso ipocritamente, sul «caso Moro» si generarono e continuano a generarsi. Ed eccellente, infine, è la prova che rispetto a un quadro del genere forniscono Paolo Bonacelli (Moro) e Lorenzo Amato (il narratore/commentatore). Da non perdere. Enrico Fiore Fra qualche mese saranno trent'anni dal rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. Rievocazioni giornalistiche di nuovo si affolleranno, e così le valutazioni storico- politiche di quella vera e propria svolta nella nostra vita civile. Una tragedia cui hanno attinto creatori di spettacolo. La tragedia, diceva Cardarelli da poeta, è l'arte di mascherarsi, ed Eschilo mascherò gli Atridi. Ma sul palcoscenico dell'Eliseo di Roma, per Aldo Moro una tragedia italiana non c'è finzione se non di contorno. Gli autori Corrado Augias e Vladimiro Polchi hanno posto al centro della rappresentazione documenti autentici, testimonianze reali, commenti di Pasolini, Sciascia, Napolitano sui 55 giorni di Moro nella prigione delle Brigate Rosse fra marzo e aprile 1978, e l'epilogo cruento. Una composizione che si direbbe televisiva, l'ennesimo «enigma» per Augias, che però, come il coautore, ha praticato l'arte teatrale e ne conosce i meccanismi di cattura dell'attenzione. Ma il 'soggetto' in questo caso travalica l'arte, ci inchioda alla poltrona nella sua nudità di racconto. Anche se affidato sulla scena ad un solo essenziale narratore, l'ottimo Lorenzo Amato, che introduce un'atmosfera di tesa commozione quando cede la parola al 'protagonista', quella delle sue lettere dal covo delle BR. Al Ministro dell'Interno Cossiga, al Segretario della DC Zaccagnini, al Papa Paolo VI, alla moglie «dolcissima Noretta». E non solo. Le conosciamo tutte, ma Paolo Bonacelli, ristretto in un simulacro di cella (scene di Gianni Silvestri) riversa carne e sangue nelle righe incerte di tremori, protesta, dignità e rassegnazione cristiana, dosando l'attore pause e intensità. Con la regia di Giorgio Ferrara.Dicevamo del contorno: contrappunto alla parola narrante, uno schermo irrompe con lacerti di telegiornali, dell'accorato appello del Pontefice e di un film di Marco Bellocchio, Buongiorno notte, che scava nel rapporto fra rapitori e vittima con risvolti psicanalitici. Novanta minuti serrati che enunciano e lasciano aperti gli interrogativi rimasti in trent'anni senza risposta o seminato altri dubbi: perché rapire e uccidere lui, perché la scorta insufficiente, perché le distrazioni nella ricerca della 'prigione', perché contraddizioni e compromessi? Soprattutto perché anteporre la ragion di stato alla vita dell'ostaggio, abbandonando la linea della trattativa per la richiesta liberazione di brigatisti in cambio di quella di Moro? Le risposte che vediamo in bocca ai politici sono ancora là a lacerare chi ebbe la ventura di dover decidere, e la nostra coscienza. E così via riflettendo, specie su quanto è affiorato recentemente circa il ruolo dei servizi segreti. Un teatro-documento è efficace per guardare indietro con gli occhi di oggi. E per dare occhi a chi nel '78 non era ancora nato. Toni Colotta La sera della prima di Aldo Moro. Una tragedia italiana, lo spirito del defunto presidente della Democrazia cristiana, di lassù, deve essersi imbizzarrito. Lo spettacolo era appena cominciato e si è interrotto. Sorpresa tra il pubblico. Che cosa era successo? Qualcuno è spuntato da dietro il sipario e ha informato che vi erano problemi tecnici. Si sarebbe ricominciato subito. Con ogni evidenza gli spiriti hanno poteri, ma non sono onnipotenti. Perché sospetto che in quella pausa vi sia stato lo zampino del presidente? Il fatto è che approssimandosi il trentennale della morte di Moro, tutti stanno scaldando i motori per le dovute celebrazioni. Ha cominciato un altro presidente, Francesco Cossiga, che nel 1978 era ministro degli interni. Nell' intervista ad Aldo Cazzullo del 14 novembre Cossiga ha rivelato cose che danno da pensare. Ha detto, riprendendo un' opinione del brigatista Prospero Gallinari, che in mille sapevano dove era la prigione in cui Moro fu rinchiuso. Chi erano questi mille? Sempre loro, i mille di Garibaldi, le camicie rosse. Al secolo (il ventesimo dell' era cristiana), erano mille comunisti. Loro sì che sapevano! Sapevano e si guardavano bene dal metterne a conoscenza lui, il ministro degli interni. La seconda rivelazione di Cossiga riguardava uno studente dell' autonomia bolognese dalla cui profonda gola spuntò quel nome, Gradoli, che noi sapevamo balzato fuori da una seduta spiritica. Ci si chiede come e quando Cossiga abbia ciò saputo, e perché lo dica solo ora. Se insisto a parlare di un argomento che nello spettacolo, dedicato alla lettura delle lettere di Aldo Moro, non viene neppure nominato, è proprio per questo, perché non viene neppure nominato. Non viene nominato nulla che già non si sapesse e nulla viene detto, nelle cornici, che dia dei tragici fatti un senso nuovo, un' interpretazione. Non mi riferisco, si badi bene, a un' interpretazione di tipo teatrale. Non chiedo tanto. Nessuno lo chiede. Dopo un minuto si capisce che aria tira. Si sa benissimo che non si va oltre una puntata televisiva di storia contemporanea. E si capisce pure che non vi è alcuna obiettività, l' obiettività del documento. Essa è solo apparente. In realtà, il documento è giubilato, avvolto in un' atmosfera giulebbosa, da compianto tardivo, ultra-tardivo, sommamente inutile. Se vi è un' interpretazione, è commemorativa, funerea, lagnosa. Tutta roba di strisciante retorica, dunque tutte menzogne, le sostanziali menzogne del modo in cui le cose vengono offerte all' attenzione. Così, è evidente come non possa esservi, magari scappato di mano, detto in un angolo, suggerito, qualcosa di simile (di eclatante?) a quanto proclamato da Cossiga. Il caso Moro, secondo gli autori del collage Corrado Augias e Vladimiro Polchi, si sostanzia degli eterni Pasolini e Sciascia. Non disponendo di meglio per i tempi nostri, bramosi di multimedialità, ci sono Marco Bellocchio (Buongiorno, notte) e Renzo Martinelli (Piazza delle cinque lune). Senza dimenticare, tra i testimoni e gli interpreti, poiché i conduttori di telegiornale tali sono, Bruno Vespa, magro e compunto annunciatore del rapimento attraverso gli schermi televisivi. A leggere le lettere del rapito c' è Paolo Bonacelli, non troppo credibile, e dunque stoico, o eroico. Il suo stesso regista Giorgio Ferrara sostiene che Bonacelli era l' uomo giusto a causa della sua non credibilità o somiglianza. A fargli da Coro, da sostegno, da alter-ego non sofferente, c' è Lorenzo Amato. Franco Cordelli
Per Aldo Moro una tragedia senza risposta
La tragedia di Moro tra teatro e memoria
La rappresentazione mescola documenti, testimonianze reali e immagini televisive dell'epoca con i commenti di Pasolini e Sciascia.
Spettacolo commemorativo e pieno di retorica.
Bonacelli non credibile Moro, puntata televisiva