di Harold Pinter
Regia di Michelangelo Maria Zanghì
Con Michele Falica e Francesco Natoli
Scena Francesca Cannavò. Costumi Cleopatra Cortese
Locandina Riccardo Bonaventura
Produzione Compagnia Teatrale Santina Porcino
al Teatro dei Naviganti- Magazzini del sale di Messina, al 20 al 21 gennaio 2018
I lavori di Harold Pinter si tingono sempre d'ambiguità. La verità non è mai univoca. Rimane sempre sospesa nel limbo. Non sai mai qual è quella giusta. Le sue pièces possono ascriversi al Teatro dell'assurdo in compagnia di quelle dei vari Ionesco, Beckett, Kafka, Havel e altri. Si prenda ad esempio Il calapranzi scritta da Pinter nel 1957 e messa in scena la prima volta al Hampstead Theatre di Londra il 21 gennaio 1960, proposta adesso nel piccolo caldo spazio del Teatro dei Naviganti di Messina dal giovane regista Michelangelo Maria Zanghì, con Francesco Natoli e Michele Falica nei panni rispettivamente dei due protagonisti Gus e Ben. Due guitti del crimine, con la pistola facile a pagamento, che se ne stanno per tutto il tempo dello spettacolo (una cinquantina di minuti) serrati in un sottoscala spoglio e desolato, senza una finestrella che guardi fuori. L'unica via di comunicazione con l'esterno - si fa per dire - è un calapranzi, un piccolo montacarichi, raffigurato qui, dalla scenografa Francesca Cannavò, con una scatola quadrata, tipo fornetto a microonde, su cui a lettere cubitali sta scritto CALAPRANZI, mentre il posto dei due lettini è occupato da due azzurrognole seggiole in vimini. I due killer sono lì in attesa di qualcosa, non si sa bene cosa, forse della prossima vittima che non spunta mai. E perché mai dovrebbe farsi viva, bussare, entrare e farsi ammazzare? L'intelletto ci dice che sarebbe stato più opportuno che i due killer, tramite il calapranzi, potessero ricevere un biglietto col nome della vittima, uscire fuori, individuarla e infine ammazzarla. Ma qui siamo in una condizione assurda, simile a quella di Aspettando Godot con Vladimiro ed Estragone che aspettano chi non arriverà mai e che tuttavia sembra un chiaro omaggio di Pinter a Beckett. Sia come sia qui il Gus di Francesco Natoli che gocciola sudore dalla fronte e che indossa una giacca ricca di spille e spillette, sembra quello più agitato, come se si fosse impasticcato di anfetamine. Più tranquillo, all'apparenza, il Ben di Michele Falica, certamente più autoritario del collega, anche lui con una giacca strana, ricca di rotelle dentate di varie dimensioni, che se ne sta a leggere sulla sua seggiola le cronache di Birmingham, la citta inglese che li ospita. Basta un niente per farli andare in escandescenza, anche come accendere il gas e preparare un tè. Allorquando i due scoprono il calapranzi nascosto sotto un telo bianco, gli avvenimenti prendono un altro iter. Tre luci rosse accompagnati da fischi e rumori stridenti avvertono che in quella scatola c'è qualcosa. I due aprono lo sportellino e invece d'un biglietto col nome della vittima da uccidere, ricevono prima una serie di fiammiferi e poi una sfilza di ordinazioni culinarie di primi e secondi piatti, di dolci e frutta. Addirittura per accontentare chi dall'alto manda giù gli ordini, Gus sacrifica il suo tè e le sue merende che teneva in borsa mandandole su. Ad un tratto sempre Gus scopre accanto al calapranzi un portavoce per comunicare con l'alto, ma mentre Ben pare riesca a parlare con qualcuno del piano superiore, il pubblico non sentirà mai alcuna voce. Nel finale dopo che Gus esce di scena per bere un po' d'acqua, al suo rientro sarà nudo come l'ha fatto sua madre con i vestiti in mano. I due si guarderanno e il buio sancisce che lo spettacolo è finito. Era Gus che la vittima? Perché Gus rientra nudo in scena? Ha violentato qualcuno? E' stato a sua volta violentato? Siamo tutti in quella cantina, soggetti ai capricci di qualche malavitoso? Domande che non avranno mai una risposta univoca.
Gigi Giacobbe