omaggio a Cervantes realizzato e diretto da Mariano Rigillo
scene: Paolo Petti
costumi: Annamaria Morelli
con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Tonino Taiuti, Alessandra Borgia
Napoli, Castel Capuano, dal 2 al 25 maggio 2008
«Miei cari, ancora una volta sento sotto i talloni le costole di Ronzinante; mi rimetto in cammino col mio scudo al braccio. Ora una volontà che ho perfezionato con compiacimento di artista sosterrà due gambe molli e due polmoni stanchi». Questo, fra l'altro, scrisse Guevara nell'ultima lettera ai genitori. E un simile (si direbbe oggi) «outing» - mentre porta alla luce i limiti politici che ebbe l'azione del Che - rimanda a una lettura del «Don Chisciotte» in chiave utopistica. Ma al polo opposto delle interpretazioni del capolavoro cervantino sta l'acutissima analisi di Foucault che più volte ho citato: Don Chisciotte è «scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose», poiché «la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo» e «le parole vagano all'avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere». In altri termini, nell'Hidalgo della Mancia s'incarna la crisi decisiva dell'età moderna: la frattura tra le parole e l'esistente. E veniamo al punto. Da che parte sta Mariano Rigillo, autore, regista e protagonista dello spettacolo su Don Chisciotte che Vesuvioteatro ed Ente Teatro Cronaca presentano nel cortile di Castelcapuano per il «Maggio dei Monumenti»? Secondo le sue dichiarazioni, imbocca anche lui la strada solita e facile dell'utopia. Ma, fortunatamente, può capitare (e capita più spesso di quanto si creda) che un artista non abbia piena coscienza di ciò che effettivamente mette nella propria opera. E così, smentendo quelle dichiarazioni, lo spettacolo di Rigillo sta, nei fatti, dalla parte di Foucault. Lo dimostrano, con intelligenza, non poche invenzioni e sottolineature, a cominciare dall'adozione del titolo originale spagnolo «El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha». E del resto, già la scena iniziale, nel castello del Duca, appare al riguardo assolutamente emblematica: in rapida successione, Don Chisciotte viene chiamato prima «Don Cosciotto che si mangia» e poi «quello del libro». Siamo, insieme, alla demitizzazione ironica della letteratura e alla lucida denuncia della riduzione della persona a personaggio. Il tutto si coagula ed esalta, infine, quando l'Hidalgo, sul punto di morire, dice a Sancho: «Ricordami» e subito dopo gli chiede: «Ricordi i mulini a vento?». In breve, la vera utopia di «questo» Don Chisciotte non è la verità, non è la libertà, ma il desiderio di rinascere persona, di diventare cosa tra le cose e, insomma, di fuggire dalle parole per ripararsi nella vita. E lo ribadisce la stessa coerenza strutturale dell'allestimento: dalle splendide musiche di Nicola Piovani, che sistematicamente rompono la forma codificata (per esempio quella del flamenco) con improvvisi scoppi di percussioni, alla scena di Paolo Petti, un - gigantesco!... - palco ad assetto variabile. Superfluo, adesso, attardarsi sulla bravura degli interpreti: intorno a Mariano Rigillo, un Don Chisciotte di rara consistenza stilistica, si segnalano la furbizia tutta napoletana di Tonino Taiuti (Sancho), lo spirito di Anna Teresa Rossini (Altisidora), il piglio satirico di Alessandra Borgia (Donna Rodriguez) e la forza evocativa delle voci di Patrizia Spinosi e Franco Castiglia, ben sostenute dalla chitarra di Michele Bonè. Moltissimi e sentiti gli applausi, anche a scena aperta.
Enrico Fiore