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FOLLÌAR - di e con Alberto Astorri e Paola Tintinelli

"Follìar", di e con Alberto Astorri e Paola Tintinelli "Follìar", di e con Alberto Astorri e Paola Tintinelli

di e con Alberto Astorri e Paola Tintinelli
una produzione: AstorriTintinelli
Teatro della Contraddizione, Milano dal 26 al 29 Ottobre e dal 2 al 5 Novembre

www.Sipario.it, 12 novembre 2017

C'è un che di bombardato in tutto. Anche se nella via privata della Braida si coglie un accenno di placidità borghese, tra un largo viale e una tranquilla via centrale, a Milano, esso subito s'incrina davanti alla silhouette di metallo del portale-cancello-facciata del Teatro della Contraddizione: principio di contraddizione alle porte della Milano borghese e teatralmente benestante (a due passi c'è il Franco Parenti, teatro ristrutturato che esibisce con un certo gusto le ferite dei propri inserti di mattone a vista). Perché questo è un teatro che sprofonda nel suolo, teatro rifugio antiaereo, che manifesta la propria consapevolezza di stare ancora in un'età del ferro già dalla griglia di metallo della porta e dal gabbiotto che circonda la rampa di scala che sprofonda. Dentro, un interno affastellato di resti del mondo di sopra, di quel mondo novecentesco fatto di televisori e vecchi aggeggi tecnologici, ammucchiati sulle teste degli spettatori, che lasciano libera un'ansa dalla quale sorge un piccolo bar che sembra la biglietteria, di fianco al quale sorge un tavolino basso che sembra un tavolino basso e che invece è la biglietteria. Programmazione inusuale già dal modo in cui si presenta nel dépliant, che riproduce ironicamente la grafica di un pacchetto di sigarette con i dovuti avvertimenti per la salute virati al teatro: "Il teatro uccide. Vivi per i tuoi cari" si legge, per esempio. Viene in mente una vecchia "pubblicità-progresso", si chiamavano così, che recitava "Chi fuma avvelena anche te, digli di smettere", e la tentazione di torcere anche questo slogan in un avviso per il teatro. Povertà di un'arte viva che fa ricchezza del poco, e dunque miracolo, e che oggi, dai fasti e contro fasti del decentramento, divenuta pratica definitivamente decentralizzata, sembra abbia lasciato al centro le spoglie del teatro del Novecento, e trovi invece un proprio centro in se stessa e nel riconoscimento pluralistico dei centri, di contro alla vecchia contrapposizione, librandosi tra residui comunque novecenteschi e sprazzi di nuovo millennio, tra postdrammatico e manierismi.
Ma "il teatro avvelena anche te, digli di smettere" sembra a volte di sentire nell'aria, malgrado rassicurazioni e pacche sulle spalle. Nella scheda dello spettacolo cui stiamo per assistere si legge: "Platone diceva che il potere dell'arte sull'animo umano era così grande che la poesia avrebbe potuto da sola distruggere il fondamento stesso della sua città e, tanto più a malincuore, riteneva che andasse bandita. Oggi è stata accolta ma non esercita più lo stesso influsso".
Su questo teatro residuale, teatro malattia, teatro da smettere/dismettere sembra incentrato il Folliàr di AstorriTintinelli visto alla Contraddizione.
Una stanchezza mortale pare avvolgere tutto. Il modo di muoversi e di parlare del capocomico cieco, le povere cose che fanno da scenografia; stanchezza per la quale l'ingresso degli attori in giacca e mutande sembra alludere a un'ulteriore rinuncia. Al capocomico (Alberto Astorri) si oppone un personaggio smilzo e vivace (Paola Tintinelli), di una vivacità artificiosa, da guitto sfasato, con una vocina scartavetrante che lacera ad ogni battuta lo spazio sonoro e vorrebbe scuotere l'indolenza del compagno. La constatazione che "è tutto finito" sembra impregnare i gesti e le azioni dei due. Che tuttavia insistono nel costruire una barca di salvataggio o una bara – il che in fondo è lo stesso, e a ben pensarci a distinguerle c'è solo una "c". Ma è una bara che una volta calata nella terra fiorisce. Un fiore talmente forte della sua stranezza da risultare bello, di una bellezza involuta e un po' contorta. Perché questa coppia di artisti molto amata dalla critica e tuttavia operante (per scelta propria?) in una sorta di aristocratica marginalità, qui ha messo da parte ogni storia, sta alla fine della Storia, in una terra di nessuno, "dove non c'è più niente da recitare", dove si trovano pezzi di memoria teatrale, epigrammi autoironici, spericolate fantasie drammaturgiche, gags consunti, gestualità clownesche innervate da un'ossessione reiterativa che le rende quasi oggetti autonomi, come tenute in vita da un'acidificante procedimento di erosione; tutto questo gettato apparentemente alla rinfusa, in un pulviscolo di segni che i due performer, con una peculiare forza attrattiva, riescono a far gravitare attorno a sé, riuscendo a formare alla fine un universo coerente e coeso. I personaggi di questo Folliàr sono due guitti di strada che si esercitano al teatro, non sono perduti finché tengono vivo questo esercizio. E se lo stereotipo secondo cui "la vita è teatro" risulta essere la sigla segreta di tutte le angherie e le follie e gli inutili gorghi di discorsi e le gesticolazioni isteriche o sedate del narcisismo di massa che rivestono come un collame viscido la vita del tramontante occidente dello spettacolo, per questi due guitti, invece, il teatro è vita, e in tale rovesciamento è possibile forse cercare una propria verità umana. Così in questo abitare la scena, fatto di atti quotidiani come arredare di pochi elementi lo spazio, uno sgabello, una pentola per cucinare; in questo allestire la prova che non viene, arrivano, come folate di brezza nella bonaccia del desolato tran tran dei due personaggi, i frammenti del "Re Lear" di Shakespeare. Nel districarsi tra le abitudini quotidiane che preparano la prova che non c'è, tra un sedersi sconsolato del capocomico, il suo spostarsi a buffi passettini di cieco da un lato all'altro della scena, il pescare con le mani gli spaghetti incollati nella pentola per ficcarli in bocca e masticarli in un gesto di quasi scarpettiana memoria, ma senza quella gioia animale, anzi con una rassegnata consapevolezza di inutilità e moderato disgusto; e poi, d'altra parte, nell'ostinata verve preparatoria, nella gestualità maniacale che il più magro guitto esprime quando prova quella che sembra una versione esagerata, espressionistica, ipervelocizzata, del classico numero del salto della pulce da una mano all'altra, ecco che i due, a poco a poco, slittano verso Shakespeare. E lo fanno come due naufraghi che toccano sponda per un momento, prima di essere di nuovo travolti dai gorghi dell'impasse. A cadere preda della tentazione della lettura in filigrana si potrebbe vedere in tutto questo un richiamo alla condizione in cui si trovano oggi tanti artisti di teatro, ma il discorso si arenerebbe subito: no, qui siamo in una condizione atemporale, dove i gesti sono quelli di sempre, la quotidiana lotta, con se stessi e con il mondo (e con il teatro) come condizione dell'uomo, e Shakespeare, ancora una volta, balugina come il riflesso di un mondo dove la poesia può offrire un piccolo, personale, riscatto. La progressione che porta verso Lear avviene con una dolcezza che quasi strugge, con una naturalezza che sorprende. Specie nella ripresa della scena VI del IV atto, quando Gloucester accecato viene condotto da Edgar sull'orlo del finto precipizio. Certo, in tutto questo si avverte forte la presenza di alcuni fantasmi teatrali del '900: figure beckettiane, o da avanspettacolo, usurate però, già posteriori ai barboni di Delbono: le tube e le giacche sdrucite e impolverate di tutti i comici, dei circhi e dei cabaret, di cui si avvertono le muffe, gli spiegazzamenti da baule; e poi la scrittura scenica che richiama spesso quella di Leo. "I maestri vanno mangiati in salsa piccante" dice a un certo punto il capocomico. Un fantasma di padre, Leo, che non chiede vendette, che a tratti si espande per la sala, e chi ha visto gli spettacoli di questo grande artista non può in questi momenti non palpitare a cuore aperto.
Poesia della scena ruvida, apparentemente sporca (in realtà nettissima nella sua precisione gestuale e sapienza vocale), ironica, genuina.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 25 Febbraio 2018 11:53

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