di Jean Racine
Traduzione Giovanni Raboni
regia Federico Tiezzi
con Catherine Bertoni de Laet, Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov,
Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro
scene Franco Raggi, Gregorio Zurla, Federico Tiezzi
costumi Giovanna Buzzi; luci Gianni Pollini
movimenti coreografici Cristiana Morganti
canto Francesca della Monica
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale
Al Teatro Ivo Chiesa di Genova dal 28 febbraio al 2 marzo 2025
Fedra, la giansenistica tragedia di Jean Racine del 1677 dalle fonti innumerevoli, sovrapposte e contrapposte alle radici del mito stesso, qui riproposta nella messa in scena di Federico Tiezzi sulla base della lirica traduzione dello scomparso Giovanni Raboni, è in fondo una tragedia duale ed in questo freudianamente scissa, viene da dire quasi schizofrenica in quel protagonista profondo e unico ma a due teste (Fedra vs Ippolito) che è la passione, l'eros quando si fa equivoco e inganno travolgente. Duale anche nel suo binario significare; da una parte infatti può essere vista come la tragedia di un Occidente nato sulla frode, l'inganno e la guerra (come Teseo a Creta così Ulisse a Troia) e che nella frode, l'inganno e le guerre (ahimé sempre più attuali) sembra destinato a perire, come vaticinano tanti contemporanei profeti della sua imminente fine. Un Occidente però in cui le radici del mito permangono, come ferite di ciò che non è più (il regno del mare, precipitato su se stesso come la platonica Atlantide, e quello matriarcale delle Amazzoni, in una genealogia continuamente intrecciata), di ciò che fu prima di Atene (simbolo stesso dell'Occidente) ma che continua a interrogarla. Dall'altra è la visione improvvisa della radice del male, del peccato non più originale, che, a partire dal tema della grazia (o dis-grazia) divina già in Agostino, si ricompone nella sua apparente e appunto giansenistica ineluttabilità, che troverà poi una sua moderna sistemazione nei freudiani carotaggi di un inconscio poco governabile. Al centro di questa dualità l'amore, e anche il potere su di sé e gli altri, non più motore di salvezza ma ostacolo doloroso e insormontabile nella sua incapacità, tragica in quanto irriducibile e irresolubile, di relazionarsi tra l'amante e l'amato, ciascuno chiuso come una monade in un percorso che da singolare si fa esso stesso 'prigione'. Ovviamente Jean Racine, e con lui Euripide e Seneca che quel nodo affrontano in maniera difforme ma coerente, non conosceva Sigmund Freud o Carl Gustav Jung, ma certamente Federico Tiezzi, e con lui il fu traduttore Giovanni Raboni, li conosce e così sceglie consapevolmente di ambientare, o meglio di ospitare, l'oscurità del mito (e anche della Storia) nell'oscurità dell'inconscio, quasi sperando che l'incontro/scontro di due oscurità possa paradossalmente produrre, nella tensione della catarsi tragica, una luce se non di comprensione almeno di consapevolezza. Non è casuale al riguardo, ci ricorda ancora il traduttore Raboni nella sua prefazione (siamo nel 1984) al testo scelto dal regista, la censura, su questa e altre tragedie di Racine, del tardo romanticismo francese (Hugo in primis), recuperata poi dalla grande sensibilità anche psicologica di un Marcel Proust all'ombra delle fanciulle in fiore che così si esprime attraverso i suoi propri (proprio suoi) immortali personaggi: <<”Ti piacciono molto Andromaque e Phèdre” chiese Saint Loup allo zio con tono lievemente sprezzante. “C'è più verità in una tragedia di Racine che non in tutti i drammi del Signor Victor Hugo” rispose Charlus.>>. È come guardare, suggerisce ancora Raboni, il fondo oscuro di un lago in cui si scatenano passioni ed istinti attraverso la trasparenza del ghiaccio levigato dall'inverno, cercando di non confondere “il calor bianco con il ghiaccio, l'incandescenza con il gelo”. Dunque la regia di Federico Tiezzi sceglie di privilegiare l'oscurità che si accende, senza però mai veramente scaldarsi e illuminarsi nella fredda luce dei neon, in un ambiente claustrofobico come può essere una camera di tortura o anche una camera mortuaria, quasi che l'amore e la passione fossero ormai i riflessi spenti di un incendio, il fuoco che cova sotto la cenere, o ancora gli ornamenti sbiaditi di un catafalco. È, nella sua messa in scena, ostinatamente fedele al Jean Racine di Raboni ma non dimentica di Seneca e Euripide, a testimoniare le mille sfumature, le mille forme che la narrazione assume, ovvero abbandona, transitando dalla oralità alla scrittura. Usa, come il drammaturgo, la rigida e quasi mistica misura del verso alessandrino per cercare di intrappolare Dioniso che si dibatte nei cuori lacerati, ma non più ricomponibili, dei suoi personaggi, in un contrasto, figurativo e sonoro, che non riesce a sciogliere il nodo, o ad allontanare l'enigma, al contrario enfatizzandolo. C'è in tutto questo anche un accento etico che in qualche modo tenta di riscattare in questa donna innamorata oltre la ragione, e per questo condannata fors'anche in quanto femmina, l'ambiguo rapporto tra grazia e peccato: Fedra, come scrisse lo stesso Racine, “non è infatti né del tutto colpevole, né del tutto innocente”. La storia narrata è nota e vorrebbe parlare di passioni e non di individui, ma nel transito scenico è l'individualità di Fedra, amante di un amore impossibile, o quella di Ippolito, amato incapace di amare, che forza i confini della narrazione fino al tragico e doppio epilogo di morte di cui, Teseo l'ingannatore ingannato, è solo il cieco 'officiante'. Lo fa a partire dalla scenografia, che lui stesso cura insieme a Franco Raggi e Gregorio Zurla, e dai costumi di Giovanna Buzzi, nero su nero, ardore rinascimentale e slancio barocco intrecciati con la linearità razionale e 'fine' del neo classico XVII secolo, andando oltre il tempo per cercare una immedesimazione anche nell'oggi delle tragedie al e del femminile. Ha del resto potuto guidare un cast di qualità (limitandoci ai quattro protagonisti essenziali Elena Ghiaurov è Fedra, Bruna Rossi è Enone la nutrice, Riccardo Livermore è Ippolito e Martino D'Amico è Teseo), capace di ben sostenere nella dizione e nella mimica la inattuale, ma salvaguardata nel testo, cadenza del verso, così da conseguire quel giusto livello di immedesimazione in personaggi che quasi non rappresentano se stessi, essendo portatori di valori (tra vizi e virtù) che li sovrastano o li precipitano. Il tutto preservando il riflesso e il senso della antica coreusi nel canto di Francesca della Monica e soprattutto nei movimenti coreografici della danzatrice Cristiana Morganti, capaci talora di meglio rappresentare e decifrare il sentire di Fedra rispetto alle sue stesse parole. Uno spettacolo se vogliamo non facile che non sempre ha saputo forzare i limiti di un troppo accentuato classicismo, così restando, talora, distante dalla immediata sensibilità del pubblico e quindi costruendo un palcoscenico/scenario tendenzialmente centrifugo anziché centripeto. Tiezzi è comunque coraggioso e coerente, tra il suo peregrinare nel Mito e i miti antichi, nel sottolineare la modernità borghese di un testo, da lui stesso definito, nelle note di regia, “quasi un Ibsen ante litteram” diventato secondo lui “la più grande opera sulla passione erotica che il teatro abbia mai prodotto”. Ospite del Teatro Nazionale di Genova, nella seconda tappa di una lunga tournée italiana. Maria Dolores Pesce