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INTORNO A DON CARLOS. PROVE D'AUTENTICITÀ-KAMMERSPIEL STUDIO 1.1 - regia Marco Filiberti

"Intorno a Don Carlos. Prove d'autenticità", regia Marco Filiberti. Foto mefantasia "Intorno a Don Carlos. Prove d'autenticità", regia Marco Filiberti. Foto mefantasia

drammaturgia e regia Marco Filiberti
con Matteo Tanganelli, Diletta Masetti, Stefano Guerrieri, Luca Tanganelli, Giovanni De Giorgi
coreografie Emanuele Burrafato
scene Benito Leonori, costumi Daniele Gelsi
light designer Mauro Toscano, sound designer Stefano Sasso
trucco e parrucco Roberto Pastore e Marilù Sasso
Una produzione LE VIE DEL TEATRO IN TERRA DI SIENA
in collaborazione con FONDAZIONE PERGOLESI-SPONTINI – JESI | CENTRO STUDI V. MORICONI - JESI MARCHE TEATRO, TEATRO COMUNALE DEGLI AVVALORANTI – CITTÀ DELLA PIEVE con il sostegno di UNIONE DEI COMUNI DELLA VALDICHIANA SENESE, COMUNE DI SARTEANO, ABBAZIA DI SPINETO, DIMORA BUONRIPOSO.
Al Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve (Pg), l'8 e 9 aprile 2017

www.Sipario.it, 13 aprile 2017

Poetico e potente il Don Carlos da camera di Marco Filiberti

Stremato, ma vittorioso, sporco di sangue il Duca d'Alba avanza dalla platea al palcoscenico tra clangori e grida di battaglia, che s'interrompono e riprendono mentre, inginocchiato, prega il Credo in unum Deum. «Tutto è compiuto» sentenzierà uscendo di scena. Con questa sequenza s'apre il magnifico affresco teatrale Intorno a Don Carlos. Prove d'autenticità di Marco Filiberti. Dopo la trilogia Il pianto delle muse, affollata di eroi, letterati, déi e miti della storia, la poderosa perlustrazione della parabola umana attraverso il recupero del mondo classico per dire del nostro tempo, della morte del desiderio e della nostalgia della bellezza, cede ora il posto ad un kammerspiel, per un bisogno, del regista, di indagare la solitudine relazionale di pochi personaggi immersi in un preciso momento della Storia. Lo sguardo si circoscrive, aprendosi, al dramma storico-politico del Don Carlos di Friedrich Schiller, qui condensato in soli cinque interpreti, per leggerne un dramma d'amore, spirituale, esistenziale, contemporaneo. Un nucleo ristretto di presenze che bastano all'accadimento teatrale; e una scena fissa, installativa – una passerella di legno sul fondo e due lunghe corde che cadranno improvvise come lame a trafiggere lo spazio e gli uomini –, che basta a creare il climax ed evocare luoghi. Il primo è quello di uno spazio indefinito dove si muovono Carlos, Rodrigo ed Elisabetta, ciascuno chiuso in se stesso, le cui voci, come un vento gelido, s'odono provenire da lontano e ripetere ciascuno parole che li definiscono e li relazionano tra loro. «Sono le lacrime l'eterna certezza dell'umano» dirà Carlos all'amata Elisabetta, la quale prometterà «il mio cuore sarà sempre il solo giudice del mio amore»; e «Sono pericoloso perché ho pensato oltre i miei limiti» dirà di sé Rodrigo. Parole che confluiranno all'unisono in «Dateci la libertà di pensiero». Sta in questo anelito tutta la vicenda del dramma di Schiller, dove il Male pervade la società e s'identifica con la volontà di potenza di un monarca schizofrenico, Filippo II, e della Chiesa, che per suo interesse fa coincidere colla sua la propria volontà di potenza. Il figlio del re Filippo II, il giovane eccentrico ed epilettico Don Carlos, erede al trono di Spagna, ama segretamente la giovane regina, la matrigna Elisabetta, un tempo sua promessa ma per ragioni di stato divenuta sposa di suo padre. Attorno ai due protagonisti una complessa macchina di intrighi, di pulsioni incrociate, di complotti e rivolte, e sopra tutti Rodrigo, il marchese di Posa, amico del principe. È lui il difensore della libertà e dei diritti umani, ma anche il tribuno abbagliato dalla sua fede e il combattente guidato da convinzioni che sfiorano il fanatismo e il dogmatismo. È lui che cerca di guarire l'Infante malato d'amore spostando la sua infelice passione in direzione del progetto politico di dare libertà religiosa alle Fiandre, oppresse dal re. Egli cerca di salvare Don Carlos, ma viene ucciso da Filippo II, che fa arrestare il figlio e lo consegna al tribunale dell'Inquisizione prima che egli riesca a fuggire. Questa in sintesi la complessa storia.
Filiberti la plasma figurativamente e plasticamente e la sostanzia d'anima; la innerva di fugaci citazioni testuali «che relazionano il nuovo arco narrativo agli aspetti coercitivi della comunicazione di massa». La corte repressiva di Filippo diventa «figura della claustrofobica "assenza" di mito, di radici, di grazia, di spazio, di bellezza, di silenzio, dell'uomo contemporaneo». Ed ecco brevi squarci lirici frapporsi, in una identificazione che percorre il tempo, le voci di processi a Giordano Bruno e Giovanna D'Arco, o la preghiera di Francesco d'Assisi che implora Dio di parlargli, con voci di rassicuranti messaggi pubblicitari intervallati a discorsi di conclamati dittatori e a squallidi programmi televisivi. La drammaturgia è tesa e procede orchestrando l'azione con emblematici dialoghi a due e a tre; nel comporsi plastico di una corrente di eros che lega Carlos a Rodrigo e a Elisabetta; nell'apparizione fulminea di un sacrificio che vede Carlos dalla platea avanzare nudo al centro della scena percosso da suoni sferzanti e infine issato sulla fune come una bestia condotta al macello, trasformandosi in una sfera di luce. Il flusso musicale scorre tra il ripetersi della marcia funebre della VII Sinfonia di Beethoven, a manipolazioni elettroniche di polifonisti fiamminghi, a rumori meccanici, alle brevi note della canzone Parlez-moi d'amour che ci portano ai ricordi di Fontainebleu qualche anno prima, quando Carlos ed Elisabetta, fanciulli, si corteggiano prima timidamente, fino a scambiarsi un bacio furtivo. Su queste partiture avvolgenti inframezzate da rumori e silenzi, si depositano via via sulla scena pose che rimandano alla pittura classica della ritrattistica del XVII secolo, restituite dai corpi degli attori mai con un eccesso di maniera, mai catturati nella trappola dell'estetismo, ma sprigionanti la musicalità della poesia figurativa intrinseca. Perché essi stessi, gli attori, sono fatti corpi poetici, assunti dalla parola, dal suo suono, dal senso pieno del dire e restituire, in una dimensione di tempo annullato «anch'essi rovine di un sentire umano forse inesorabilmente perduto». Ed è nella coreografia gestuale ricca di preziosi dettagli, tra cadute e ascensioni di braccia aperte; è in questa lunga intensa sequenza in cui, intrecciando movimenti e parole, recitazione e danza, mentre si ritrovano ciascuno a confessare i propri pensieri, che l'acme unitario espressivo trova culmini di bellezza totale anche scultorea. Si aggiunge ad essa la sapiente drammaturgia delle luci dai molteplici richiami pittorici, che plasmano i caldi chiaroscuri e gli accesi cromatismi resi anche dai rigidi costumi, e accendono l'intero sfondo conferendo al fluire dei vari quadri scenici una ulteriore densità visiva. Che si scioglie nel quadro finale con la morte dei protagonisti, mentre una voce fuori campo chiude lo spettacolo: "La storia forse andò diversamente, ma Vittorio Alfieri, Schiller e Giuseppe Verdi la intesero così. Come creature di fantasia hanno avuto più fortuna che come sovrani".
Un tale risultato teatrale, di altissima, e va detto, rara qualità artistica, di artigianato non solo della parola, ma di una pratica di teatro totale perseguita con dedizione, necessita di preparazione accurata, di tempi di lavoro meditati, e di individuazione di corpi e di menti al servizio di ispirazioni dettate dall'urgenza di dire e di dare. Un dare voce a corpi e menti di attori che al rito dell'esposizione pospongono lo svuotamento di sé, la dedizione piena a un'idea, ad una pratica scenica che privilegia e nutra l'essere, che richiede l'abbandono di sé per dare spazio ad un altro: l'altro inteso come rivelazione di una relazione in atto, di scoperta in divenire di autenticità dell'essere. Ecco allora un cast di attori – Matteo Tanganelli, Diletta Masetti, Stefano Guerrieri, Luca Tanganelli, Giovanni De Giorgi – sapientemente diretti da Filiberti e condotti ad un visibile e luminoso lavoro di scavo, che adempiono il compito con adesione e tensione vitale. Un elogio a parte per Matteo Tanganelli è necessario. Il suo Don Carlos vibra di umanissima e ideale forza emotiva, di tremori potenti, restituendoci di quell'uomo tutto il dramma umano, tutta la disperata ricerca di felicità e l'inadeguatezza, per innocenza d'animo, di capire quelle logiche che mutano un sogno puro di libertà e di amore in un verdetto di condanna.

Giuseppe Distefano

Ultima modifica il Sabato, 15 Aprile 2017 00:45

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