commedia musicale di Peppe Lanzetta
musiche: Massimo Severino
regia: Pasquale De Cristofaro
coreografia: Aurelio Gatti
scene: Alessandra Bruno
con Cristina Donadio e Carla Avarista, Felice Avella, Giusi Barone, Romolo Bianco, Antonello De Rosa, Rosanna Di Palma, Marco Esposito, Patrizio Esposito, Alessandro Gagliardi, Antonio Grimaldi, Vincenzo Musella, Salvatore Ruocco, Emmanuela Serrone, Antonio Solito
Napoli, Cortile del Maschio Angioino, 11, 12 e 13 luglio 2008
«L'opera di periferia» di Peppe Lanzetta, che ha aperto nel cortile del Maschio Angioino la rassegna «Il teatro musicale napoletano», è urticante tanto quanto era accattivante «C'era una volta... Scugnizzi» di Mattone e Vaime. E per spiegare una simile, radicale differenza, occorre chiarire che la periferia di Lanzetta non è solo una questione di urbanistica, ma anche e soprattutto una dimensione dell'anima e, quindi, un problema di emarginazione culturale prima che sociale. Infatti, il pregio del testo sta nella capacità di ricreare perfettamente, e con impassibile mimesi, il vuoto pneumatico in cui spasimano i cervelli dei personaggi portati alla ribalta: un vuoto che viene riempito solo dal groviglio inestricabile fra i dati (veri e brucianti) della quotidianità e i lacerti (manipolati e asettici) dell'informazione televisiva. Sicché accade, per intenderci, che l'Intifada si trasferisca a Castelvolturno, le banlieues parigine si confondano con la 167 di Secondigliano, la Striscia di Gaza diventi una striscia di cocaina. E non a caso, infine, si scontrano qui due bande giovanili che si son dati i nomi di Ebrei e Palestinesi. La periferia di Lanzetta, insomma, è la perdita dell'identità: queste mamme, questi ragazzi, questi boss non esprimono più niente, non vogliono più niente, non diventeranno più niente. E di fronte a un deserto del genere, l'autore ha il merito di respingere drasticamente qualsiasi ipotesi consolatoria e, di conseguenza, tutti gli slogan trionfalistici partoriti (anche attraverso il teatro...) circa «le magnifiche sorti e progressive» dell'antica e nobile Partenope. Il simbolo dichiarato di tale rifiuto è il personaggio della Signora Torre, che cucina, puntualmente, solo «cose finte»: il finto brodo, la finta genovese, il finto sauté di vongole... E a differenza dell'emigrato di Farfariello, che sull'onda della nostalgia implorava «'mparame 'a via d' 'a casa mia», Lanzetta conclude: «no, i' 'a casa nun ce torno / nun saccio cchiù addò sta / nun voglio vede' a papà». Dove la «casa» e «papà» sono anche gli alibi di una malintesa tradizione, a cominciare dalle canzoni. Perché, in fondo, all'«Opera di periferia» presiede il monito definitivo di Viviani: «E chisto è Napule, / ca tene cante e suone: / nun magna pe' ffa' 'e ccanzone, / nun dorme pe' s' 'e ccanta'!». Così, se qualcuno insiste a prenderla per la ragazza di Ipanema, la guagliona di Lanzetta risponde: «Me chiammo Maria / e Mari' voglio resta'». È questa la lezione che dobbiamo accogliere: solo a partire dalla coscienza di sé e dall'abbandono delle illusioni si può individuare la strada per uscire dal deserto. Il resto - sotto la guida, insieme discreta e puntuale, del regista Pasquale De Cristofaro e nel solco delle musiche di Massimo Severino, efficacemente stranianti con il loro mix di rap, ritmi latini ed echi di tammurriate - è affidato alla ruvida fisicità e alla spontanea espressività dei giovani interpreti che affiancano Maria Rosaria Virgili, dolorosa Medea della suburra, e lo stesso Lanzetta dell'elegia conclusiva sospesa tra le Vele e Formentera. Da citare, fra loro, almeno Tony Guido, Antonello De Rosa e Antonio Grimaldi.
Enrico Fiore