Aiace con Raffaele Esposito,
Agamennone con Emanuele Vezzoli,
Fedra con Bruna Rossi,
Persefone con Paola De Crescenzo,
Oreste con Massimiliano Sbarsi e Delfi con Nanni Tormen,
opere di Luca Pignatelli, luci di Claudio Coloretti,
progetto e regia di Walter Le Moli,
produzione Fondazione Teatro Due, al Teatro Due, Parma 26 novembre 2014
Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos è un viaggio, è un interrogare la parola segreta del mito, è un ritornare al mito per ripartire. Walter Le Moli affida alla poesia di Ritsos e alle opere di Luca Pignatelli un'esigenza che è quanto mai sentita nel teatro contemporaneo: recuperare l'arché, l'inizio, andare alla radice, recuperare la parole per dire o meglio per il bisogno di interrogare il linguaggio per tentare di definire il nostro presente sfuggente. Lo spazio potrebbe essere una sala da museo, alle pareti sono appese le opere di Pignatelli in cui il riferimento iconico alla classicità si intreccia con sforamenti materici che sono proiezioni in avanti, sono affacci sul nostro oggi. In un certo qual modo la stessa fuga in avanti temporale si percepisce nella poesia di Ritsos in cui il racconto del mito attraverso i suoi protagonisti è bilancio d'esistenza, è ferita che scotta, in cui improvviso l'oggi entra prepotente con accenni o gesti che dicono di un eterno soffrire e patire. Agamennone è il re vittorioso che torna da Troia, è l'uomo/soldato sconfitto a cui il sangue, le battaglie, la morte non danno pace. Agamennone è il marito che torna dalla moglie Clitennestra, è l'uomo che ha bisogno di purificarsi e chiede alla moglie di preparargli un bagno e si avvia verso la fine, ucciso dalla sua regina che da madre si vendica del sacrificio di Ifigenia. Ritsos presenta Agamennone in attesa di quel bagno caldo e fatale, presenta l'uomo oppresso dal troppo dolore: «A volte mi sembra di essere un morto tranquillo, che i guarda esistere; che osserva con gli occhi vuoti come mi muovo, i miei gesti», dice Agamennone. Emanuele Vezzoli evidenzia nel suo Agamennone la dolente umanità e la deposta regalità, presenta un uomo sconfitto, in cui Achille, Patroclo, Elena sono i tasselli della comune e bruciante sconfitta della vita. All'umanità ripiegata su se stessa di Agamennone si contrappone la disperata vitalità di Aiace di Raffaele Esposito. Se il racconto di Agamennone è tutto di testa, qui il giovane e talentuoso Raffaele Esposito è tutta voce e corpo, è animale in gabbia, è strage di bestie nel recinto in cui l'eroe è stato rinchiuso, è follia bagnata nel sangue e che alla fine troverà la propria liberazione in un bagno lustrale e fatale. Aiace, bello, prestante deve chinare il capo alla volontà degli dei che gli preferiscono Ulisse, Aiace è furia inarrestabile, è l'eroe tradito dai suoi dei, Aiace è «il forte, l'indomito – mi avete caricato di troppe lodi, mi avete subissato, soffocato – uno per uno e tutti insieme appesi al mio collo; - mi avete soffocato. Ecco l'opera vostra. Gioitene», confessa steso su un materasso l'eroe, prigioniero nell'ovile, prigioniero della sua follia, sconfitto anch'esso da una guerra che ha lasciato morti e quando va bene viaggiatori nostalgici in cerca di una casa perduta... Raffaele Esposito è rabbia che erutta, è dolore che brucia, è corpo teso che dà concretezza e sofferenza alle parole dell'eroe, al suo ultimo canto, è un reiterato e disperato: «Che cosa guardi donna? Chiudi le porte, chiudi le finestre, spranga l'ovile, tappa le fessure, entrano insetti nocivi, lucertole, entrano grosse mosche e risa furtive». E non ci vuole molto a capire che tutto è nella sua mente, che è la follia dell'eroe abbandonato dagli dei, dell'uomo sopraffatto dal dolore... In tutto questo Raffaele Esposito è potente e dolente insieme, è eroe e uomo all'unisono, è forza incontrollata e poetica sofferenza... Questi due tasselli del progetto Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos dicono di un itinerario nelle stanze della memoria, nel museo del mito,. Diocono soprattutto di una necessità: rileggere i classici per voce di un poeta contemporaneo, spinti dalla necessità di coniugare parola, corpo dell'attore e coro di spettatori in nome di un fare teatro al grado zero, in nome di una convocazione della poesia che trasforma e fa e che richiede la presenza reale di chi dice e interpreta e di chi ascolta e fa proprio.
Nicola Arrigoni