di Bernard-Marie Koltès
con Valentina Banci, Paolo Graziosi, Francesco Borchi, Francesco Cortopassi, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Alvia Reale, Mauro Malinverno
Traduzione Saverio Vertone
Dramaturg Željka Udovičić
Scene Lorenzo Banci
Costumi Leo Kulaš
Musiche Arturo Annecchino
Luci Roberto Innocenti
Regia Paolo Magelli
Teatro Metastasio Stabile della Toscana in collaborazione con Spoleto57 Festival dei 2Mondi
Al Teatro Stabile Sloveno di Trieste, fino al 17 aprile 2016
TRIESTE - Dicono che la bruttezza sia qualcosa che nasce dall'interno e morde le viscere fino a strapparle, che annichilisca la nobiltà dell'uomo e apra scenari di distruzione dai quali è difficile tornare indietro. Quai Ouest, testo teatrale del compianto Bernard-Marie Koltès, indaga l'orrore che ha segnata la seconda metà del Novecento, con la sua sanguinosa scia di guerre, razzismo, colonialismo, speculazioni, e immagina un rovesciamento di rapporti di forza tra l'Africa e l'Occidente, con quest'ultimo colto nel momento del suo completo sfacelo, segnato dalla decadenza morale della società, segnata da guerre infinite delle quali si è persino dimenticata la ragione che le ha provocate. Scritto nel 1985, Quai Ouest, s'inserisce appieno nel drammatico clima socio-politico degli anni Ottanta, che ancora oggi è materia di studio per storici e sociologi. Quel decennio non fu una parentesi a sé stante, bensì rappresentò l'inizio di una spaventosa modernità, fatta di violenza sociale, violenza politica, avidità, interessi economici, tutte dinamiche non nuove, certo, ma che in quegli anni conobbero una rapida escalation e una recrudescenza di modalità e intensità.
Magelli riprende integralmente testo e atmosfere di Koltès, accentuandone, se possibile, la drammaticità, attraverso una scenografia di apocalittica bellezza, che, se da un lato può essere apparentabile a certe tele dello statunitense David Onica (artista icona degli anni Ottanta), con i suoi paesaggi lunari al limite della "terra di nessuno", dall'altro richiama le atmosfere urbane della narrativa di Pier Vittorio Tondelli, e persino, a ben guardare, di quel Cesare Pavese alla continua ricerca del mito di Eros e Thánatos, nonché assertore di un'impossibile redenzione. La scenografia di Quai Ouest, con il suo fango ingegnosamente sparso sul palcoscenico, quell'angosciante mezza oscurità, quei cassoni ammaccati che sembrano improvvisati rifugi per animali, propone la distruzione fisica quale metafora della distruzione morale e spirituale dell'essere umano, logorato dalla troppa violenza vista, subita e perpetrata. E il fiume, di cui s'intravede l'argine; novello Acheronte che trascina con sé cadaveri e storie dolorose.
La trama di Quai Ouest, semplice e assurda insieme, vede la strana coppia Monique e Maurice persi in un quartiere della periferia devastata di una città abbandonata da Dio e dagli uomini. Lei, raffinata borghese dallo splendido passato, alla ricerca di sé stessa; Valentina Banci interpreta con fine maturità una Marlène sotto la pioggia che si è persa nel regno dei morti, ora nevrotica ora supplichevole, con sbalzi d'umore che ne rivelano la fragilità. Lui, in fuga dopo un crac finanziario, è deciso a morire suicida; Paolo Graziosi dà vita a un uomo ormai giunto al tramonto, la cui indolenza è ben resa dalla dizione impastata, dalla camminata contorta e la gestualità indolente, che però tradisce ancora isolati barlumi dell'antica fierezza e avidità. Cerca il suicidio gettandosi nel fiume, ma Abad, misterioso uomo di colore, lo salva, per adesso, dalla furia della corrente.
Monique e Maurice: sono loro il simbolo di un Occidente ormai colonizzato, che paga duramente la sua politica di rapina. Ed è appunto di questo scenario che Koltès immagina il sovvertimento, con la fine dei suoi abusi, e forse l'inizio di quelli altrui. C'è un fondo di dostoevskiano fatalismo, nell'idea sottesa che ogni ingiustizia debba trovare la sua vendetta, chiudere il cerchio, e aprirne uno nuovo, nella certezza che l'assunto homo homini lupus trovi sempre applicazione.
La strana coppia Maurice e Monique diviene ben presto la vittima designata di una scombinata famiglia d'immigrati sudamericani, che cercano di derubarli. La famiglia è composta dal padre, Rodolfe, reduce di guerra; la madre, Cécile, figura equivoca dalla dubbia moralità; e i due figli Charles e Claire, ladruncolo di strada il primo, ragazzina spaurita ma sensibile la seconda.
Si tratta di individui perduti, con Mauro Malinverno allucinato profeta di sventure future: è lui che consegna il mitragliatore ad Abad - scena sulla quale torneremo più avanti -, è lui il disilluso marito di Cécile, che Alvia Reale interpreta con tutta la disperazione necessaria a una madre fallita, alla continua ricerca di avventure che l'età adesso le preclude, e frustrata nei suoi avidi sogni di ricchezza.
Il figlio Charles - Francesco Borchi -, è cresciuto con la mentalità del ladro, anch'egli avido come la madre, un'avidità che si fa violenza, e che Borchi riesce a portare sul palco attraverso un'interpretazione al limite dell'allucinato. Elisa Langone è la sorella Claire, cui infonde struggente poesia, caratterizzandola di una dolcezza d'animo che la miseria della sua esistenza non le permette di esprimere appieno; è lei la sola che ancora sia capace di provare un sentimento di amore e pietà, come si evince dal gesto di coprire il cadavere della madre, appena morta imprecando contro la sorte. È lei, infine, l'unica a concepire il sesso come un atto che implichi l'amore, a differenza del tronfio Fak, ladruncolo sbandato cui presta il volto Fabio Mascagni, infondendovi sogni irrealizzabili e un più concreto, animalesco, desiderio sessuale. Una famiglia ormai sfrangiata, dove è troppo tardi per ricostruire un minimo di normali rapporti affettivi.
Sorta di coscienza, giudice e carnefice di tutti questi strani personaggi, è il misterioso Abad, dalla pelle scura, e capitato chissà come in quella periferia dimenticata e che parla pochissimo, interpretato da un convincente Francesco Cortopassi, che fa del linguaggio del corpo la chiave d'espressione del suo personaggio. I suoi silenzi sono riempiti d'uno sguardo penetrante, come accade nella scena chiave dove riceve il mitragliatore dalle mani di Rodolfe, affinché lo usi per uccidere la posto suo. Una scena simbolo del colonialismo e degli interessi occidentali. Ma qualcosa va storto, Abad compie con l'arma in mano una sorta di danza sacra, è il segnale dell'imminente riscossa, poco dopo compirà la sua vendetta.
Il primo a morire è Maurice, che chiede di essere ucciso sotto una suggestiva, scrosciante pioggia della quale giunge l'odore fino alla platea. Andando incontro al proprio destino, Maurice è in parte redento. Non così per Charles e Fak, redenti loro malgrado, ovvero uccisi a sangue freddo da Abad, che nella sua vendetta trascina anche Claire, sicuramente la meno colpevole, se non l'unica innocente. Ma si sa, nelle vendette non si guarda troppo per il sottile. Il sipario si chiude su uno struggente inno religioso in sottofondo, che riconosce in Abad "colui che toglie i peccato del mondo"; beffarda stilizzazione della vendetta.
Magelli mette in scena un struggente, suggestiva bruttezza - umana e paesaggistica -, che con maturità e tenerezza quasi pirandelliana, ci parla della coscienza dell'Occidente, e dei crimini di cui è responsabile. La regia è attenta al dettaglio, eppure mai pesante, e si avvale di un linguaggio fortemente contemporaneo, volgare quanto basta senza essere di maniera. Sul palcoscenico si avverte la rabbia che alza il velo su rimpianti, solitudini, frustrazioni, disavventure e malattie, una rabbia che i monologhi, ora apocalittici, ora pervasi di folle ebbrezza, tendono ad accentuare.
Si tratta di un'opera drammaturgica particolarmente complessa, che si fa specchio di un momento storico - la metà degli anni Ottanta -, in cui il dramma del continente africano esplose in tutta la sua gravità; AIDS a livelli incontrollati, guerre civili, compravendita di schiavi, prostitute e bambini-soldato, il tutto con la palese complicità occidentale, che aveva nell'Africa un fiorente mercato di armi.
Una logica neo-colonialista che la linea politica dell'edonismo reaganiano faceva apparire come "necessaria", giustificata dall'indifferenza che gran parte dell'Occidente dimostrava nei confronti dell'Africa. Negli Stati Uniti in particolare, la violenza non scandalizzava più nessuno, sintomo, questo, di un imbarbarimento morale della nostra ricca società. Come sintetizza Bret Easton Ellis nel suo romanzo d'esordio Less than zero - pubblicato nel 1985, lo stesso anno di Quai Ouest -, "se si vuole qualcosa, è giusto prendersela". Parole che, in retrospettiva, spiegano anche tutta la politica americana in Afghanistan e in America Meridionale negli anni Ottanta.
L'Occidente ha voluto prendersi tutto ciò che pensava gli occorresse, lo ha preso con qualunque mezzo, lasciandosi alle spalle morte e distruzione. Ma un giorno, in un modo o nell'altro quel conto dovrà essere saldato. A questo allude il drammatico finale di Quai Ouest. Si tratta della paradossale vendetta di un continente e dei suoi popoli, contro cinque secoli di razzismo, colonialismo, sfruttamento di anime e risorse naturali, devastazione, guerre civili innescate ad arte, interessi incrociati. Un testo che leva una voce contro il razzismo, e rivolge un appello alla pace; un invito a indagare in profondità le nostre coscienze occidentali, strettamente attuale ancora oggi - a quasi trent'anni dalla stesura di questo testo -, con l'Europa che vede le sue istituzioni in difficoltà, in concomitanza con l'aumento dell'emigrazione e dell'espandersi, anche in Africa, dell'integralismo islamico. I rapporti di forza potrebbero subire cambiamenti importanti, ed è indispensabile non farsi cogliere impreparati, cambiando radicalmente la politica di approccio verso questa nuova realtà.
Niccolò Lucarelli