di Friedrich Dürrenmatt
traduzione: Aloisio Rendi
regia: Roberto Guicciardini, scene e costumi: Lorenzo Ghiglia
con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Martino Duane, Luciano D'Amico, Pietro Faiella, Norma Martelli, Liliana Massari, Francesco Sala, Francesco Cutrupi, Davide D'Antonio, Francesco Frangipane, Roberto Pappalardo, Lorenzo Praticò, Alfredo Troiano
Reggio Emilia, fino al 12 marzo 2008
Roma, Teatro Italia, fino al 23 novembre 2008
Teatro Ambasciatori, Catania dal 10 al 15 febbraio 2009
Imperturbabile di fronte ai barbari che avanzano e minacciano di distruggere l' Impero, «Romolo il grande», l' ultimo imperatore romano d' Occidente, protagonista della commedia del 1948 di Friedrich Dürrenmatt, si erge a giudice e anche a liquidatore di un impero marcio che si è retto sul sangue e sulla sopraffazione, e non fa nulla per contrastare l' avanzata di Odoacre. Se ne sta lì ad allevare galline cui dà nomi di imperatori e generali e aspetta il disfacimento, togliendo foglie dalla sua corona d' oro per pagare i domestici e svendendo antichità a rigattieri. Dice alla moglie d' averla sposata per interesse e alla figlia quanto sia meglio essere fedeli a un amore che alla patria che ha tradito la verità per la tirannia, e al fidanzato di lei, eroe di guerra, quanto in realtà sia schiavo e vittima del potere. Bellissima, feroce commedia dell' autore svizzero che riflette sui meccanismi del potere e della corruzione con un uso magistrale del grottesco e del paradossale. Roberto Guicciardini la porta in scena calandola, soprattutto nel primo atto, in un grottesco facile che troverà più corpo negli atti successivi grazie anche all' ottima interpretazione di Mariano Rigillo, spiritoso, rilassato, umano Romolo come lo voleva l' autore, sobrio e mai ovvio. Brava anche Anna Teresa Rossini, la vacua imperatrice. Carcano, fino al 15 marzo
Magda Poli
CATANIA (gi.gi.).- “Quoque tu cuoco…” dirà Romolo Augustolo a chi, preparandogli prelibati manicaretti, s’è unito a quei congiurati che vorrebbero accoltellarlo, come Cesare alle Idi di Marzo, perché invece di governare Roma, che sta andando letteralmente alla malora intorno al 476 d.C. è tutto dedito ad allevare polli e chiamare le uova che sorbisce al mattino col nome degli imperatori che l’hanno preceduto. E’ una delle tante battute fulminee della pièce Romolo il grande scritta da Dürrenmatt nel 1949 e più volte rielaborata sino all’edizione definitiva del 1964. Un testo paradossale, grottesco, ricco di battute intelligenti, con riferimenti ai giorni nostri, che niente ha d’invidiare a Il re muore di Ionesco. Un testo pacifista, pure, perché alla fine Romolo, impersonato da un grande Mariano Rigillo davvero ispirato, farà a gara con l’invasore germanico Odoacre a chi fra i due toccherà governare l’impero di Roma. Un imperatore quello di Rigillo che al pari d’un Ponzio Pilato si laverà le mani mettendosi da parte, accogliendo tuttavia alla sua corte commercianti, antiquari e fabbricanti di calzoni che nel proporre operazioni commerciali spingeranno l’impero alla bancarotta al punto che quella maschera da fool non avrà altra visione davanti se non il declino del mondo, la morte degli ideali e i crimini che accompagneranno questa totale debacle. Uno spettacolo divertente, diretto con mano abile da Roberto Guicciardini e recitato benissimo da un cast di tutto rispetto che vede Anna Teresa Rossini negli abiti dell’imperatrice, Liliana Massari in quelli della figlia Rea e poi Martino Duane (Odoacre), Norma Martelli e Francesco Cutrupi (rispettivamente ministro degli interni e della guerra), Francesco Sala, fabbricante di calzoni, Luciano D’amico e Alfredo Troiano, i due camerieri servizievoli stipendiati dal loro miserello imperatore al suon di foglioline d’oro che strappa dalla corona. Le scene di Lorenzo Ghiglia (suoi pure i costumi) somigliano a degli interni museali con tanto di busti marmorei e oggetti affini. Applausi calorosi e successo all’Ambasciatori per la Compagnia di Rigillo che replicherà lo spettacolo al Carcano di Milano e poi in varie città d’Italia.
Gigi Giacobbe
Dürrenmatt ha scherzato con la storia, ma ha fatto tremendamente sul serio. Si è inventato un Romolo Augustolo tutto suo e ha descritto il tramonto della romanità viscido come neanche Rutilio giunse a raccontarlo. Roberto Guicciardini che fino a domenica presenta “Romolo il Grande” al teatro Ambasciatori ospite del nostro Stabile, vi ha disposto una scenografia (firmata anche per i costumi da Lorenzo Chiglia) che accentua la desolazione di quel declino e crollo che ha segnato la storia occidentale: e però davanti all’ultima coppa di Falerno c’è ancora la perfetta eleganza degli abiti femminili che mettono assieme la leggerezza ellenica (sostenuta da Liliana Massari) e il nobile portamento della imperatrice (interpretata con tratti seducenti da Anna Teresa Rossini). Per il resto è tutto finito: le gloriose aquile romane sono messe in fuga dalle bande di Goti, i ministri di stato scappano e lo stesso sovrano paga gli ultimi debiti regalando le ultime foglie della sua corona aurea.
Forse le cose non andarono così. Ma è chiaro che l’autore (gradevolmente reso nella nostra lingua da Aloisio Rendi) e il suo intelligente regista, mirano ad altro. Non raffigurano la ipotetica realtà del 476 d.C., ma la crisi di valori dei tempi moderni: Quali? Certe figure di politici stralunati e di cortigiani babbei sembrano copiate su originali che abitano gli odierni palazzi dell’Urbe. Certe dichiarazioni sul “tanto peggio, tanto meglio” sembrano ritagliate dai comizi che tutti abbiamo sentito. Ma l’Autore scrisse il suo “dramma storico senza storia” nel primissimo dopoguerra e l’aderenza alle situazioni attuali può solo significare che le onorevoli crisi sono senza tempo. Dunque le riflessioni umane del protagonista, un Mariano Sigillo profondo eppur leggero, pigramente blasé eppur risoluto picconatore dei patriottismi convenzionali, sono la morale eterna. L’attore, con umanità versatile è allo stesso tempo Socrate e Petronio, il traghettatore dall’età antica al Medio Evo e l’interprete acuminato di un presente del quale rende evidente i lineamenti, non i nomi. Così lo spettacolo è una continua sorpresa di prospettive, una girandola di follie tra lentezze burocratiche bizantine (compare in scena pure l’imperatore di Bisanzio, reso con molto spirito da Antonio Fornari), risibili complotti di corridoio e una irrimediabile povertà di cose e di spirito. Anche chi non ha ancora visto questa commedia avrà capito che i nemici di oggi hanno altri nomi, ma i problemi sono gli stessi e che Dürrenmatt ha descritto con il sorriso quello che Brecht raccontava con angoscia. La compagnia di Rigillo è di prim’ordine e affiatata. Perciò gli applausi sono stati ugualmente compartiti tra i tutti.
Spettacolo intelligente, musica piacevolmente orecchiabile di Lino Patruno.
SERGIO SCIACCA
Roberto Guicciardini (prolifico di regie: è in scena al Quirino di Roma, ancora oggi e domani, un Otello shakespeariano da lui firmato per la mattatoriale interpretazione di Sebastiano Lo Monaco), ha diretto anche un testo di Friedrich Dürrenmatt che ha tutte le caratteristiche del piccolo capolavoro. Romolo il Grande al Teatro Italia fino al 23 novembre, protagonista Mariano Rigillo può essere definito una commedia storica, eppure dalla Storia (ma acutamente) si discosta non poco. Romolo Augùstolo, l'imperatore di cui si parla, non è qui il fanciullo quattordicenne dei libri di scuola, bensì un uomo di mezza età chiamato a chiudere i conti con la grandezza di Roma, con la vastità ormai icontrollabile dell'impero, con la decadenza morale, civile, persino estetica di cortigiani corrotti che bràncolano nella menzogna, nell'ipocrisia, nel più vieto bizantinismo degli inganni. Per contro, i barbari arrembanti si contrappongono a tanta mollezza con la loro vigorìa intatta, pronta a deflagrarare in conquista. L'ultimo Cesare reagisce con l'unica arma ancora a sua disposizione: l'ironia, spinta fino al sarcasmo e rivolta verso la situazione e verso sé stesso. Per non soccombere del tutto e in certo modo irridere il destino, sceglie di diventare allevatore di polli: uno sberleffo imperiale che consegna ai nuovi padroni solo le travisate spoglie del passato splendore.
Rigillo e compagnia (Virgilio Zernitz, Norma Martelli, Luciano D'Amico, Antonio Fornari, Liliana Massari, Francesco Sala, Francesco Cutrupi, Davide D'Antonio, Francesco Frangipane, Roberto Pappalardo, Lorenzo Praticò, Alfredo Troiano) mantengono la verve e il senso di interna necessità espressi la scorsa stagione, per poche sere, al Teatro Argentina. Guicciardini non fa che ottimizzare le loro possibilità interpretative; il gran mestiere e l'esperienza, assieme a una bella ambientazione (firmata Lorenzo Ghiglia) compiono l'opera. Da vedere.
Rita Sala
Abbiamo dovuto aspettare sessant'anni prima che in Italia, dopo una solitaria apparizione, qualcuno si accorgesse di Romolo il grande. Dove un genio del teatro di parola come Friedrich Durrenmatt, un gentiluomo elvetico che adoperando il coltello della satira raffigurava l'amarezza della condizione umana, esuma l'ultimo imperatore di una Roma ridotta all'afasia. Ovvero Romolo Augustolo qui magnificato nelle vesti di un signorotto di campagna che ha battezzato col nome dei Cesari quelle galline tronfie e ben pasciute che fanno il vanto del suo allevamento. E c'è voluta una compagnia privata che a proprio rischio e pericolo impiegasse una dozzina di interpreti - metà dei quali farebbe il vanto del Teatro di Roma - per far conoscere al pubblico un capolavoro confinato nelle pagine di una vecchia edizione Einaudi.
Per fortuna Mariano Rigillo, da quel fine intellettuale che è, colma questa lacuna in uno spettacolo che trabocca di intelligenza condita di sottile provocazione. A cominciare dalla scena di Lorenzo Ghiglia che si cela, si svela e si rigenera come un castello di carte truccate sull'onda rapinosa delle musiche di Patruno. Per alludere al fatto che, sotto la vernice della fiction, si nasconde un risvolto da thriller quando Romolo, gettata la maschera dell'ingenuo pollicoltore, dichiara di aver perseguito il tracollo dell'Impero all'ex-rivale Odoacre in un brindisi degno di Voltaire. In guizzi sulfurei memori dello scattante cabaret primo Novecento in auge nella «dolce Vienna», Durrenmatt precipita la storia nel pentolone stregato di Faust piegandola al gioco allettante dell'artificio. Che la regia di Guicciardini sposa ed esalta sulla strada perseguita due anni fa da Rigillo & Co nel bellissimo Titus Andronicus.
Qui elevato di tono nel calibratissimo rovesciamento dei generi con quella Notte dei Lunghi Coltelli mutuata da Labiche coi dignitari che spuntano sotto il letto dando esca all'irriverenza della ministra cialtrona di Norma Martelli. Prima che Anna Teresa Rossini, nelle vesti della Dark Lady di turno, ci delizi coi suoi perfetti tempi comici, Martino Duane sfoderi taglienti e pungenti aforismi e Rigillo, con fantastiche variazioni sul filo e incantevoli note da basso comico, si confermi il più dotato tra i tenori della nostra prosa.
Enrico Groppali