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ROSSO - regia Francesco Frongia

Rosso Rosso Regia Francesco Frongia

di John Logan
traduzione di Matteo Colombo
regia di Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña
luci di Nando Frigerio
produzione Teatro dell'Elfo
Teatro dell'Elfo, Milano ottobre 2012
Genova, Teatro Duse 28 novembre 2013
In scena al Teatro Duse fino a 1 dicembre 2013

www.Sipario.it, 29 novembre 2013
www.Sipario.it, 14 maggio 2013

Il Teatro dell'Elfo di Milano raccoglie la sfida di portare in scena Rosso, un testo che, nato dalla penna di John Logan, sceneggiatore di grandi successi hollywoodiani, nel 2010 ha vinto sei Tony Awards. La reputazione del testo non tradisce le aspettative: l'intreccio e i dialoghi sono ben costruiti, i personaggi affascinanti, la storia densa di nodi drammatici: la complessità del rapporto padre-figlio (qui nell'accezione maestro-allievo), il narcisismo che fa a pugni con la scelta dell'ascetismo, il difficile compromesso tra la libertà dell'artista e il suo valore di mercato, il desiderio di diventare immortale attraverso la propria opera, la ricerca spasmodica e utopica di creare qualcosa di nuovo.

L'artista in questione è Mark Rothko, pittore statunitense di origini lettoni, "uccisore" del cubismo insieme agli altri "Irascibles" (così li definisce la rivista Life nel 1951) Pollock, Newman, de Kooning, Ad Reinhardt e altri. Corre l'anno 1958 e Rothko riceve la più grande commissione della storia dai tempi della Cappella Sistina: una serie di murali per il Seagram Building di New York, che avrebbero "decorato" le pareti della sala da pranzo del lussuoso ristorante Four Seasons.

A fare da contraltare alla figura ingombrante, burbera e provocatoria di Rothko c'è un giovane pittore "a bottega" da lui, che per due anni, con pazienza e dedizione, si occupa di stendere le basi di colore e preparare le tele del maestro. Il rapporto tra i due personaggi nella prima fase è a senso unico: Rothko non cerca dialogo ma solo uno sfogo alle sue crisi di uomo e di pittore; si lascia trasportare in lunghe tirate che assumono la forma di vere e proprie lezioni di arte e di vita.

La drammaturgia si addentra nella filosofia e nella storia del pensiero umano senza perdere ritmo e efficacia nella comprensione. Un bell'esempio di scrittura di grande respiro che arriva al pubblico con semplicità. Logan sembra fare suo il punto 4 del manifesto poetico pubblicato da Rothko e compagni sul New York Times nel 1940: "Siamo a favore di una semplice espressione del pensiero complesso". Al risultato drammaturgico contribuisce il grande lavoro di traduzione di Matteo Colombo, alla sua prima volta con la scrittura per il teatro, ma grande esperto in ambito angloamericano.

La scena si presenta chiusa sui tre lati da pareti fatte di aste di legno e tela; una struttura che ricorda le quinte teatrali ma anche l'ossatura della tela del pittore. I grandi dipinti e gli oggetti in stile anni Cinquanta evocano l'atelier di Rothko sulla 69esima strada. La bellezza della scena pare guidare la scelta registica di Francesco Frongia a favore del "dentro", dimenticandosi della platea. Il fuoco si concentra spesso sulle tele che si trovano appoggiate sul fondo del palcoscenico, costringendo gli attori a dare le spalle al pubblico per un tempo abbastanza lungo da rischiare di perderlo.

La prova dei due interpreti è generosa ma, nonostante la potenza vocale di Bruni e la buona presenza scenica del giovane Ocaña, si ha l'impressione che la storia chiedesse qualcosa di più. Lo scambio tra i due pare raccontato, mostrato piuttosto che vissuto, lasciandosi scappare le grandi occasioni di ironia e drammaticità di cui il testo è innervato.
Ed ecco che si giunge al finale. Dopo anni di sopportazione il ragazzo alza la testa e con rabbia punto il dito contro le ipocrisie e le paure del maestro, contro quel nero che minaccia di inghiottire il rosso dei suoi quadri. Il confronto tra i due, finalmente alla pari, è così dirompente da costringere Rothko a guardarsi dentro e a prendere la difficile decisione di rinunciare alla commissione. La scena madre chiude la pièce, ma l'emozione ancora stenta a decollare.

Marianna Norese

Una tragedia in ogni pennellata, servita nel piatto à la crème de la crème per mostrarci come un accento sulla parola sbagliata segni il bianco della morte dell'utopia che diviene in questo spettacolo con Ferdinando Bruni diretto da Francesco Frongia il freddo sudario della nostra epoca
E' solo un ristorante. No, io lo trasformerò in un tempio. Quando la cucina si mischia all'arte e favorisce la digestione e l'evacuazione nella famosa lattina di Andy Warhol. Quando l'arte diviene un passatempo, consumato e celebrato nei ristoranti à la page e confezionato in esclusiva per il pubblico di massa al di là del vetro. Mangiare, bere ed evacuare i tre cardini su cui si fonda l'esistenza dell'uomo, il ritmo della nostra esistenza. Al di là dei quali tutto il resto sembra essere divenuto Il nulla. Quella banda larga ricca di sfumature come un vecchio televisore degli anni Sessanta quando andava fuori frequenza e lo schermo si riduceva ad un millerighe che rivelava tutte le sfumature del grigio.
Per la prima volta in Italia questo testo ci rivela la grandezza della scrittura drammatica di Logan che infatti registra nei suoi annali ben sei Tony Award. D'altronde Logan, per chi non lo conoscesse, al successo ci è abituato, anche se a livello cinematografico: è sua infatti la sceneggiatura di The Aviator e di Hugo Cabret così come di Sweeney Todd di Tim Burton e ciò rende ancor più importante la sua menzione nell'universo teatrale che lo consacra autore tout-court, la cui scrittura scenica non può, per certi versi legati al colore, non inserirsi in quel registro visuale che richiama alla mente per temi e colori la Factory di Warhol nella curata ed efficace regia di Francesco Frongia. Al centro di Rosso la vita di Mark Rothko, noto pittore al quale viene commissionata la pittura di una serie di murales per il noto ristorante Four Seasons di NY, interpretato superbamente da Ferdinando Bruni assistito dal suo giovane apprendista interpretato con maestria, naturalezza e immediatezza di toni e sfumature da Alejandro Bruni Ocana. Rosso come la passione, bianco come la neve che diviene metafora di morte negli incubi di un giovane tormentato dal bianco candore sporco del sangue che avvolge la morte dei suoi genitori e che diviene all'improvviso un pezzo di carta imbrattato di inchiostro sul quale un giorno lontano segnare la parola fine.

Cinzia Viscomi

Ultima modifica il Mercoledì, 18 Dicembre 2013 00:28

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