giovedì, 28 marzo, 2024
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MOBY DICK ALLA PROVA – di Elio De Capitani


Angelo Di Genio e Elio di Capitani in "Moby Dick alla prova", regia Elio De Capitani. Foto Marcella Foccardi Angelo Di Genio e Elio di Capitani in "Moby Dick alla prova", regia Elio De Capitani. Foto Marcella Foccardi

di Orson Welles

Adattato - prevalentemente in versi sciolti - dal romanzo di Herman Melville

traduzione Cristina Viti

uno spettacolo di Elio De Capitani

costumi Ferdinando Bruni

maschere Marco Bonadei

musiche dal vivo Mario Arcari e Francesca Breschi

luci Michele Ceglia, suono Gianfranco Turco

con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù,
Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa

assistente regia Alessandro Frigerio

assistente scene Roberta Monopoli

assistente costumi Elena Rossi

una coproduzione Teatro dell'Elfo e Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale
Visto al Teatro Elfo Puccini, Milano, 16 gennaio 2022

www.Sipario.it, 22 gennaio 2022

La battuta che si potrebbe usare come chiave per entrare nella complessa macchina scenica e segnica del “Moby Dick alla prova” del Teatro dell’Elfo è detta nel prologo, un prologo metateatrale, e sembra accogliere in sé qualche eco dei discorsi sul teatro degli ultimi cinquant’anni almeno. La battuta si muove intorno alla domanda: “che cosa è poesia a teatro?”. Il teatro “poetico”? Cioè un teatro sentimentale? No, il teatro “è” poesia, o “fa” poesia – andiamo a memoria – risponde il regista alla questione posta da uno degli attori. Verrebbe da aggiungere, entrando ancora di più nella questione, a margine dello spettacolo: se invece per “poesia a teatro” intendiamo teatro-che-mette-in-scena-la poesia, questo caso sembra sempre più potersi ridurre, oggi, alla pratica divampante, ma alla lunga teatralmente devitalizzante, del reading. “Poesia del teatro”, piuttosto, sembra in grado di definire uno specifico modo di porsi rispetto a varie questioni. In primis rispetto alla questione del “naturalismo”, cioè della coincidenza tra “reale” e “rappresentato”. E’ un modo che lascia poco spazio alla massima estensione di questa coincidenza e ne concede molto invece all’attività di integrazione fantastica dello spettatore. Analogamente a quanto accade nella poesia scritta, dove è la mente del lettore a riempire i vuoti, gli stacchi da immagine a immagine, che crea ponti tra oggetti lontanissimi, così creando un nuovo paesaggio, che si rimodula con una sua propria coerenza, pur nell’apparente incoerenza degli elementi di base.

Così, per tornare allo spettacolo, gli elementi scenici montati sul palco (le tre scale con piattaforme di altezze diverse, i sei tavoli d’acciaio con ruote, il grande fondale bianco sospeso) non sono incongruenti con la realtà “baleniera”, “scialuppa”, “oceano”, “balena”, anche se lo sono con gli oggetti “baleniera” “scialuppa” ecc., per cui stanno. In altre parole, essi catturano una specie di essenza della realtà di quegli “oggetti” e la traspongono su di sé, restituendola allo spettatore in una forma peculiare. E la trasposizione non avviene da sé, ma per mezzo del lavoro alchemico degli attori. E’ un procedimento abbastanza tipico di un certo teatro di ricerca, o vogliamo dire, per tornare al punto, di poesia? Quando il dispositivo della trasposizione scatta e comincia ad agire nel cuore dell’oggetto in rapporto al fare alchemico dell’attore, ecco che si creano le immagini delle immagini ed entriamo nel mondo fluido delle corrispondenze. Questa è poesia, questo è teatro di poesia.

Del resto appare abbastanza chiaro quale sia l’unica possibilità del teatro in questo momento di trionfante vittoria degli schermi: lacerare la dittatura della perfetta riproduzione visiva, entrare nell’immagine attraverso ciò che le manca piuttosto che attraverso ciò che la sovra-definisce. In questa sottrazione dei dettagli di mera imitazione, in questo spostamento sul lato dell’analogia si può impostare – ancora una volta – la strategia vincente del teatro.

Il prologo metateatrale procede poi con uno scarto repentino del dialogo – dialogo-baleniera che si dirige di colpo sul capodoglio-pubblico – in un fraseggio che proviamo a riportare così, andando a memoria. Domanda il regista: “e di che cosa ha bisogno l'attore?”. “Di niente”. “Come di niente? del pubblico”. “E se il pubblico non viene più a teatro?”. “Vuol dire che c'è la peste e che bisognerà risolvere l'enigma della Sfinge per farlo tornare. (Al pubblico) bentornati, ecc.”. Segue poi il più classico dei prologhi, diretto alla platea, con quella tipica richiesta di sospensione dell’incredulità che tanto troviamo nel teatro di Shakespeare.
Insomma, da Lear a Edipo al Covid in un rapido giro di battute. E così è portato a termine anche un altro movimento, quello che ha visto il veliero Re Lear accostarsi al veliero Moby Dick; un rapido scavalco di paratie, un arrembaggio dal primo al secondo. A guidarlo, un De Capitani che sulla scorta del testo di Orson Welles (in blank verse, ancora poesia) che accosta programmaticamente i due capolavori ed è l’anima dell’operazione teatrale dell’ensemble, passa da un accenno al ruolo del vecchio re alla personificazione decisa del capitano, in un passaggio per cui l’uno e l’altro per un momento paiono confondersi o almeno concedere all’altro il riconoscimento di una somiglianza non peregrina.

In questa transizione viene sorpresa la giovane attrice (Giulia Viana) pronta a interpretare Cordelia, i cui dubbi sul cambiamento tanto improvviso, per un momento, diventano i dubbi della figlia di Lear alla richiesta di amore incondizionato da parte del padre: “E tu cos’hai da dire?”. “Niente”. “Niente?!”. Furioso attacca il De Capitani-Lear, fendendo una banchisa di tavoli d'acciaio, scostandoli d’impeto.

L’accostamento tra Lear e Achab si ritrova puntualmente in altri momenti della lunga performance (due ore e venti con pausa): per esempio nel dialogo velato dietro a un teletto trasparente nel quale Achab si abbandona ad accenti di tenera simpatia per Pip, l’adolescente di colore mezzo impazzito dopo un quasi annegamento, richiamando la tenerezza lancinante del vecchio Lear per il fool. La seconda parte si apre con una sorta di “canto delle balene”, reso con quello che sembra un piccolo flauto dal maestro Mario Arcari, in proscenio insieme al cambusiere (Cristina Crippa). La storica attrice del gruppo descrive il “giardino” delle balene, mentre ne vediamo un branco come danzare in una ripresa subacquea proiettata su un teletto calato a metà palco. Qui, come nel cuore del romanzo di Melville, si apre un’oasi di pura beatitudine contemplativa: quei giochi dei cuccioli con le mamme, quelle acque che si fanno raso, calmate e addolcite dagli umori che le balene in gioia rilasciano. Da questo momento in poi l’essenziale macchina scenica dà fondo a tutte le sue possibilità fino a uno strepitoso finale, con un Moby Dick reso dal morbido e turgido elevarsi e distendersi del grande e vibratile telo appeso in graticcia e che, gonfiato d'aria, manifesta le forme mostruose e insieme suggestivamente vaghe della testa immensa del capodoglio. Il quale, sul finale, ingloba il corpaccione esausto di Achab in segno di avvenuta profezia biblica; e il riferimento è all'episodio di Giona, raccontato dallo stesso Achab in avvio di spettacolo: ma se l’eroe biblico è risputato per amore di Dio, il vecchio capitano viene maciullato senza redenzione: in fondo l’odio per la balena è il riflesso dell’odio di Achab verso se stesso, verso i compagni, verso la natura, verso la vita stessa verrebbe da dire. Un odio incommensurabile. Ismael si salva aggrappandosi ad una bara vuota, il correlativo oggettivo di ciò che è rimasto di quell’odio, e del meritato destino del suo attivatore.

I giovani attori, tutti al massimo dell’efficacia, sono continuamente spronati dall’energia tonitruante di De Capitani. Tutti uomini, tranne le già citate Giulia Viana, che fa anche Pip, e Cristina Crippa. Attori guidati anche in parti cantate, di gruppo, dalla direzione musicale di Francesca Breschi e Mario Arcari. Quest’ultimo, dal vivo, interagendo spesso con gli attori, in chiave di bardo di bordo, intesse una colonna sonora sensitiva, a tratti arcana, tra elettronica, fiati e percussioni, e prova più volte anche a farci sentire il canto delle balene. Momenti di puro incanto che gelano i marinai, e gli spettatori, in uno stupore numinoso.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 23 Gennaio 2022 17:37

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