A conclusione delle recite de Le donne gelose, commedia in tre atti scritta da Carlo Goldoni nel 1752, abbiamo intervistato il regista, Giorgio Sangati, che ci ha raccontato le scelte del suo allestimento. Segnata da una bieca umanità, l'opera teatrale descrive gli istinti di una società dominata dalla piccineria "dove la risata ha il colore nero della farsa" (G. Sangati). Un testo poco frequentato ma interessante non solo per la comprensione dell'autore veneziano, che qui si cimenta in un veneziano più aspro, ma anche per la riflessione a cui la resa teatrale conduce: il calpestìo dei valori nelle relazioni, la livida brama del denaro e la capacità di rendere comico ciò che è amaro.
Si sono appena concluse le recite de Le donne gelose, firmato da Giorgio Sangati e prodotto del Piccolo Teatro di Milano. All'incirca quante repliche ha contato?
Intorno alle 75 repliche.
In Italia?
Due repliche a S. Pietroburgo e due a Lugano.
Il testo è rappresentativo di una crisi che si diffonde come una pestilenza, paralizzando la società. Perché metterlo in scena?
Direi che, pur essendo tra i testi meno rappresentati di Goldoni, anzi considerato decisamente minore, in realtà oggi quello che risuona in modo particolarmente forte è l'idea di una società marcia da un punto di vista, prima che economico, morale. Tutti i personaggi vivono solo in funzione del loro egoismo, del loro tornaconto. Non esiste alcuna concezione di società, di solidarietà. Le istituzioni sono scomparse. Questa consonanza con alcuni aspetti della vita sociale, che stiamo sperimentando in questi anni, credo sia particolarmente interessante e inquietante. In questo, secondo me, sta la forza di portare in scena un Goldoni che racconta una Venezia morente, agonizzante.
Si parla di relazioni corrose da un'umanità meschina che ripone fiducia solo nell'azzardo.
Quando parlo di rapporti meschini parlo di mariti e mogli che vivono situazioni di violenza domestica, invidie deliranti rispetto a quello che fa il vicino, la capacità di gioire solo in funzione della disgrazia di qualcun altro. Questo intendo come rapporti meschini, ridotti ai minimi termini. La commedia è ambientata durante il Carnevale, che per Venezia era un momento fondamentale di gioia, di incontro. Questo Carnevale è invece deserto, triste, quasi un requiem. Anche le maschere, che sono l'opportunità del rovesciamento della festa, hanno lasciato il posto alla maschera della baùtta, che è strumento per ben altro tipo di divertimento. La baùtta serve per spiare senza essere visti. Anche questo aspetto mi sembra vicino a come il divertimento e il piacere si sono sviluppati e assestati in questi anni.
La recitazione raggiunge, in alcuni momenti, livelli parossistici. Gli attori sono stati coinvolti nella costruzione del personaggio o l'impronta direttiva è stata assoluta?
Io come modus operandi parto sempre da un dialogo con l'attore. Posto che per me l'interpretazione rimane il centro del concetto registico, perché non sarei in grado di montare una scena a prescindere dall'interprete, ho cercato di stabilire un dialogo con tutti gli interpreti in modo da poterli far lavorare insieme, come un'orchestra. Poi naturalmente mi assumo la responsabilità di prediligere una direzione piuttosto che un'altra, ma il punto di partenza è sempre lo scambio che avviene durante le prove con l'attore.
A dare il benvenuto allo spettatore una cascata di pioggia e dei sovratitoli, mantenuti per l'intero corso dello spettacolo. "Il tempo farà conoscere la verità", asserisce Goldoni nel Prologo, fedelmente riportato. Il pubblico è disorientato rispetto ad una messa in scena in veneziano o è abituato a questo tipo di tradizione, portata avanti capillarmente da Giorgio Strehler?
Erano parecchi anni, parlo per il Piccolo Teatro di Milano, che non si portava in scena una commedia di Goldoni così tanto veneziana. Ovviamente Strehler ha firmato dei capolavori indiscutibili e in quegli anni il pubblico si era riavvicinato al veneziano come lingua teatrale. Secondo me si era un po' persa la familiarità con questo tipo di sperimentazione e di recupero di patrimonio linguistico ed è questo il motivo per cui ho scelto di mettere i sovratitoli in italiano. Non perché fossero necessari alla comprensione ma più che altro perché il veneziano de Le donne gelose è particolarmente stretto. È il veneziano di un quartiere, è quasi gergale, quindi tantissimi termini sono difficili da comprendere anche per un veneto, anche per me, che conosco abbastanza bene quella lingua. Per cui volevo che lo spettatore avesse l'opportunità in ogni momento di avere a portata di mano degli strumenti per capire cosa stesse vedendo. Volevo evitare che anche uno spettatore digiuno riguardo a questo tipo di linguaggio si sentisse escluso dal teatro di Goldoni, che invece è indiscutibilmente universale e coinvolgente.
La scenografa è molto minimale e lugubre. Impera un'atmosfera tetra, costituita da ponteggi, contorni di porte, cubi come sedute. Gli stessi costumi, che apparentemente dovrebbero esercitare un contrasto cromatico con i loro colori pastello, sono trascolorati alla base. Tutto comunica desolazione. E Arlecchino ne è parte, con la sua mimica tutt'altro che sciolta, di molto irrigidita. Come si è approcciato alla sua costruzione?
L'approccio alla costruzione di Arlecchino è stato molto interessante, anche perché è una delle ultime commedie in cui compare. Arlecchino appartiene alla drammaturgia di Goldoni e, mentre prima lo vedevamo muoversi in situazioni sociali pubbliche che avevano ancora un valore, qui è come se si cercasse di recuperare uno spazio all'interno di questa nuova tipologia di teatro. Ne Le donne gelose Goldoni fa un passo verso il teatro borghese, verso gli interni. E l'unico modo che Arlecchino ha di farne parte è diventare una specie di maggiordomo. Addirittura viene portato da Lugrezia al Ridotto, che non è un luogo per lui, ovviamente. È una sorta di cartone animato in bianco e nero in un mondo che è andato più avanti. È una figura che sta sbiadendo e che riesce a divertire e commuovere proprio per il suo essere fuori posto. Trovo che Goldoni sia riuscito a far funzionare Arlecchino in modo incredibile, emozionante, anche nella sua commedia di addio. Arlecchino fa ridere quando indossa la maschera di tutti, la maschera dell'anonimato, come se l'unico modo per riuscire a parlare quel linguaggio sia adeguarsi, omologarsi a come stanno cambiando le cose.
Per le musiche ha proposto il celebre "tema della follia", scelta raffinata e allo stesso tempo rischiosa. Il rimando più immediato e popolare (per chi non pratica musica) lo vede legato ad un film significativo della storia del cinema: Barry Lyndon di S. Kubrick. Un nesso ragionato o una convergenza che non sussiste?
Quella melodia, probabilmente tra le più antiche della cultura musicale occidentale, mi sembrava molto misteriosa. Da un certo punto di vista ha un'aurea quasi religiosa, eppure si tratta di musica profana a tutti gli effetti. Questa coincidenza di una natura profana con un'atmosfera legata a corde emotive intime, spirituali mi interessava particolarmente. È una melodia che è stata riscritta da una notevole quantità di musicisti. Le versioni che utilizzo nello spettacolo sono quelle di Vivaldi, Salieri, Händel, Rachmaninov. Non c'è musicista che non abbia sentito l'esigenza di rimettere le mani su questa melodia. Allora mi piaceva molto l'idea di utilizzare un brano che io sapevo essere nell'immaginario del pubblico proprio in virtù di quel film, che avrebbe a sua volta rimandato a immagini legate al gioco d'azzardo, a una società al tramonto. Però mi piaceva anche l'idea di dilatare i rimandi attraverso sia strumenti di esecuzione che non sono mai canonici, perché uso le chitarre elettriche, gli 8 bit di un videogioco, il pianoforte - che non sono gli strumenti più barocchi che si possa immaginare - sia di riuscire a scegliere una melodia che appartenesse all'emotività di tutti. Fino a diventare un loop ossessivo. Questa melodia a me comunica una strana coincidenza di eternità, inquietudine e di malinconia e bellezza insieme. Non ho trovato di meglio...e ne ho ascoltate tante! Eppure questa mi sembrava giusta per creare un giusto filo conduttore.
Lei ha attuato un percorso specifico nel teatro, passando dalla recitazione alla regia. Li affronterà parallelamente o la regia è destinata a diventare la strada principale?
Posso già dire che sia l'unica strada, per scelta.
Non è stata una scelta sofferta?
No, devo dire che è stata una scelta abbastanza naturale. Io adoro gli attori. Il fatto di esserlo stato per una quindicina d'anni mi ha dato gli strumenti per centrare il mio lavoro nella messa in scena e ridare importanza a questo ruolo. Però ho talmente stima degli attori e del loro coraggio nell'esporsi, nel mettersi in gioco, che ho riconosciuto che mi fosse più adeguato come ruolo quello di guida, di occhio esterno. È stato abbastanza fisiologico. A me bastava farlo una volta, lo spettacolo, poi la seconda mi annoiavo oppure soffrivo, invece un attore gode sempre di poter andare in scena. Caratteristica che io non ho e che gli attori che stimo hanno e mi sembra fondamentale.