venerdì, 08 novembre, 2024
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INTERVISTA a MARCO FILIBERTI - di Mario Mattia Giorgetti

Marco Filiberti Marco Filiberti

Prima di parlare della sua opera cinematografica, dedicata al mito di Parsifal, accompagnata dal volume “Il mio Parsifal” che fa da guida alla lettura del film, lei, Marco Filiberti, merita di essere meglio conosciuto dai nostri lettori (anche se siamo certi che la maggior parte già la conosca) con questa domanda.

Quale è il motivo intimo per cui lei ha scelto di operare nell’arte dello spettacolo, della comunicazione artistica in generale?
Guardi, la verità è che io non ho scelto proprio niente, né tantomeno l’indirizzo della mia vita è dipeso da un qualche motivo intimo. Io sono nato così, con una tensione insopprimibile per ciò che è al di fuori di me e una profonda estraneità a tutto ciò che chiamano realtà. L’identificazione di questa condizione con il mezzo espressivo dell’arte è accaduta da sola, quando avevo circa sei anni, manifestandosi come una calamita che mi attraeva senza lasciarmi scampo. Per me, davvero, non c’erano alternative.
Quello invece su cui, nel tempo, ho dovuto operare delle scelte sono stati gli ambiti nei quali avrei agito. Infatti, a parte l’arte figurativa, ho studiato e praticato pressoché tutte le discipline artistiche e umanistiche: prima la musica (il pianoforte, il canto e poi, per qualche tempo, la direzione d’orchestra, il mio primo sogno da bambino); quindi il teatro e poi il cinema (come drammaturgo e sceneggiatore, attore e regista); e la letteratura, che è stato il fil rouge di tutta la mia vita, declinata nella narrativa, nella saggistica e, più recentemente, nella poesia.
La vera scelta, non tanto perché fosse un atto deliberato ma perché implicava il più drastico dei “no” a tutto il Sistema, è stata quella di accogliere senza se e ma l’intera mia visione con tutto ciò che comportava e di portarla avanti senza compromessi, ben consapevole che si trattava di qualcosa di completamente estraneo a ciò che è accreditato e sollecitato nella pratica dell’arte e dello spettacolo contemporaneo: dovevo risalire il fiume controcorrente, fino alla mia sorgente e – quando si è giovani – non è facile accettare l’idea che ti stai imbarcando per una traversata in solitaria, senza nessuna certezza di arrivare da qualche parte.

La sua attività si articola su diverse linee: teatro, cinema, editoria, progetti, perfomance. In quale di esse si identifica maggiormente la sua creatività e perché sente il bisogno di realizzarla a più livelli?
La mia visione ha incontrovertibilmente un carattere sinestetico, non per motivi accessori o di smania di “eccedenza”, ma perché la forma dell’Opera-Mondo alla quale mi dedico è sinestetica in senso intrinseco, anche quando non lo è in senso oggettivo. Mi spiego: la Recherche proustiana, ad esempio, di fatto è solo un romanzo, benché molto dilatato, eppure è un’opera sinestetica che include filosofia, spiritualità, musica, arte figurativa, persino il teatro, e non perché parli anche di questi argomenti, ma perché li invera, ne restituisce l’essenza, accede alla cosa in Sé.
Alle ragioni che motivano la forma sinestetica del mio lavoro ho dedicato ampie riflessioni in alcuni volumi pubblicati in questi anni. Inoltre, questi sono aspetti molto ben scandagliati nei qualificati interventi di diversi autori nel volume corale Il Flusso Graalico, in uscita proprio ora per Zecchini Editori e dedicato alla drammaturgia musicale del mio Parsifal cinematografico.
In quanto ai due ambiti nei quali mi muovo, il teatro e il cinema, non posso dire di identificarmi maggiormente con uno o l’altro, non essendo nessuno dei due, a priori, più o meno adatto alla mia poetica. Dipende tutto dal lavoro in questione. Quando si manifesta la nuova opera dentro di me (anche se sarebbe più corretto dire: fuori di me), è lei a trovare per conto suo la morfologia più pertinente per manifestarsi; allora, in quel momento, a seconda della forma della quale si è imbevuta questa nuova creazione, sento di amare quel mezzo, il cinema o il teatro, più dell’altro: ma questo amore privilegiato è vero soltanto fino al prossimo lavoro!
Quello che invece non perde mai la sua posizione di assoluta centralità in ogni mia espressione artistica è la scrittura, il logos fecondato dalla poesia, che viene sempre da prima, da prima di tutto.

Con il suo linguaggio, forbito, significante che introduce nelle sue opere non corre il rischio di diventare un autore di nicchia per pochi iniziati?
Dunque, proviamo a chiarire questo punto una volta per tutte. Oggi la stratificazione, la necessaria articolazione, la dilatata area semantica dell’opera d’arte (e vede bene che non uso la parola “cultura” perché oramai mi imbarazza anche solo pensarla) sembrano essere diventate un impaccio, una colpa, una vergogna a fronte della svendita di bellezza estromessa, della banalità incoronata che scioglie i ghiacci in allegrezza spenta. Queste sono le parole di Amfortas nel mio Parsifal, lacerato dal senso di colpa per non aver saputo fermare il crollo apocalittico del suo amatissimo mondo, per non essersi accorto di quando hanno ucciso la grazia sotto i suoi occhi distratti. Io, sbigottito e traumatizzato per quanto accadeva sotto i miei occhi, per tutto ciò che il mondo stava facendo di sé stesso, a un certo punto non ho più potuto stare con le mani in mano (o peggio: a blaterare qua e là di cultura, di arte e di bellezza rimpinzandomi dei cibi velenosi che il Sistema-Mondo, e il suo luogotenente Sistema-Cultura, somministrano a piene mani), non ho più accettato di lacerarmi inoperoso qui, crocifisso a un trono d’ospedale. Mi sono sentito chiamato in causa da uno stuolo di profeti che si chiamano Wagner, Byron, Shelley, Leopardi, Tolstoj, Nietzsche, Proust, veggenti che hanno indicato con disperata chiarezza oracolante il disastroso destino della inarrestabile décadence che guidava l’illusorio Tempo del Moderno.
Capisce bene che, a quel punto, ho preferito essere onesto e illuminato piuttosto che simpatico, visto che non ho deciso di fare l’intrattenitore televisivo. In quanto a concetti “politicamente corretti” quali la spalmatura orizzontale del linguaggio artistico per raggiungere il bacino di pubblico più vasto (e molte altre simili intuizioni che stanno radendo al suolo la specificità dell’arte e della conoscenza), mi sembra evidente che, per me, la questione non si giochi sul quantum, ma sulla quidditas. Sono profondamente convinto che l’arte non sia per tutti, ma solo per quelli che la riconoscono, che ne necessitano, che la desiderano e la onorano; e che, a loro, sia doveroso offrire con onestà e abnegazione la possibilità di intraprendere un vero percorso sapienziale, giacché l’arte, nel tempo del Moderno, dovrebbe svolgere una funzione esattamente contraria a quella sostenuta da un Sistema vòlto allo svilimento dell’Uomo a mero e abbrutito consumatore prossimo alla sua robotizzazione. So benissimo che, probabilmente, siamo fuori tempo massimo, ma se avrò contribuito a risvegliare anche solo una persona dal torpore anestetizzante nel quale il Sistema-Mondo e i suoi organismi ci hanno sprofondato, questa mia vita non sarà andata completamente sprecata.
Inoltre, per dirla tutta, non ho mai avuto problemi con quello che voi chiamate “pubblico” (e che per me invece è la sommatoria di singole individualità consapevoli e non una massa informe) nella fruizione della mia opera. Bisogna vedere cosa accade in sala alla fine dei miei accadimenti! Altro che “non parlare” al pubblico! Io di problemi, e tanti, li ho avuti solo con quel Sistema-Mondo che, le confesso, sono ben contento di avere come nemico.

La sua attenzione verte molto su questi termini: Io, Noi, Eros. Quali sono i motivi che la spingono verso questi temi?
L’Io divino in noi, contrapposto all’Io piccolo, egoico; i Noi del mondo, cioè qualsiasi tipo di nucleo identificativo – dalla famiglia all’appartenenza politica o religiosa – con i quali ci identifichiamo per sfuggire alla resa meravigliosamente spietata che ci chiede l’Io Sono; l’Eros, riabilitato come strumento gnostico. Sono alcuni importanti catalizzatori dei grandi lasciti spirituali della storia, di tutti gli ambiti sapienziali – dall’insegnamento cristico a quello platonico, dai sutra alle Upanishad – disvelati nella loro autenticità prima che i Noi delle religioni e degli opportunismi del mondo li riscrivessero a uso e consumo dei loro obbiettivi storici, in buona o in cattiva fede che fossero. Queste sono le sorgenti universali alle quali un’arte illuminata e consapevole deve rivolgersi piuttosto che agli onanistici e lillipuziani anfratti del proprio Io piccolo, egoistico e cieco. La prima generazione di romantici, soprattutto di area tedesca, Tolstoj, Wagner, ma anche Simone Weil o Walter Benjamin – solo per fare qualche esempio – pur con linguaggi e perfino con presupposti e obbiettivi talora diversissimi, risalivano il corso celeste sbarrato dall’avvento del Moderno fino a queste sorgenti per estrarne l’archè sepolto dalle macerie, l’archetipo, divenuto almeno da dieci anni il mio principale strumento di lavoro. Questo è il mio lavoro, ciò che provo a essere (prima che a fare), la mia vocazione.
Naturalmente, in un processo organico e necessario, più fisico e animistico che intellettuale, tutto ciò diviene assolutamente fisiologico e facilmente accessibile a tutti, a tutti i puri di cuore, a tutti gli assetati, indipendentemente dagli strumenti culturali a disposizione, proprio perché universale. È una diversa concezione del bacino di utenza dell’arte: non per tutti in senso statistico e democratico, ma in senso ontologico.

Lei sostiene che “Parsifal è una condizione”, più che un mito, una storia. Ci può spiegare questa motivazione?
Il mito di Parsifal eterna proprio una condizione, che è quella della resa. Parsifal non è tanto il racconto epico del cavaliere che accede ai misteri del Graal – in realtà, più un effetto piuttosto che il presupposto che lo sostiene – quanto lo svelamento mitico (cioè: proprio di ciò che non è mai accaduto ma che accade sempre) della resa a una volontà superiore da parte dell’Uomo risvegliato alla Consapevolezza. E questa non è una vicenda ma una condizione, perché l’approdo alla Consapevolezza, alla Presenza del Sé (che non è a sé stesso) si attua solo nell’Adesso, nel tempo sincronico, nella percezione dell’attimo eterno e non nel tempo diacronico spalmato nella storia. Per questo la narratio parsifaliana non è, in verità, una vicenda, ma la drammatizzazione delle tappe di un risveglio iniziatico, fuori dal tempo, e Totus Tuus è la locuzione che meglio ne esprime l’essenza: il supremo affidamento a una volontà superiore.

Per sostenere le sue tesi lei realizza un film, con un volume che fa da guida. Il progetto vuol significare che il film da solo non può essere autonomo, sufficiente alla comprensione del suo messaggio?
Io non realizzo un’opera cinematografica per sostenere le mie tesi ma cerco di trasferire nelle mie opere l’inveramento di quella condizione che è avvenuta in me, quale specchio di un tutto che mi trascende: e, mi creda, pagandone tutte le conseguenze possibili. Come ho scritto nel recente volume Il Flusso Graalico “la parola e il dramma divengono necessariamente poetici in quanto analogici e non analitici, votati all’illuminazione e non al convincimento della bontà o meno di tesi etiche e morali, nonché in quanto dotati di quella natura androgina e esoterica che conduce all’affrancamento dal duale, da ogni divisione, dal conflitto come cellula germinativa, come categoria fondante”.
In quanto a produrre un corpus saggistico (dotato, per altro, di vita autonoma e non solo quale corollario delle mie opere teatrali o cinematografiche), torniamo a una questione già in parte affrontata nelle risposte precedenti e che tocca, necessariamente, il tempo apocalittico che attraversiamo. Il film è, ovviamente, completamente esaustivo in sé, tanto che la sua via d’accesso privilegiata sono certo non sia quella intellettuale bensì quella osmotica, empatica, una via analogica e non logico-razionale. Trattandosi però, come spesso accade per i percorsi analogici, di un tracciato esoterico e iniziatico, ne ho voluto svelare l’architettura, quelle assonanze che ne fanno una mappa misterica, il “codice cifrato di un percorso di consapevolezza capace di rivelarsi nella sua capacità redentiva in ogni segmento di uno spazio-tempo annullato in un sincretismo accessibile a tutti, a tutti i puri di cuore, a tutti gli assetati, a tutti quelli a cui fanno male gli occhi, a tutti quelli che sono davvero stanchi del colossale inganno che ci sovrasta” (dalla prefazione del volume: Il mio Parsifal. Inveramento di un mito). E, vista la condizione oggettiva e indiscutibile di nuova an-alfabetizzazione ormai verificabile da anni, una recessione antropo-culturale senza precedenti, reputo che togliere ogni protezionismo dalle proprie opere, dalle proprie esperienze gnoseologiche (senza per questo svenderle o banalizzarle) sia un dovere che il nostro tempo apocalittico ci chiama a ottemperare. Dunque, a mio avviso, “nessuna inaccessibilità per il misterico che avvolge un’opera che rimane, a prescindere da tutto, al di qua – e al di là – di ciò che la costituisce”.

Il progetto “Il mio Parsifal” vuol contrapporsi a tutto ciò che altri scrittori hanno indagato sul mito?
Tutt’altro. Come ho già detto, l’opera cinematografica e il corpus editoriale che l’accompagna sono l’inveramento di un mito. Questo mito era stato trattato precedentemente in modo onorevole da autori quali Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach ma mai, fino a Wagner, all’altezza del suo contenuto identificante. Solo con Richard Wagner il mito viene inverato, che è tutt’altra cosa rispetto a quegli orrendi concetti di modernizzazione o, peggio mi sento, di “riproposta in chiave moderna”. Rivivendolo nella sua esperienza spirituale e artistica, nonché storica e umana, Wagner ridisegna i tratti del mito: anzi, li acquisisce dalla stessa sorgente di Verità che li ha creati. Solo così possono nascere opere fedelissime e, al contempo, completamente affrancate da ogni retaggio del passato e da ogni rischio imitativo. L’autore connesso e illuminato, più si sente fedele alle proprie sorgenti, più si sta staccando da ogni rischio di duplicazione di ciò che è già stato realizzato.
Il mio inveramento, pur guardando con venerazione al modello wagneriano, se ne distacca completamente sia perché io e Wagner siamo due diverse entità, sia perché usiamo due mezzi diversi; e sia perché, inevitabilmente, in mezzo a noi si erge il Novecento, con tutta la distruzione che si è portato dietro.

Che speranze nutre verso un pubblico orientato verso un Mondo Desolato, incline all’indifferenza sulle nostre origini, ai simboli che le rappresentano?
Non ho risposto abbastanza in precedenza a riguardo? Non è una risposta sufficiente tutta la mia opera? Tuttavia, la mia incrollabile determinazione nel continuare a risalire la corrente è il segno più evidente di una mia fiducia che va oltre ogni cosa: non una speranza beotamente ottimistica, ma la fede che se salverai un uomo avrai salvato il mondo. E nel mio atollo (sempre desideroso di incrociare altri atolli), nel “mondo salvato”, c’è posto per il Bene e per Generare nel Bello.

Milanese di nascita e toscano d’adozione, Marco Filiberti è drammaturgo e regista di teatro e cinema, attore, saggista e narratore. I suoi film Poco più di un anno fa – diario di un pornodivo (2003), Il Compleanno (2009) e Cain (2014) sono stati presentati in Selezione Ufficiale in Festival internazionali quali Berlino, Venezia e Los Angeles. Al suo lavoro cinematografico è stato dedicato un volume di saggi, Il Mélo Ritrovato (De Luca Editori D’Arte, 2009). La svolta nella sua attività teatrale avviene nel 2012, quando al centro della sua riflessione pone in modo deciso il dissolvimento degli archetipi nella selva della modernità. Nel 2013 fonda in Val d’Orcia “Le Vie del Teatro in Terra di Siena”, una specifica realtà di riqualificazione dell’arte incentrata sulla sua proposta di “drammaturgia del rovinismo”. Alla imponente e visionaria Trilogia Il Pianto delle Muse (Conversation pieces-Byron’s ruins-Il crepuscolo di Arcadia) – “creazione da annoverare come un vero e proprio evento artistico di teatro totale” («Il Sole 24 ore») – è dedicato un prestigioso volume edito da Titivillus. Nel 2017 propone Intorno a Don Carlos: prove d’autenticità, tratto da Schiller, al quale dedica una pubblicazione, sempre con Titivillus. Nello stesso anno comincia un nuovo e vasto progetto dedicato a Parsifal e intanto presenta al Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano (2018) una nuova versione dei Conversation pieces, tratti da Cain e Manfred di George G. Byron. Nel 2020 si realizza compiutamente l’opera cinematografica Parsifal.

PARSIFAL (VEDI GALLERIA)
LUNGOMETRAGGIO – Italia, 2021 – Coming Soon
SOGGETTO e SCENEGGIATURA: Marco Filiberti
CAST: Matteo Munari, Diletta Masetti, Marco Filiberti, Giovanni De Giorgi, Luca Tanganelli, Elena Crucianelli, Zoe Zolferino
CREW: D.o.P. Mauro Toscano – Montaggio Valentina Girodo – Scene Livia Borgognoni – Costumi Daniele Gelsi – Drammaturgia Musicale Stefano Sasso – Musiche Originali Paolo Marzocchi – Aiuto Regia Davide Cincis
PRODUZIONE: Dedalus srl – Delegato di Produzione Stefano Sbarluzzi – Produzione Esecutiva Alba Produzioni srl – Produttore Sandro Frezza
REGIA: Marco FIliberti

SINOSSI
In un tempo oltre il tempo, nella terra desolata ha luogo il viaggio apocalittico del puro folle, l’uomo che, smarrita ogni certezza – perfino quella di una propria identità biografica o di una memoria storica – può inconsapevolmente forgiare un nuovo modo di “essere nel mondo” nella fiduciosa rinuncia alla propria volontà, attraverso la compassione. Un’esperienza totale della prattica dell’essere, antagonista a quella del fare, dèmone dell’Occidente

Ultima modifica il Venerdì, 14 Maggio 2021 09:28

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