Dopo la tempesta
Intervista ad Antonio Ferraro sulla Rai del dopo-Covid
Antonio Ferraro è un nostro collaboratore ed amico e da tempo si occupa di cinema – e non solo – per la nostra rivista (in questa veste, di recente, gli è stato assegnato il premio per il cinema dal prestigioso Festival “Fare critica”). E’ autore, è stato produttore e produttore esecutivo di titoli prestigiosi e – soprattutto – è stato uno dei manager televisivi più significativi e innovativi degli anni’90. E’ proprio in questa veste che – pensando alle enormi innovazioni che il sistema audiovisivo sta attraversando – lo abbiamo intervistato.
Antonio, con qualche perplessità da parte tua, abbiamo da poco ripreso un tuo articolo nel quale raccontavi il percorso con il quale hai, insieme a validi colleghi, innovato l’offerta Rai in un momento nel quale sembrava soccombere, negli ascolti, all’agguerrita Mediaset. Sapresti riassumerci il sapore e il valore di quell’esperienza?
E’ vero, intanto, che ero un po’ perplesso sulla pubblicazione dell’articolo “Come inventammo il tv.movie (e salvammo la Rai)” perché lo avevo scritto – a richiesta – per la Rivista Moondo diretta da Giampaolo Sodano che fu con me protagonista di quell’epoca e, in un altro contesto, temevo potesse apparire un po’ troppo autoreferenziale. Mi ha convinto, però, il tuo suggerimento di partire da quella tipologia di utilizzo del prodotto audiovisivo per aggiornare ai nostri giorni un progetto che ridia centralità al sistema Italia, da tempo ai margini del complesso e potentissimo mondo della comunicazione.
Negli anni ’90 la Rai era rimasta ancorata a modalità e a linguaggi da monopolio e stava pesantemente perdendo colpi, con l’arrivo di un concorrente che mostrava di saper intercettare molto meglio i gusti del pubblico. Allora lavoravo nella Raidue di Sodano e mi occupavo dell’acquisizione e dell’offerta cinematografica; il mio compito era duplice: da un lato contrare la concorrenza e, dall’altro, farlo con il budget limitato della seconda rete Rai.
Fu così che scoprimmo il mondo – sino ad allora sostanzialmente inesplorato – dei Tv-movie: film americani nati per la programmazione televisiva, che – se ben selezionati – potevano (proprio per la loro natura di prodotto televisivo) reggere il confronto con titoli cinematografici paludatissimi e costosissimi. Parallelamente mi avventurai al recupero di garbate commedie italiane e, soprattutto, dei cosiddetti “musicarelli” (sino ad allora snobbati dai miei seriosi colleghi).
Il thriller Indiziato d’omicidio apripista di grandi ascolti e il famoso musicarello con Morandi ed Efrikian
Nacquero così proposte di grande successo: “Nel segno del giallo” (tv movie polizieschi che il sabato spesso vincevano la serata con il 25/30% di ascolti), “I difficili mondi delle donne”, in collaborazione con il mio collega ed amico Carlo Macchitella (film di impegno civile ma anche di efficacia narrativa che il mercoledì sera reggevano efficacemente il confronto con le grandi partite serali), gli action del martedì (avventurosi thriller con i nuovi divi delle arti marziali, quali Jean-Claude Van Damme e Steven Seagal, anche questi con ascolti record) e quelli del giovedì (con i nuovi mini-divi del genere: Dolph – “ti spiezzo in due!”- Lundgren, Cynthia Rothrock, Lorenzo Lamas).
Steven Seagal in Nico
Con mezzi limitati, una grande pervicacia lavorativa e (devo dirlo!) una buona conoscenza dell’audiovisivo riuscimmo a far uscire in quel periodo la Rai dalle secche di una programmazione ingessata da anni di comodo monopolio.
So anche che è stata una tua idea quella di proporre in prima serata tre puntate di Beautiful. E’ vero, è stato un successo ma questa scelta e tutte le altre di cui parli non hanno abbassato la qualità della programmazione televisiva?
Potrei risponderti con la frase di Angelo Guglielmi quando i Professori, appena arrivati, bloccarono la programmazione del thriller del sabato: “Stanno togliendo una delle poche proposte culturali della Rai” ma preferisco ricordare come l’aver illuminato con grandi ascolti la Rete2 ci consentì di avere l’unica proposta di teatro in tv di quegli anni con “Palcoscenico” e una delle pochissime rassegne di film d’essai con “Il Belcinema”. In televisione – come in tante attività intellettuali – tutto si tiene e se riesci ad affezionare l’audience e a guadagnarne la fiducia, puoi anche azzardare proposte meno immediatamente di richiamo; l’importante è che tutto sia fatto senza spocchia pedagogica e nel rispetto dell’unico fruitore del tuo lavoro: il pubblico.
Toto le heros uno dei successi del “Belcinema”
Questa logica è la stessa che, qualche anno dopo – divenuto Direttore Generale della Sacis (la società Rai che commercializzava film e prodotto televisivo), consentì – acquisendo i diritti europei dei tv-movies e usandoli come volano di pacchetti di film – di ridare respiro internazionale a tanta parte del nostro cinema che stava uscendo dai mercati internazionali.
Ecco: l’Europa. E’ vero che questi prodotti erano stati poi usati anche dalle principali reti europee ed erano diventati in tutta Europa “locomotive” di vendita di film meno commerciali per molte televisioni? Avevi fatto scuola anche fuori dalla Rai?
Intanto l’Italia1 di Freccero aveva ripreso – con un discreto riscontro ma con numeri non certo paragonabili ai nostri – la nostra programmazione ma, ben presto anche le principali emittenti europee avevano dato spazio ai tv-movie, in particolare a quelli polizieschi e altrettanto fecero le loro società di commercializzazione. Ricordo con piacere quando il direttore commerciale della potente ZDF tedesca – in seguito ad un cambio politico nella gestione Rai che mi destinò ad altro ruolo – mi disse: “Come! Te ne vai proprio adesso che tutti stiamo seguendo la tua strada?”. Dobbiamo sempre ricordarcelo: soprattutto nella comunicazione – già allora ma adesso assai di più – nessuno è un’isola e gli scambi sono essenziali.
In questo periodo, oltre allo sconvolgimento - dovuto alla pandemia – dell’intera offerta televisiva, si parla molto delle difficoltà della Rai (ma in realtà di tutto il comparto televisivo in Italia) ad adeguarsi a modalità tecniche e di contenuto che vedono in costante crescita le proposte di sigle audiovisive multinazionali e in pericolosa stasi le proposte italiane. La tua esperienza di allora ti sembra in qualche modo replicabile?
Pensando in particolare alla Rai, credo che sia indispensabile ripensare con saggezza alla sua missione. Da qualche tempo vedo sottolineata una situazione di sofferenza economica - nonostante la scelta di mettere il canone Rai all’interno del bollettino di pagamento dell’energia elettrica - aggravata dal fatto che la pandemia e il lockdown non favoriscono certo le indispensabili risorse pubblicitarie ma, soprattutto, le nuove fruizioni di audiovisivo stanno sempre più marginalizzando la vecchia tv generalista. Come spesso accade quando una modalità culturale è in declino, le sue realizzazioni si deteriorano anche a fronte di standard tradizionali. Sembra stia succedendo alle proposte televisive in chiaro: fatte salve le esigenze – con inevitabili sacrifici di ascolti – di informare sulla pandemia (anche se, talora, si potrebbe parlare di quasi un bombardamento di notizie o pseudo tali), i programmi appaiono spesso invecchiati, stentati, autoreferenziali e, almeno per la Rai, tutto il palinsesto sembra ruotare intorno ad una fiction, spesso di buona fattura ma culturalmente monocorde.
Ti interrompo sulla fiction. Ricordo male o tu sei stato, qualche anno fa candidato alla sua Direzione. Hai qualche rimpianto per come andò allora e credi che avresti lavorato a proposte diverse?
E’ difficile rispondere. Intanto ho vissuto quella candidatura come un grande privilegio. Ricordo i riconoscimenti e gli incoraggiamenti che mi vennero da alcuni grandi personaggi della televisione: Minoli, Sodano, Munafò, Silva e nientemeno che Ettore Bernabei, lo stesso Beppe Giulietti – autorevole giornalista Rai, fondatore dell’Usigrai (il potente, allora, sindacato dei giornalisti Rai) – fece uscire un pezzo su L’Unità nel quale mi faceva credito di grande competenza, con poche e accettabilissime (io ero pur sempre il candidato della parte avversa) notazioni su una mia maggiore competenza cinematografica.
Giuseppe Giulietti
Non potevo certo recriminare, né sentirmi sminuito se Saccà, allora Direttore Generale della Rai, che aveva con forza sostenuto la mia candidatura, dovette accettare lui l’incarico, dopo essere stato sostituito quale DG.
Non posso dire se avrei fatto scelte diverse da quelle di Saccà e dei suoi successori (che hanno fatto e stanno facendo un ottimo lavoro) ma credo che avrei mantenuto fede alla mia caratteristica di tecnico attento al prodotto, cresciuto alla scuola dell’azienda Bernabei e di Agnes (altro grande Direttore oggi ingiustamente dimenticato) che si sono sempre fatti un dovere del pluralismo delle idee e del rispetto dell’intero panorama produttivo ed autoriale (questo, negli ultimi tempi, è un po’ mancato.
Torno però alla domanda di prima. Dalle premesse che ti ho elencato, appare chiaro che la Rai si trova in una situazione assai simile a quella degli anni ’90: alla necessità cioè di affrontare una agguerritissima concorrenza con risorse limitate da usare con grande capacità professionale. Ho detto la Rai ma sarebbe più giusto parlare di sistema Paese. La Rai da sola non può farcela a competere con i grandi network multinazionali: ha bisogno di un piano di innovazioni della rete che la mettano al passo almeno con le altri grandi realtà europee, deve avere un gruppo dirigente autorevole e coeso che lavori ai progetti (l’azienda ha persone di grande competenza che sono spesso perse in sterili schermaglie parapolitiche) e, soprattutto, deve essere al centro di un sistema che allinei tutta la politica della comunicazione: il Mibact, Cinecittà (alla quale è stata affidata la missione di sviluppare progetti per i nuovi media ma che da sola non può farcela), i vari Ministeri (dal Mibac al Ministero per l’Economia), nella prospettiva di creare alleanze europee nella quali ogni Paese (e noi avremmo parecchio da dire) partecipi con la dignità e la forza delle proprie capacità imprenditoriali e tradizioni culturali.
Ettore Bernabei
Lo si direbbe un progetto ambizioso per un’azienda che, come tu stesso sottolinei, non sembra essere in perfetta salute finanziaria.
In realtà il problema non è di spendere di più ma di spendere meglio. Capita a tutti noi, come telespettatori di vedere trasmissioni - spesso di non straordinario interesse e con esiti di audience modesti – con conduzioni ed ospiti costosissimi o con scenografie fastose o semplicemente ripetitive. Allocando, invece, con un progetto editoriale ragionato le risorse e mettendo in campo una sana politica di accordi europei (non parlo delle pur utili coproduzioni ma di un vero piano di allineamento delle grandi aziende televisive europee ai nuovi standard) sarà possibile per l’Italia uscire da quello che, erroneamente, sembra venir percepito come un destino di marginalità.
Dobbiamo renderci conto che nuovi media significano anche linguaggi nuovi. Possiamo menare vanto, ad esempio, dei buoni ascolti della fiction Rai ma dobbiamo capire che il mercato (e i segnali già si avvertono per chi li vuol sentire) non sta andando nella direzione di contenuti tradizionali e politicamente correttissimi e rassicuranti. Dovremo guardare con attenzione a prodotti come La regina degli scacchi, nella quale il linguaggio è tutto: pochissimi spettatori, probabilmente, erano potenzialmente interessati alle vicende di una scacchista alcolizzata e asociale ma la grande efficacia del racconto ha avvinto milioni spettatori, che hanno seguito sequenze incentrate su uno delle attività agonistiche meno spettacolari al mondo.
Insomma, per chiudere con un quasi slogan: la Rai dovrà puntare sempre più su Raiplay (ovviamente rafforzata e sostanzialmente) che non sul chiaro.
La regina degli scacchi
A questo punto ti chiedo: quanto questo progetto potrebbe inficiare i già scarsi investimenti della televisione nella cultura ed, in particolare nel cinema e nel teatro?
La risposta è nei fatti: le reti dedicate saranno molto più centrali ed inevitabilmente tutto il comparto produttivo (cinema, teatro, documentari, cartoni animati) ne trarrà vantaggio. Non dimentichiamo che attualmente i dirigenti delle reti “minori” debbono fare i conti con risorse limitatissime, potendo spesso solo riproporre, come le vecchie sale di terza visione, titoli visti e stravisti. I generi di cui parliamo sono invece centralissimi nelle proposte di Sky, Netflix, Amazon e ci sarà sempre più bisogno di differenziare per platee sempre più vaste; quello che ora è considerato “di nicchia” sarà fruito comunque da milioni di spettatori. Un’occasione unica non solo per il cinema e la fiction (che dovranno adeguarsi, comunque, alle nuove estetiche) ma anche, ad esempio, per il teatro e la musica: sarà non solo doveroso civilmente ma anche conveniente, oltre a valorizzare il nostro grande patrimonio storico-culturale, puntare sui nuovi talenti e i nostri autori contemporanei, molti dei quali – in qualche modo – nascono già internazionali.
Spulciando tra i nomi di coloro che si sono candidati per il C.d.A. Rai ho visto anche il tuo nome e ti sento molto appassionato alla materia. Significa qualcosa?
In realtà, da quando è cominciata questa prassi delle autocandidature io ho sempre partecipato. Non sono così ingenuo da pensare che – almeno sino ad ora – qualcuno esaminasse con animo sgombro i vari c.v. ma penso, da cittadino con competenze decennali nel settore, che sia giusto partecipare, quantomeno per segnare l’adesione ad un metodo, almeno nella forma, meritocratico. Vedo che ogni volta validi colleghi hanno fatto lo stesso ragionamento e sono certo che molti di loro, come me, sono pronti a dare sostegno, anche senza ruoli o medagliette, ad un’azienda che abbiamo contribuito a fare grande e che vorremmo veder tornare al ruolo centrale al quale può (e deve) ambire.