in collaborazione con Otto&Marvuglia dall'omonimo libro di Katherine Kressmann Taylor con Marco Pagani, Massimiliano Lotti scene Marco Muzzolon disegno luci Marco Zennaro regia Gabriele Calindri Teatro Verdi/Teatro del Buratto – Milano, dal 14 febbraio al 4 marzo 2012 |
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Al centro della scena un quadro ritrae due mani che si stringono, simbolo indiscusso dell'amicizia. È questo il legame che unisce Martin e Max, i protagonisti del testo di Katherine Kressmann Taylor, ben interpretati da Marco Pagani e Massimiliano Lotti. A loro è concesso di comunicare solo tramite lettere: Martin, infatti, è partito dall'America per tornare in Germania, lasciando l'amico ebreo a gestire gli affari in comune. I giochi di luce e ombre, l'assenza di contatti visivi durante le comunicazioni, il delimitarsi spontaneo di uno spazio personale che non collima mai con quello del compagno, creano una divisione immaginaria tra i due riuscendo a rappresentare in modo naturale questo rapporto indiretto. Martin e Max si scambiano continuamente i ruoli e giocano a essere alternativamente mittente e destinatario, aiutati da espedienti teatrali ben riusciti. Sulla parete di fondo le lettere scritte a mano restano a testimonianza di ciò che è stato. In Germania, poco dopo il trasferimento di Martin, Hitler sale al potere, acclamato come il salvatore di una nazione umiliata e bisognosa di rinascita. A lui si guarda con speranza: egli è vitalità e forza, è uomo d'azione, è il cambiamento tanto atteso. I mezzi impiegati - i pogrom, la violenza, le morti di innocenti - sembrano giustificabili alla luce del fine: la creazione di una grande nazione in grado di riscattarsi agli occhi dell'Europa. Il nazismo si insinua nella vita privata e corrompe ogni cosa: distrugge gli affetti e altera i sentimenti. Martin da una parte ci appare vittima di un sistema che sembra non lasciare scampo e che domina col terrore, dall'altra non possiamo che vederlo come carnefice, per la condiscendenza con cui segue le vicende e non si oppone – anche con la vita – a ciò che non dovrebbe essere accettato. Ma lo stesso Max non sfugge a tale agghiacciante dualismo: vittima impotente di ciò che avviene in Germania e artefice di vendetta. Entrambi ci sembrano subire tragicamente l'influenza disumanizzante del nazismo ed entrambi finiscono per essere vittima e carnefice l'uno dell'altro. A ciascun spettatore resterà l'amaro compito di discernere le responsabilità delle loro azioni. Serena Lietti |
Produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro in collaborazione con le belle bandiere con il sostegno del Comune di Russi liberamente tratto dal romanzo "Memorie del sottosuolo" di Fëdor Dostoevskij progetto, regia, interpretazione ed elaborazione drammaturgica di Marco Sgrosso e con Carluccio Rossi scene e immagini Carluccio Rossi, progetto luci Max Mugnai, suono Raffaele Bassetti, costumi Marta Benini, assistente alla regia Mattia Visani spettacolo inserito in Invito a Teatro Teatro CRT - Milano, dal 17 aprile al 6 maggio 2012 |
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Marco Sgrosso, con il prezioso aiuto di Carluccio Rossi, porta in scena Memorie del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij, donandogli una forza e un'intensità davvero coinvolgente. La scelta di privilegiare la prima parte del testo e l'incontro con Lisa non intacca minimamente la resa del personaggio e della sua dimensione esistenziale. L'uomo del sottosuolo si presenta nella complessità dei suoi tormenti interiori, contorsioni che divengono anche fisiche e ci restituiscono una figura grottesca e ripugnante, immersa in un'atmosfera lugubre dominata dall'inquietante presenza del servitore Apollion e da suoni cavernosi e sotterranei. Egli è topo tra i topi avvolto dall'oscurità di una tana popolata dai fantasmi della propria mente, visivamente presenti in sagome cartonate e in suggestivi giochi di luci e ombre. L'utilizzo di alcune proiezioni contribuisce a creare atmosfere e ambienti differenti, riportandoci ora alla neve fradicia ora all'interno del bordello. Nel suo angolino sporco e lurido, nascosto dal mondo reale, l'uomo del sottosuolo ricorda, in una sorta di confessione che è al contempo l'ennesimo esplicarsi di un eccesso di riflessione, il proprio percorso di umiliazioni e sofferenze. Egli è vittima di una malattia da cui non riesce a liberarsi: l'ipertrofia della coscienza. In un'ossessiva e patologica analisi interiore egli smembra la realtà nei suoi frammenti infinitesimali, gioca con una scomposizione chimica delle cose e dei sentimenti che disperde l'intuizione immediata e annulla ogni distinzione valoriale, conducendo all'inazione. L'uomo del sottosuolo è la personificazione di un pensiero attorcigliato su se stesso che finisce per strangolare qualsiasi possibilità di vita reale. E, nella sua umiliante condizione d'inetto, l'unico modo che ha per rivalersi sulle proprie insoddisfazioni è sprofondare ancora di più nel proprio sudiciume, rifiutando vilmente la salvezza offerta dall'amore di un animo puro. Sgrosso è bravissimo nel creare tonalità e intensità differenti e restiamo quasi senza fiato, completamente rapiti dalla potenza del momento, quando parla di e con Lisa. Ma non c'è speranza per quest'uomo che, abbandonato dallo stesso servitore Apollion, tornerà a rintanarsi nel proprio claustrofobico antro con l'ennesima domanda: "ma cosa è meglio, una volgare felicità oppure un'elevata sofferenza?". Serena Lietti |
Produzione Teatro Stabile di Bolzano |
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Siamo in un paesino francese dominato da uno splendido lago che, conoscendo la biografia di Carlotta Clerici, non può non ricordarci il lago di Como. Di questo piccolo mondo scorgiamo solo la terrazza di un albergo, l'Hotel Du Lac, affacciato sullo specchio d'acqua. La scenografia, ideata da Gisbert Jaekel, è quasi cinematografica e ogni spazio è studiato in modo da rendere perfettamente realistiche le dinamiche in scena. Ciò che manca è presto compensato da un percorso immaginativo che, grazie alle parole, agli sguardi e alle movenze dei personaggi, trasforma tutta la sala: il pubblico diventa lago e alle sue spalle, in lontananza, s'innalzano immaginari scogli dai quali partono tuffi acrobatici. Riusciamo a vedere il colore azzurro dell'acqua, gli oleandri, il sentiero e ci pare di sentire l'aria fresca, il sole caldo e la brezza che avvolge i corpi nelle notti al chiaro di luna. Perfettamente riuscita è la scelta musicale che accompagna i cambi di scena: le note dei Nirvana sembrano essere un prolungamento di ciò che accade in scena. Carlotta Clerici ci restituisce una piéce ben riuscita, interessante e avvincente. I momenti di risa si accompagnano a profondi spunti di riflessione che interrogano il senso dell'esistenza, la felicità, l'amore, l'amicizia, l'arte e le scelte compiute. La bellezza del testo sta proprio nella sua capacità di porci di fronte a uno spaccato di realtà umana in cui tutti possiamo riconoscerci: di fronte a noi ci sono i nostri amici, i nostri conoscenti e, in fondo, ci siamo anche noi. Ne Il ritorno c'è il dualismo della vita, sempre in bilico tra gioia e dolore, e c'è l'uomo nei suoi molteplici aspetti, da quelli più frivoli a quelli più intimi. La trama ricorda in parte Il grande freddo e in parte alcune opere di Cechov, tra cui Il giardino dei ciliegi e Il gabbiano: una rimpatriata di vecchi amici, una proprietà da salvare, un "lago stregone" che ravviva e opprime al tempo stesso. L'incontro assume però andamenti alterni: da una parte si configura come una parentesi di ricordi piacevoli, dall'altra si trasforma in un momento di bilancio della propria vita. In un progressivo vortice che mischia passato e presente, Anne, Yann e Matthieu sono costretti a fare i conti con se stessi, con ciò che erano e con ciò che sono. Non manca il giovane che guarda speranzoso al proprio futuro e la signora anziana in villeggiatura, personaggio riuscito che porta una ventata di divertimento e spensieratezza, per cui passato e presente non esistono più e si confondono continuamente in un'esistenza ormai appagata. Il finale è amaro e, ancora una volta, tragicamente realistico. Non si sa cosa succederà dopo l'ultima giornata, ma siamo certi che nessuno dei personaggi sarà più quello di prima. Serena Lietti |