sabato, 27 aprile, 2024
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INTERVISTA A LUNA CENERE - di Michele Olivieri

Luna Cenere. Foto Federica Capo Luna Cenere. Foto Federica Capo

Luna Cenere è danzatrice, coreografa e performer. Artista associata del “Centro Coreografico Körper” dal 2017; è stata artista associata del “Festival Oriente Occidente” per il biennio 2019/2020 e sostenuta dall’azione “Residence XL” per l’anno 2019. Vincitrice del Premio Danza&Danza come Coreografa Emergente 2020 con lo spettacolo “Genealogia_Time Specific”, e autrice di “Kokoro”, spettacolo prodotto dalla Compagnia Körper con il sostegno della “Compagnia Virgilio Sieni”, del “Marosi Dans Fest” e dell’ex Asilo Filangieri di Napoli, selezionato dalla rete ANTICORPI XL e per la NID Platform 2019. Con questo spettacolo Luna viene selezionata come artista AEROWAVES TWENTY18 e vince il Premio per la migliore Coreografia del “Solocoreografico” 2017. Nel settembre 2019 Luna riceve il “Premio Speciale Positano Léonide Massine” come Talento Campano. Seguono poi “Twin" (2018) presentato in anteprima al Festival FOG/ Triennale di Milano e selezionato dalla rete ANTICORPI XL; “Pneumatika" (work in progress) (2018) presentato al Teatro T.A.N. di Napoli, al festival “La Democrazia del Corpo” a Firenze e al “Festival NAOcrea” a Milano; “Natural Gravitation – tributo a Isadora Duncan” (2028), commissione e produzione del Festival di Ravello e della Compagnia Körper; “Zoé” (2021) produzione della Compagnia Körper e del Festival Oriente Occedente, selezionato per la NID Platform 2021; “Shoes on” (2022) spettacolo selezionato dalla NID Platform 2023; “Vanishing Place” (2023) progetto vincitore del Bando per le nuove coreografie della Biennale di Venezia. Diplomata in danza contemporanea presso l’Ente di Promozione Nazionale Movimento Danza nel 2009. Al termine dei suoi studi Luna è già coinvolta nella scena artistica della città prendendo parte a numerosi progetti sul territorio. Nel 2011 lascia l’Italia per proseguire la sua formazione presso la SEAD, Salzburg Experimental Academy of Dance dove consegue la laurea e nel 2014 si trasferisce in Belgio. In questi anni frequenta festival internazionali come Il Festival Deltebre Danza, Impulstanz e la Biennale di Venezia e studia con maestri come David Zambrano, Francesco Scavetta, Martin Kilvady, Josef Frucek, Linda Kapetanea, Matej Kejzar e molti altri. Partecipa alle creazioni di Anton Lacky (Anton Lacky Company) e Josef Frucek (Rootlessroot). Nel 2014 lavora con Simone Forti e Anton Lacky. Nel 2016 diventa membro della “Compagnia Virgilio Sieni” in progetti come “La Mer”, “L’avventura” e “Il Cantico dei Cantici”. Nel 2017 lavora al film di Mario Martone “Capri Revolution” con la direzione coreutica di Raffaella Giordano. Ha creato le coreografie per gli spettacoli teatrali “Ferito a Morte” (2022) e “Clitennestra” (2023) con la regia di Roberto Andò. Insegnante certificata di danza contemporanea presso la SEAD, conduce laboratori di formazione, ricerca sul movimento e classi di improvvisazione.

Luna, com’è nata la tua passione per la danza e chi ti ha indirizzata verso l’arte?
Non saprei dire quando è nata la mia passione per la danza, direi che c’è sempre stata. Ricordo che ero piccolina quando iniziavo a muovere i primi passi a ritmo di musica e a mostrare le mie prime danze ai miei genitori. Fino all’età di sedici anni sono stata autodidatta e poi ho deciso di iscrivermi ad un corso di danza contemporanea a Napoli e di seguire un percorso professionale per poi trasferirmi all’estero. Ricordo di essere sempre stata sensibile alle varie forme d’arte, in particolare la musica, la pittura, la fotografia e la scrittura. 

Com’è iniziata la tua formazione coreutica?
Ho iniziato con un corso di danza contemporanea per poi integrare lezioni di classico, release e floor work. Fino a ventidue anni ho seguito corsi e workshop in diverse strutture della città di Napoli e viaggiato per studiare con docenti di fama internazionale. Poi ho deciso di continuare la mia formazione all’estero e ho sostenuto audizioni per diverse accademie. Con mia grande gioia sono stata ammessa alla “SEAD Salzburg Experimental Dance Academy” a Salisburgo, che ho sentito subito molto affine rispetto al tipo di formazione che desideravo. 

In seguito come nasce l’esigenza di coreografare?
Già negli ultimi anni di formazione ero stata interprete per diversi coreografi e ho assistito a tanti spettacoli. Tra un esperienza e l’altra ho iniziato a maturare dentro di me delle riflessioni e l’urgenza di trovare uno spazio personale in cui sviscerarle. Così ho iniziato a scrivere e a trascorrere molte ore in sala mettendo in discussione tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Era il 2016.

A distanza di anni, a chi senti di inviare un grazie, tra chi ti ha maggiormente supportata e compresa nello sviluppo della personalità artistica? 
In questi anni itineranti ho fatto molti incontri meravigliosi. Mi sono nutrita di ogni conversazione e di ogni esperienza. A volte anche brevi incontri possono essere di grande supporto. Poi, ci sono le persone che ti accompagnano per un lungo tragitto, come quando ti affidi ad un maestro o ad una figura professionale che ti accompagna nella costruzione del percorso artistico o, ancora, i collaboratori che scelgono di esserci e sostenere una visione. Io vorrei poter ringraziare tutti. 

Che tipo di allieva sei stata?
Anche se dentro di me ho un animo ribelle, come allieva sono sempre stata molto disciplinata. Quella stessa disciplina la applico nel mio lavoro, ed è un aspetto del mio carattere molto forte che emerge anche nel quotidiano.

Quali sono i più evidenti problemi riscontrati per chi vuole fare oggi danza nel nostro Paese?
Credo ci sia ancora una forma di svalutazione di questo lavoro. Il problema è sistemico, culturale e questo si riflette sull’aspetto economico che in gran parte dei casi non rende il lavoro sostenibile. 

Dove trovi la fonte d’ispirazione per le tue coreografie/performance?
Il corpo è per me una fonte interminabile di ispirazione per l’infinità di riflessioni che inevitabilmente mi porta a fare. Essendo il mio primo oggetto di interesse lo osservo e rifletto, immagino e sogno. Trovo sempre molto affascinante ricercare su una materia così concreta eppure ricca di significati filosofici, culturali e allo stesso tempo metafisici. L’umano, attraverso l’osservazione del gesto e della postura, manifesta anche ciò che c’è di più umano possibile: l’immaginazione. Siamo esseri capaci di attraversare con lo sguardo ciò che vediamo e connetterci ad altre dimensioni suggerite da ciò che è manifesto. Il corpo nudo per me è un paesaggio sconfinato di senso che si offre allo sguardo.

Merce Cunningham diceva che l’ispirazione la traeva anche “osservando la caduta di una signora inciampata sul marciapiede”. A volte è sufficiente un gesto per essere ispirati?
Assolutamente sì. Un gesto, un evento, una parola, possono scatenare lunghe riflessioni e divenire oggetto di indagine. 

Pensi che ci sia affinità tra il modo di muoversi e il modo di affrontare i problemi dell’esistenza, in generale?
Penso al corpo come un canale di energie e la nostra postura è la manifestazione del fluire di queste ultime in esso. Questo flusso dipende molto da quanto siamo aperti e disponibili verso il mondo. Il modo in cui ci muoviamo è una conseguenza diretta di questa disponibilità. Ci sono diversi studi al riguardo e a volte lavorare sui canali energetici mediante il movimento consapevole può aiutare anche ad affrontare al meglio i problemi dell’esistenza. 

Nei tuoi lavori cosa desideri lasciare in eredità agli spettatori?
Rispondo a questa domanda ponendomi prima da spettatrice. Gli spettacoli che mi hanno lasciato di più e che sono rimasti scolpiti nella mia memoria sono quelli che mi hanno colpito con una forma di turbamento, nel senso positivo del termine. Da spettatrice mi sento soddisfatta quando un lavoro mi tocca, lasciandomi in uno stato di riflessione. In qualche modo desidero essere condotta in un luogo sconosciuto. Da autrice desidero poter raggiungere lo stesso risultato e invitare il pubblico ad entrare in questa dimensione aperta della visione, cercando di curarne ogni possibile smarginamento. 

Se non avessi fatto danza quale altra professione senti più affine al tuo pensiero?
Provo un grande amore per quello che faccio. La creazione è un motore importante per la mia vita e penso al teatro come il luogo in cui, ancora oggi, si possono veicolare messaggi di grande valore. Forse, un giorno, il mio ruolo si declinerà in altre forme, ma spero di non dover mai abbandonare questo settore. Ad oggi non riesco ad immaginarmi altrove. 

Tra i tanti coreografi ed artisti del passato a livello storico, c’è qualcuno che ha influito in maniera determinante sul tuo stile?
Non mi sono mai lasciata influenzare troppo dai lavori che ho visto o con i quali sono entrata in contatto. Mi ha sempre spaventata l’idea di avere dei ‘riferimenti’. Confesso che è stato altrettanto fondamentale vedere o far parte di spettacoli verso i quali mi sono sentita totalmente in dissonanza per determinare in che direzione volessi andare. 

Cosa significa sperimentare nella danza?
Credo che il modo di intendere la sperimentazione sia soggettivo e dipenda anche dal genere di danza a cui si fa riferimento. Riguardo all’ambito del contemporaneo per me la sperimentazione è una condizione imprescindibile dell’atto creativo e significa mettere sempre in crisi e in discussione ciò che si sa o si crede di sapere nel tentativo di creare nuovi paesaggi di senso o far emergere qualcosa di sconosciuto. Sperimentare vuol dire anche stare in un processo e andare verso un luogo ignoto con fiducia. Spesso nel ritmo produttivo del sistema di cui facciamo parte, rischiamo di lasciare poco spazio alla libera sperimentazione e alla possibilità del fallimento, che invece sono fondamentali in un percorso artistico. 

Quali sono le prospettive future sul lavoro artistico che stai portando avanti?
Continuo a ricercare, a mettermi in discussione e a sperimentare nuove forme di significato. Quest’anno riprendo a lavorare su me stessa e torno in scena dopo due anni in cui mi sono dedicata principalmente alla coreografia. Dopo il debutto del mio ultimo lavoro “Vanishing Place”, sento di essere giunta ad un nuovo momento di riflessione con il quale ho l’urgenza di confrontarmi. Sono in scena come interprete per uno spettacolo con la regia di Raffaele di Florio che ha debuttato a marzo al Teatro di Napoli, e sto lavorando ad un duo con il sassofonista Antonio Raia che debutterà a giugno al “Festival Danza Estate a Bergamo”. Allo stesso tempo ho iniziato a scrivere dei nuovi progetti, tra cui un nuovo percorso laboratoriale con amatori e non professionisti che ho intenzione di presentare nel corso del prossimo triennio e un duetto con musicista in scena cha verrà presentato ad aprile in anteprima al “Festival Orbita” a Roma.

Quanto gioca nel tuo lavoro la fantasia?
Sono una persona che sogna e immagina molto. Sin da quando iniziai a scrivere il mio primo solo ho sempre fatto riferimento al binomio reale/irreale. Poter condurre lo sguardo oltre la concretezza del corpo è il mio esercizio costante. La costruzione di paesaggi di corpi antropomorfi mi interessa tanto quanto la loro presenza surreale. Lavoro sul tempo del movimento e sulla postura per restituire questa dimensione metamorfica, come in un sogno. Mi affascina questa stessa capacità della mente umana di perdersi nelle immagini per scrutarne significati. Ciò richiede un esercizio di immaginazione sia da parte di chi compone con me, che da parte del pubblico che viene a vedere un mio spettacolo. 

C’è un filo sottile che lega ogni tua creazione installazione/coreografia all’altra?
La nudità come condizione umana, espressione di fragilità e potenza allo stesso tempo. Il corpo come spazio di vita e paesaggio vivo che si offre allo sguardo. Cosa sto guardando? dove si posa il mio sguardo? Cosa provo nel guardare un corpo? Rispondere a queste domande mentre osserviamo un copro nudo a volte piò scatenare un forte confronto con noi stessi. In ogni creazione cerco di stabilire una relazione diversa con lo spettatore partendo da queste domande. Pe me il corpo è un luogo di riflessione, lo specchio culturale oltre che psicologico. Ho sempre creato mossa dall’idea che l’atto della danza o performance, avendo a che fare con il copro presente debba sottintendere un pensiero radicale al riguardo. 

La presenza alla Biennale di Venezia con “Vanishing Place” ha messo in totale luce il tuo personale lavoro e stile. Che esperienza è stata?
Ho vissuto quell’esperienza come un grande dono della vita. “Vanishing Place” ha avuto due anni di gestazione e ha richiesto un lungo tempo di scrittura. Desideravo dedicarmi alla creazione di uno spettacolo che parlasse del sogno, del ricordo e dello spazio evanescente della mente. Volevo ricreare una dimensione onirica attraverso il movimento dei corpi, la creazione di uno spazio scenico miniale, l’uso della luce e del colore e il paesaggio sonoro. Ho scelto un gruppo di lavoro meraviglioso che ha compreso e abbracciato il progetto dedicandosi con me alla costruzione di questo limbo con grande passione e professionalità. Sembrava molto lontana la possibilità di poterlo portare a compimento finché non è arrivato il sostegno produttivo della Biennale e devo ringraziare il direttore Wayne Mc Gregor per avermi dato questa fiducia, la produzione Körper, il Teatro di Napoli e tutti i partner nazionali e internazionali che ci hanno sostenuti. È stato molto impegnativo, ma grazie a questa rete di ospitalità e supporto è stata anche un’esperienza indimenticabile. 

Mi piacerebbe fornire al lettore una sorta di piccolo vademecum sulle tue creazioni in stringati concetti. L’assolo “Kokoro”?
“Kokoro” tratta il tema dei binomi, come lo stesso titolo suggerisce. Nella lingua giapponese questa parola assume entrambi i significati di ‘mente’ e ‘cuore’ che culturalmente noi separiamo. Allo stesso modo il corpo assume in sé tutte le contraddizioni e concetti apparentemente opposti. Tratta la ricerca costante del nostro essere di centrarsi e trovare la sua unicità attraverso un percorso trasformativo che da stato in stato, in un incedere di abbandoni e piccole morti, procede in una forma sempre nuova del nostro stare al mondo. 

“Zoé”?
Questo lavoro nasce all’interno del percorso Genealogia, un progetto che, dopo aver composto tre soli, ho scritto con in desiderio di condividere la mia ricerca con amatori e professionisti. È stato il mio primo lavoro di gruppo di cui sono autrice a anche interprete. Insieme ai quattro performer che hanno assunto anche il ruolo di assistenti durante i percorsi partecipativi, ho sviluppato una sintesi delle riflessioni e delle esperienze corporee emerse durate i vari incontri, dando vita a un percorso fisico nello spazio che potesse declinarsi come un manifesto della mia ricerca coreografica a partire dal concetto di nuda vita. È un lavoro molto significativo per me anche perché la sua scrittura è iniziata nel 2018 e ha attraversato il periodo pandemico influenzando non poco il nostro pensiero sul senso di collettività o comunità, di alleanza, di corp-i, di relazione, di condizione umana e di spazio politico. 

“The Invisible Actor”
È il libro di Yoshi Oida e Lorna Marshall che più di tutti mi ha ispirata nel periodo di scrittura dei miei primi appunti coreografici. Una lettura che mi ha fatto comprendere quale potesse essere il mio statement da artista in scena e fuori dalla scena e su cosa veramente mi interessava indagare nelle mie pratiche. Il tema dell’invisibilità da quel momento è diventato il cardine del mio immaginario. 

“Shoes on”?
In questo duetto, oltre a indagare il dialogo tra due corpi maschili, mi sono divertita a giocare con la prospettiva di visione e con il pubblico. I due interpreti hanno lavorato su un contatto molto intimo, tenero e tratti sensuale fatto di tensioni, disequilibri e respiri. Le scarpe sono state l’espediente compositivo che ha traghettato la scrittura spaziale e drammaturgica a partire dalla costruzione di un microcosmo per andare verso un’apertura completa dello spazio e la conquista di quest’ultimo con la declinazione di un repertorio movimenti e gesti che potremmo dire d’archivio. Questi gesti vengono poi riletti in maniera giocosa proprio perché eseguiti da corpi che vestono solo delle scarpe da ginnastica. 

E naturalmente “Vanishing Place”?
“Vanishing place” è la creazione di un luogo in cui il tempo, inteso nella sua evanescenza, si genera e si perde. Gli spettatori sono invitati a entrare in uno spazio che è già abitato, così come accade quando visitiamo in maniera volontaria o meno dei luoghi della memoria o quando cadiamo in un sogno. Un paesaggio in movimento fatto di corpi immersi in un tempo sospeso, surreale, come i luoghi della mente. Rappresenta uno stato alterato della coscienza (in stretto legame con il tema scelto dal direttore della biennale Danza per quell’ edizione) dove ogni gesto diventa segno e si ripete nel tempo senza una logica apparente, eppure con una coerenza interna quasi ossessiva. In questo lavoro ho voluto dare forma a questo atto della mente, questo spostamento che avviene quando quest’ultima visita certi luoghi creando una dimensione in cui i corpi diventano presenze dai contorni sfumati, si frammentano e si compenetrano tra gli ‘spazi negativi’ siano questi vuoti (come lo spazio tra) o pieni (nell’interazione con gli oggetti). 

Quanto è fondamentale nel tuo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e con lo spazio?
Penso che l’ascolto degli altri possa avvenire solo se si è prima di tutto disponibili all’ascolto di sé stessi. La consapevolezza e l’onestà sono la prerogativa per una comunicazione positiva, sia essa verbale o corporea. Quando queste acque sono limpide anche l’ascolto dell’altro risuona chiaramente. Nella gestione di un gruppo di lavoro l’ascolto è un esercizio quotidiano fondamentale. Soprattutto in un lavoro intimo come può essere quello sul corpo nudo perché possono emergere molte fragilità o resistenze. La relazione con noi stessi e con gli altri in una condizione di nudità può far emergere parti nascoste della nostra personalità e il contatto quotidiano in una sala prove fa si che quello spazio possa diventare luogo di espressione e catarsi. Nelle mie pratiche di scrittura, poi, ho sempre creato le partiture coreografiche immaginando un percorso spaziale. Un procedere del corpo o dei corpi nello spazio inteso come un attraversamento che determina una trasformazione. Mi sono data delle regole che tengono conto dello sguardo di chi osserva e di come ogni luogo possa essere abitato in una forma diversa. Una sorta di mappatura dello spazio. Osservo le posture nel modo i cui dialogano con l’architettura circostante per disporle nel giusto luogo. È anche per questo che amo lavorare in site specific, abitare con il corpo uno spazio è creare un paesaggio nel paesaggio. 

Come si svolgono le tue lezioni di danza e cosa ti piace nel ruolo di docente?
Per via dei molti impegni produttivi non mi dedico molto all’insegnamento ma più alla creazione di progetti partecipativi come il progetto ‘Genealogia’ intrapreso nel 2019. Qualche volta vengo invitata per brevi periodi a tenere workshop in scuole di danza come ad esempio a “Movimento Danza”, a Napoli. Principalmente mi dedico all’insegnamento della tecnica floor work e la mia vera passione è insegnare improvvisazione. Che sia un progetto o un workshop, mi piace molto condividere la mia esperienza e provare a guidare chi con fiducia si affida al mio sentire verso una ricerca personale. La vivo come una grande responsabilità e cerco di avere la massima cura nel farlo. La sala di danza e lo spazio prove, devono essere un luogo sicuro per chi le abita. La creazione di questa dimensione di serenità è responsabilità di chi guida per far sì che tutti si sentano tranquilli e non vivano nel timore dell’errore. Il luogo della creatività dovrebbe poter concedere a tutti la possibilità di sospendere il giudizio e, piuttosto, applicare una riflessione su ciò che si fa e che accade intorno. Direi, quindi, che ciò che mi piace di più dell’insegnamento è condividere il pensiero che mi muove attraverso l’uso delle tecniche o tools per poi far sì che ognuno, li possa tradire per trovare ciò che è giusto per se, per il suo corpo e la sua persona. 

Come si dovrebbe valutare obiettivamente una creazione altrui?
In quanto artista ammetto che è molto difficile per me essere obiettiva e per questo non mi metto nella posizione di valutare le creazioni altrui. So bene che un processo creativo è fatto di molte difficoltà che talvolta si riverberano fino al risultato finale. Penso anche che quando un lavoro è riuscito manifesta una forza comunicativa che non necessita altre valutazioni. 

In conclusione come ti senti di definire l’arte della danza (soprattutto la tua) con le sue mille sfaccettature?
La danza come tutte le pratiche legate alle forme d’arte è parte di un flusso in continuo mutamento strettamente legato al tempo e ai contesti socioculturali nei quali si manifesta. Dal mio punto di vista, oggi la danza non può prescindere da una riflessione sull’uso dei corpi, da una ricerca di senso del gesto e la dichiarazione di uno statement alla base dell’atto creativo. Uso la parola ‘pratiche’ proprio perché nella mia ricerca mi concentro molto nella declinazione di queste ultime, nel rispetto dei corpi, delle loro peculiarità e di chi li abita. Il corpo è la danza e la danza è corpo. Si manifesta in ogni gesto, anche quotidiano e ciò che conta è il pensiero di chi l’agisce. Il mio lavoro non si focalizza sulle tecniche o il virtuosismo, ma sull’assunzione di una postura coerente con il pensiero critico che mi muove. Non amo le definizioni perché rischiano di circoscrivere o ingabbiare. Trovo interessante tutto ciò che di fatto sfugge ad una definizione e credo questo si rifletta nelle mie creazioni. 

Michele Olivieri

Ultima modifica il Martedì, 26 Marzo 2024 00:25

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