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Mimmo Cuticchio - La macchina dei sogni. Intervista di Filippa Ilardo

Mimmo Cuticchio Mimmo Cuticchio

Per giungere a Polizzi Generosa, scelta come sede de La Macchina dei sogni, festival del teatro di figura, diretto dal puparo e cuntastorie palermitano Mimmo Cuticchio, e giunto quest’anno alla ventiseiesima edizione, bisogna inerpicarsi tra le linee sinuose di una salita che, attraverso monti e vallate madonite, giunge ad un piccolo borgo in cui, l’uno sull’altro e in ordine sparso, si affastellano tetti, scalinate, facciate barocche: vicoli in cui il tempo rarefatto e immobile rimane scandito unicamente dal ritmo sommesso di un rosario sgranato da donne sedute al fronte di un’edicola.

In questi scenari, non ancora invasi dalla marea illusiva del progresso e dall’indistinto mediatico che sotterra ogni traccia di identità, si dispiega la poderosa macchina del festival che, tra opera dei pupi, burattini, marionette, artisti da strada, mostre, propone un campionario di quanto di meglio produce il teatro di figura e di narrazione, con spettacoli provenienti da varie regioni di Italia e d’Europa.

Per nove giorni le strade, le chiese, le piazze si animano di musiche, forme, colori e visioni: il teatro delle ombre dell’artista turco Cengia Özek, il duetto per trampolieri della compagnia svizzera Trickster, le innumerevoli e fantasiose riproposizioni delle guarattelle napoletane e dei paladini di Francia. Si confrontano antiche tradizioni e nuove tendenze, somiglianze e differenze semantiche e formali, tecniche e linguaggi che cercano e trovano una corrispondenza con la tradizione epico-cavalleresca.
L’Opera dei pupi è, infatti, il vero baricentro del festival quale risultante di forze apparentemente contrapposte: la tradizione palermitana (gli spettacoli del figlio d’arte Giacomo Cuticchio, quattro episodi tratti dalla Storia dei Paladini di Francia di Giusto Lo Dico), quella catanese con la famosa compagnia Turi Grasso, fino all’accostamento di canto lirico, opera e musica calssica, nel nuovo spettacolo di Mimmo Cuticchio che svelando manovre e tecniche, rende gli stessi pupi speculari al suo manovratore in un rimando di prospettive e di piani che rinviano al teatro nel teatro e al doppio uomo-pupo.

Per capire quale sia il significato profondo della manifestazione lo chiediamo a chi l’ha pensata e voluta e che, dal lontano 1984, con la caparbietà di un infaticabile artigiano e manovratore, la porta avanti, trovando sempre nuovi spunti e percorsi capaci di dialogare con la modernità e proiettarsi con realtà culturali di ampio raggio.
Mimmo Cuticchio è un incredibile fabulatore, ama parlare, ma soprattutto raccontare, perché il suo discorso è soprattutto la sua storia personale, è memoria, il senso del suo teatro si intreccia con il senso della sua stessa vita.

La macchina dei Sogni nasce da un bisogno, un’urgenza, quella di dare un riconoscimento a mio padre Giacomo, gigante, mago e demiurgo, il grande costruttore di sogni che aveva trasferito a noi figli il suo enorme patrimonio di tradizione e conoscenze. Dopo che le nostre strade si erano allontanate, tanto che nel 73 io avevo già il mio teatro di cui lui era allo stesso tempo orgoglioso e antagonista, ho sentito il bisogno di saldare un debito nei suoi confronti: le generazioni si combattono, un po’ come Dedalo e Icaro, ma era mio padre che mi aveva insegnato a costruire le ali, e allora basta lottare, bisognava cercare una riconciliazione, ed ecco che gli ho dedicato questo festival con mostre, riflessioni, spettacoli e conferenze. L’anno successivo è morto.

L’esigenza di percorrere una strada propria si incrocia con la necessità di dare un nuovo valore all’Opera dei pupi, giungendo ad ripensamento della sua funzione comunicativa visto che l’Opera aveva perso quella capacità di costituire un orizzonte mitico condiviso dai risvolti rituali e sacrali antropologicamente forti…

Nel ’69 mio padre era tornato a Palermo, ma non aveva più pubblico, lavorava solo per i turisti ripetendo all’infinito lo stesso spettacolo. Anche il mondo accademico, studiosi, poeti e letterati, parlavano dell’Opera usando tempi al passato, come di qualcosa che stava inesorabilmente per tramontare. A me mancava la vita dei pupi e per questo volevo riprendere il Ciclo. Da qui si avvia la mia ribellione: ho costruito, insieme a mio fratello 30 personaggi e una struttura smontabile, nel ’73 mi sono trasferito a Palermo in via Bara all’Olivella. Ho iniziato da capo, per i bambini, andando nelle scuole. Bisognava ripiantare dei semi. Bisognava ricercare un pubblico, formarlo. Bisognava rendere viva la tradizione: io ho lavorato per la ricostruzione, come dopo un bombardamento, cambiando destinazione d’uso come si fa per i monumenti. Non sono per la conservazione fine a sé stessa, è finita un’epoca, ma i pupi sono vivi, gli uomini chiudono gli occhi e muoiono, i pupi no.

La direzione in cui si è orientato il “cambiamento” potrebbe assimilarsi a quella che porta dal teatro capocomicale a quello di regia?

Mio padre era più un capocomico che un regista. Io ho dato nuova forma allo spettacolo, lavorando su tempi e ritmi, prestando più attenzione al valore espressivo delle luci, alla coerenza dei fondali e dei costumi, ho eliminato da alcune mosse l’odore della muffa. Poi ho cominciato a scrivere nuovi testi, trasferendo categorie e strutture tipiche della tradizione a nuove trame e nuovi personaggi: Cagliostro è divenuto un nuovo Orlando, il demonio un nuovo Malagigi. Insomma il mondo cambiava e anche il pubblico, questo mi ha portato a studiare, a ricercare, a sperimentare. E’ stato come intraprendere un viaggio, un viaggio nella tradizione e nelle altre tradizioni che girando il mondo ho conosciuto. Ho imparato che c’è un elemento comune a diversi linguaggi e forme teatrali, ed è quello che rinasce dalla morte stessa della tradizione: il senso del viaggio.

Il titolo di questa edizione è infatti “In viaggio con l’opera dei Pupi”.

Io non abbandono mai il mio viaggio: il viaggio è attraversamento, spostamento di prospettiva. La stessa narrazione è il viaggio di un pensiero, di una conoscenza. Il viaggio di Astolfo sulla luna non è altro che la “figura” del moderno viaggio degli astronauti. Prima si viaggiava con l’immaginazione: per gli antichi Omero era insieme teatro di figura e cinema, perché il racconto, le parole hanno la capacità di far affiorare un immaginario, di tras-portare in  luoghi e spazi diversi. L’uomo stesso è nato per viaggiare, per andare avanti, ma sapendo che dietro c’è già stata una strada, che non ha inventato nulla. Io stesso vado avanti, ma sapendo che esiste un dietro: il passato è un viaggio iniziato da altri e che noi possiamo proseguire. Del resto io non sono un nostalgico: se penso a mio padre invece di piangere, recito meglio. Non sono neanche un maestro che insegna, ma un viaggiatore che insegna un viaggio compiuto.

In passato per trasmettere questo patrimonio di conoscenze era necessario un lungo apprendistato in cui l’arte veniva “rubata con gli occhi” e spesso il mestiere si tramandava di padre in figlio. Che funzione ha il Laboratorio di narrazione che viene ospitato all’interno del festival?

Oggi è importante soprattutto trasmettere, offrire la propria arte, anche se non si sa quali possano essere gli sviluppi. Non bisogna porre barriere all’evoluzione e al cambiamento, ecco perché credo nelle generazioni future e investo su di loro per non interrompere il cammino, il viaggio che mi ha portato fino a qui.

Ultima modifica il Giovedì, 21 Marzo 2013 11:23
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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