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Maurizio Scaparro - Andare a teatro? Una cosa normale. Intervista di Mario Mattia Giorgetti

Maurizio Scaparro Maurizio Scaparro

La cultura come fatto normale, il teatro come bene pubblico, la tensione verso l’Europa, l’attenzione ai giovani, nuove e più sicure regole: c’è molto da fare in Italia per risollevare il teatro, secondo uno dei registi più amati in Francia, Maurizio Scaparro

L’esperienza di Maurizio Scaparro è di lungo corso, ha diretto teatri, fatto il regista, lavorato nel pubblico e nel privato. Ripercorrendo la sua storia, vorrei fare alcune riflessioni sul ruolo del teatro pubblico oggi, dal suo nascere alla sua attuale condizione.

"I primi anni, subito dopo la guerra, la lotta di liberazione, furono gli anni della rinascita del teatro italiano, il Piccolo di Milano nacque nel 1947, dove tutto era da ricostruire".

Una lenta involuzione

"Fu una continua ascesa per tutti i Sessanta. Adesso, a sessant’anni da quel periodo molto è cambiato. Riconosco un’involuzione, legata ai tempi che stiamo vivendo, se il teatro è sempre specchio dei propri tempi, adesso ci parla di tempi oscuri. La funzione per la quale nacquero i primi teatri pubblici non è più la stessa. A quei tempi non c’era la televisione, avevamo una vitalità che nasceva dall’essere appena usciti da una guerra. Per certi versi la stessa vitalità la troviamo negli anni Sessanta e Settanta, una vitalità che oggi vedo solo in Spagna.
Una città tipo in questo senso è Napoli, che ha vissuto una vitalità negli anni Sessanta e Settanta, dove la vitalità creativa anche nel campo della drammaturgia era grandissima, oggi si fa fatica a citare cinque grandi momenti per la drammaturgia a Napoli. Poi c’è l’altro grosso problema che il teatro si porta dietro, ed è il concetto di pubblico, mi pare di poter dire in profonda crisi. Una difesa forte non tanto dei teatri pubblici, ma del concetto stesso di teatro pubblico mi sentirei di farla, non dimenticando mai l’interesse pubblico del nostro mestiere perché se fossimo soltanto figli del mercato probabilmente non varrebbe neanche la pena di fare questo mestiere. È vero che tutti siamo sempre in parte coinvolti nelle trame del mercato, lo stesso Goldoni in Una delle ultime sere di Carnevale fa una riflessione sull’impresariato, ma guai a limitarsi a pensare che il nostro mestiere si limiti a proporre e riproporre sempre le stesse cose, il teatro diventa o un museo o una scatola vuota.
Siccome sono ottimista per natura, per finire di rispondere a questa grande domanda che mi ha fatto, ritengo che oggi più che mai il teatro pubblico è una necessità da riaffermare, proprio perché c’è un tale scadimento dei valori civili e culturali, anche quelli fondamentali, del nostro paese, che non si può non pensare ad una necessità di riaffermare l’interesse pubblico della televisione, l’interesse civile del lavorare, del vivere, della cultura".

L’esigenza di una legge

Il teatro italiano è un sistema composito, costituito dagli Stabili Pubblici, dal teatro privato, indipendente, dall’Ente Teatrale Italiano, dai circuiti regionali, perché a distanza di tanti anni non siamo riusciti a fare una legge che riordini il sistema teatrale? Ci sono ragioni esclusivamente politiche, a suo avviso, o ci sono anche inerzie interne al sistema?

"Costatiamo tutti con un certo scetticismo che tutti i tentativi fatti finora sono andati a vuoto, l’ultimo con Veltroni ministro nel 1997. Sembra quasi una maledizione. Negli ultimi cinque sei anni abbiamo avuto la dabbenaggine di concentrarci a parlare del rapporto Stato-Regioni, rimandando il problema della legge al momento in cui si fosse risolto questo problema, complicatissimo e intricatissimo. Così non si è risolto il tema del rapporto Stato-Regioni e non si è fatta nemmeno la legge. Non si è arrivati a stabilire nemmeno un regolamento dei rapporti tra Stato e Regioni. Mi viene in mente quello che diceva Paolo Grassi: per il teatro basta una legge con pochissimi articoli. In Italia, lo sottolineo, solo in Italia, perché nel resto d’Europa la situazione è molto diversa, continuiamo a procedere con norme. La divisione che lei ha fatto per descrivere il sistema teatro italiano, molto puntuale, è una divisione burocratica, non risponde a delle categorie dello spirito o a delle differenze di contenuti. Un metodo contrario al principio di una legge.
Credo che una speranza oggi è di lasciare perdere la legge e cercare di costruire un teatro nostro, che possa imporre quello che noi saremo capaci di essere.
Credo che l’Europa stia nascendo veramente, credo che i rapporti tra le regioni saranno ancora presenti, credo che nella prossima finanziaria il Ministro Francesco Rutelli cercherà di trovare le risorse che sono state tagliate al teatro nella finanziaria precedente e ci riuscirà, ma non sarà abbastanza, perché il problema del teatro italiano non sono i soldi".

Le nuove leve

Lei è sempre stato sensibile nei confronti delle nuove generazioni, e la sua fiducia nei giovani le fa dire che tornerà l’impegno civile. Eppure i giovani sono disorientati, i giovani talenti teatrali spesso si perdono, in parte perché vengono abbagliati dalle facili promesse della televisione, in parte perché i teatri chiudono loro ogni porta. Un tempo le compagnie avevano per obblighi di legge 14 elementi ora ridotti a 6. Non sarebbe indispensabile cercare un rimedio a questa situazione?

"Parlavo con Francesco Rutelli, qualche giorno fa, che mi chiedeva: sapresti dirmi in dieci parole le cose più importanti da fare per il teatro? Ci provo: regole sicure, respiro europeo e attenzione ai giovani.
All’interno delle cinte dello Stato, delle regioni, dei comuni, di tutti gli enti che sovvenzionano, quando fai uno spettacolo ti senti sempre porre la domanda, come una ciliegina sulla torta, con chi? E quando dici vorrei farlo con un giovane di talento alla parola giovane sono già spariti tutti. Quello che lei dice è sacrosanto, nessuno, a partire dalle scuole, ha cura dei giovani. Dobbiamo metterci in testa che non possiamo fare per il teatro un discorso di audience, ossia l’obiettivo non è tanti più spettatori possibile, dobbiamo fare in modo che i giovani abbiano la possibilità di esprimersi.
Bisogna cominciare dando loro dello spazio, anche fisico, per sperimentarsi; bisogna insegnare loro che non si può lavorare da soli, perché oggi il teatro è una macchina complessa, che ha bisogno di tecnici. Anni fa si erano create le residenze, ossia alcuni teatri ospitavano una compagnia di giovani talenti, ai quali si dava quella casa come luogo per provare, per debuttare, per sperimentarsi partendo concretamente da un posto. Questo si fa sempre di meno. E anche questo è specchio dei tempi, tragici per i giovani. Quando ero bambino io, andavo dal barbiere e c’era il ragazzino al quale il barbiere dava cinquecento lire per guardare. Oggi un giovane trova se gli va bene qualcuno che gli fa fare uno stage, gratuito. Al terzo stage un ragazzo comincia ad avere qualche sospetto, se gli va bene ha imparato qualcosa, ma certo non troverà un lavoro. I giovani oggi vivono tra lo stage e il lavoro precario. E non mi si venga a dire che in teatro siamo abituati al precariato. In Francia i cosiddetti intermittents che lavorano saltuariamente nello spettacolo sono raccolti in un albo, riconosciuti come categoria, usufruiscono della disoccupazione e via di questo passo. I nostri precari, ma non parlo solo del teatro, non sono così. Allora se l’Europa è un nostro obiettivo, dobbiamo renderci conto che siamo tanto, tanto indietro".

Investire nel pubblico

Abbiamo un bacino potenziale di pubblico enorme. È possibile che si trascuri sempre la promozione, che non si lavori per raggiungere questo pubblico?

"Questo discorso è parallelo a quello sulla pubblicizzazione dello spettacolo. La peculiarità del teatro è di essere itinerante, ossia per mostrare uno spettacolo dalle Alpi alla Piramidi devi compiere un viaggio, dalle Alpi alle Piramidi. Questo devono comprendere gli sponsor e chi pubblicizza uno spettacolo. Per lo spettacolo teatrale è di enorme importanza la televisione regionale e locale".

La stampa cartacea invece è molto distratta, lo spazio per il teatro è ridotto ad alcuni francobolli nei quali si preferisce anticipare che recensire. Una strada percorribile non potrebbe essere quella di obbligare i giornali, in virtù dei contributi che percepiscono dallo Stato, a dedicare un certo numero di pagine all’anno al teatro?

"Secondo me è una strada percorribile. Con alcune cautele. Il rischio è che troviamo le pagine ancora più invase dai molti personaggi televisivi che salgono sul palcoscenico. A noi interessa che invece si parli del teatro vero.
Credo che il problema sia molteplice. In primo luogo la classe politica da qualche tempo ha scoperto la televisione, dove ama molto più farsi vedere che vedere, con la conseguenza logica che i politici vedono sempre meno televisione e ne capiscono sempre meno. La stessa cosa può dirsi rispetto al teatro: quanti direttori di giornale vanno a teatro?
Di confortante c’è il numero di spettatori, ai quali dovremmo fare capire che hanno una grande forza. Tale da poter influire sulla tiratura di un giornale, e che se tutti decidessero per una settimana di non comprare quel giornale forse qualche danno lo causerebbero.
Un altro problema è legato alla critica. Un tempo, dopo la prima si aspettava tutta la notte l’uscita del giornale, per leggere le recensioni. Adesso chi lo fa più? Anche perché le critiche non escono il giorno seguente il debutto. Il giornale Le Monde ha recentemente inaugurato la propria nuova veste, vantando come un obiettivo normale da conseguire dedicare più pagine alla cultura e due pagine intere al teatro. In Italia nessun giornale lo fa se non in rare occasioni. E sono più promozionali che critiche.
Ci sono due parole che detesto e di cui si abusa nella comunicazione culturale: evento e nicchia. Qualsiasi cosa è un evento e quindi bisogna parlarne e se non è un evento è pur sempre di nicchia. Penso che il nostro paese abbia un grande bisogno di normalità, di credere profondamente nel valore della cultura e del teatro, di fare normalmente della cultura un tessuto connettivo della nostra società, solo così si fa grande un paese".

Il sistema teatrale è costituito dall’area creativa, produttiva e dal pubblico. Una cosa strana è che, in Italia, lo Stato investa sui primi due, ma quasi nulla sul pubblico, ossia sul versante della promozione. Sembra quasi che in fondo importi poco la presenza del pubblico, anche perché ci sono tutte le coperture finanziarie ad eliminare il fattore di rischio di qualsiasi attività produttiva. Non sarebbe interessante che l’investimento dello Stato fosse equamente ripartito su tutti e tre questi settori?

"L’idea è buona da percorrere. Dobbiamo fare in modo che questi tre soggetti siano in grado di agire e di scegliere. Gli abbonamenti possono funzionare in un settore, la rivista, il classico, l’avanguardia, la danza, la musica e così via, non quando compri dei pacchetti differenziati, dove non sai cosa vai a vedere. Occorre che tutti siano più consapevoli di cosa vanno a vedere e perché vanno a teatro".

Penso che il nostro paese abbia un grande bisogno di normalità, di credere profondamente nel valore della cultura e del teatro, di fare normalmente della cultura un tessuto connettivo della nostra società, solo così si fa grande un paese.

Ultima modifica il Giovedì, 21 Marzo 2013 11:16
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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