Giuseppe Dipasquale - Teatri Stabili, Catania : Il punto di svolta.
Ridurre i finanziamenti pubblici per i Teatri Stabili equivale ad aprirne la crisi, pregiudicando il futuro delle principali istituzioni pubbliche di produzione e promozione teatrale italiana. Eppure a Catania come altrove la domanda di teatro da parte del pubblico non diminuisce. Come affrontare la contraddizione? Quale nuova programmazione, quale nuovo volto questi teatri dovranno avere per il futuro? Ne parliamo con Giuseppe Dipasquale, direttore del Teatro Stabile di Catania
I Teatri Stabili attraversano ormai da tempo una fase critica, legata al taglio dei finanziamenti pubblici, che ne pregiudica severamente il futuro. Date simili premesse, come pensa debba essere impostata la proposta culturale, produttiva di un teatro stabile?
La risposta richiede una serie di periodi ipotetici. In questo momento gli orizzonti possibili sono due: la prima ipotesi, ridurre la propria attività mantenendo il livello qualitativo. Operazione semplice, ma non facile. Per fare un paragone, sarebbe come pensare di ridurre di colpo la velocità di un’automobile in corsa. Infatti si parla di tagliare di colpo il 20-30 % delle produzioni, non di pensare ad un piano di decrescita. E questo è evidentemente traumatico. Se, come anticipato, il FUS verrà ulteriormente ridotto del 20-30 % rischiamo di dover chiudere le produzioni in corso, non di tagliare sulle produzioni future. Ma non parlo solo del FUS. Parlo anche del finanziamento proveniente dagli enti locali. Se è vero, come pare, che anch’essi vadano a sintonizzarsi sulla tendenza intrapresa dal Ministero con la riduzione del FUS, saremo in serissime difficoltà, poiché avremo le risorse bastanti a garantire i costi fissi della “struttura teatro”, ma non per la sua attività. Significherebbe dunque congelare il teatro, metterlo in attesa. Questo fenomeno sta accadendo per noi, per gli altri teatri stabili, ma altresì per le compagnie private gravate da un peso insostenibile perché dotate di minori difese e minori possibilità di resistere. E questa è di certo l’ipotesi più buia.
Produrre teatro, produrre cultura
Con la seconda ipotesi, vorrei insinuare un elemento di ottimismo. Se dovessimo essere costretti a ridurre e a tagliare drasticamente la nostra attività, vorrei fare appello ad una risorsa che noi teatranti abbiamo e che da sempre ci ha consentito di sopravvivere, di galleggiare in acque spesso burrascose: l’unione. Farei un richiamo alla comunità dei teatranti, affinché si attivino tutte le reti di solidarietà possibili, dandoci un termine ovviamente, per resistere a quella che appare come una vera e propria aggressione all’esprit cultural.
Questa affermazione sembra sottintendere una convinzione: che vi sia quasi un disegno, un’azione pianificata di decostruzione degli organismi culturali…
È inevitabile pensarlo. Non si capisce infatti perché vivendo in un’Europa che sta attraversando un grave periodo di crisi, paesi come l’Inghilterra, la Francia, la Germania, ugualmente in crisi quanto noi, incrementano l’investimento culturale e l’Italia, al contrario, taglia e riduce.
Questa situazione pregiudica inevitabilmente anche l’attività che il Teatro di Catania svolge negli spazi alternativi? Qual è il progetto culturale legato alla gestione delle altre sale, fuori dal teatro?
La strategia che abbiamo attuato da quando ho preso la direzione artistica, con Pietrangelo Buttafuoco come presidente, è di considerare il Teatro come un istituto culturale, un soggetto che genera alimenta promuove cultura teatrale. Questo equivale a differenziare la proposta ma anche le strategie. Le grandi sale per la stagione della tradizione, che va conservata e rinnovata; le sale alternative per dare voce e spazio ad altre realtà teatrali che devono essere sostenute. Questo significa prendere atto di ciò che esiste nella città, nel territorio, per sorreggere supportare far continuare, non soffocare la cultura teatrale del luogo, ma rafforzarla. Il compito del Teatro Stabile a mio avviso è anche quello di dare supporto. Lo abbiamo fatto il primo anno con una rassegna particolarmente sperimentale, quest’anno abbiamo dato ad una rassegna il titolo “Comics”, ospitando attori comici solisti, da Gene Gnocchi a Francesca Reggiani, solitamente assenti dalla programmazione di un teatro stabile. Questo è stato possibile grazie alla presenza sul territorio di un organizzatore che si occupa di questo genere, che abbiamo coinvolto nel circolo virtuoso del nostro teatro.
Queste scelte, queste proposte non rischiano di sovraccaricare l’attività del teatro stabile, disperdendo un po’ le energie, anche economiche?
Lo stiamo facendo con un meccanismo che è a costo zero. Le spiego come, utilizzando l’esempio di “Cats”, il musical che abbiamo ospitato in stagione, anche in questo caso offrendo uno spettacolo inconsueto per il palcoscenico di uno Stabile. La proposta è ovviamente complementare alla stagione di prosa, dunque offre qualcosa in più, alternativo e diverso quale un musical può essere, teatro commerciale ma di alta qualità. Di fronte a questo, credo sia necessario superare un certo snobismo. In più, con questo spettacolo noi abbiamo aperto una trattativa con i produttori, ottenendo da loro di proporre lo spettacolo rischiando. Il teatro stabile dunque non ha comprato lo spettacolo, ha solo offerto al produttore la propria forza di movimentare pubblico, la propria efficacia comunicativa. In cambio, è lo spettacolo ad assumere il rischio.
Questo vale in sostanza per tutte le altre rassegne collaterali. Dunque il teatro non impiega le proprie risorse produttive. Unicamente valorizza la propria forza, la propria struttura, rendendola anche economicamente sostenibile.
Si tratta anche di una strategia per diversificare il pubblico, per aprire a pubblici diversi, mi pare. Come a dire che per essere guardati da diversi spettatori, occorre avere volti diversi. Dunque, la tradizione, la sperimentazione, il comico, il musical… C’è una strategia mirata ad incontrare pubblici diversi, ma anche a creare travasi di spettatori da un genere all’altro. Nei confronti dei giovani quale strategia attivate?Come avvicinate un pubblico che ha notoriamente scarsissime risorse ed interessi apparentemente lontani dal teatro? Interloquite con il mondo della scuola?
La stagione scorsa abbiamo ottenuto un risultato strabiliante con l’iniziativa degli “abbonamenti per le scuole”. La differenza rispetto alla consueta programmazione per le scuole, solitamente pensata appositamente per loro, è stata di non pensarli come un pubblico a parte. Siamo partiti dalla convinzione di non strutturare una programmazione speciale, ma di “investire” sullo spettatore di domani, proponendogli un percorso parallelo nell’ambito della programmazione ufficiale del teatro. L’iniziativa ha avuto un successo enorme. Abbiamo avuto circa 2000-2500 spettatori provenienti dalle scuole, che assistevano agli spettacoli con un’attenzione ammirevole, ben lontana dal clima di ricreazione prolungata al quale molti anni di programmazione specifica per le scuole mi hanno purtroppo abituato. Forse perché i giovani spettatori non erano indotti a pensare che fosse la loro presenza a giustificare lo spettacolo, quanto piuttosto si sentivano ospiti privilegiati.
Produrre cultura è produrre società
Parliamo di programmazione. Ho notato che da diverse stagioni i programmi dello Stabile di Catania sono costruiti per temi, dando così al cartellone un andamento unitario, progettuale. Questa scelta però è sempre praticabile? Non rischia di costruire legami pretestuosi o di forzare eccessivamente le scelte?
La scelta dipende forse dalla mia formazione strutturalista. Gli elementi semplici accostati fra di loro creano linguaggio, comunicazione. L’idea di dare dei temi ha un duplice obiettivo: determinare nel pubblico la sensazione che seguire gli spettacoli non sia solo accedere ad una proposta culturale, ma seguire un discorso sui tempi, dal momento che i temi scelti sono sempre legati ai tempi. Dal “teatro della gioia” siamo arrivati al “tempo della musica” di quest’anno, come a volere segnalare che tutto si lega, che anche la schizofrenia che caratterizza la produzione italiana appartiene alla temperie al tempo che la produce e che esplicitare un tema guida significa anche fornire una chiave di lettura per ogni spettacolo. Oltre al tema del cartellone c’è anche un rapporto generale con la letteratura, in cui la presenza di Pietrangelo Buttafuoco è stata determinante. Accanto agli spettacoli abbiamo presentazioni di libri, “libri in cortile”, “libri in scena”, eventi paralleli che riscuotono un successo notevole e sono seguiti da centinaia di persone, ricreando un’attenzione diffusa che si era andata un po’ perdendo negli anni passati. Abbiamo ricreato l’idea che un teatro non è solo un ente produttore di spettacoli, ma un ente che produce cultura.
Produce cultura e quindi anche società, promuovendo aggregazione, promuovendo la crescita delle persone. Ma il Ministero, gli enti pubblici, riconoscono anche questa funzione collaterale? Le danno valore?
Il Ministero nelle ultime circolari e nella definizione dei criteri di qualità ha inserito una serie di indicatori che premiano le attività collaterali alla programmazione di un teatro; tanto per fare un esempio, l’utilizzo e la valorizzazione dei siti archeologici e architettonici del territorio, un compito che ci è venuto facilissimo, con tutto ciò che abbiamo; i rapporti con l’università, anche questo molto agevole grazie ai legami già attivi. Si tratta di una serie di compiti che il ministero deve sintetizzare nella sua normativa, probabilmente non ancora messa perfettamente a punto, ma che esprime un contenuto e un’idea di fondo. Un’idea che condividiamo Pietrangelo Buttafuoco e io è che il teatro stabile del futuro sia più simile ad un istituto culturale complesso che ad una articolata compagnia teatrale, per quanto ottima, dedicata unicamente alla produzione di spettacoli.
Desidero comunque farvi i complimenti perché in cartellone quest’anno avete otto vostre produzioni e noto con favore che non date spazio unicamente agli artisti stabili, ma aprite lo spazio ad altri registi, ad altri artisti, allargando il confronto. Non molti teatri, nemmeno stabili, lo fanno. Come ci riuscite? Non ritiene che la vostra soluzione sia raccomandabile e adottabile anche dagli altri Stabili?
Me lo auguro. Non ho mai perseguito un’idea monografica del teatro. L’ultimo che ha potuto farlo è stato Strehler. Per il resto abbiamo la necessità oltre che il compito di confrontarci: con altre metodologie di messa in scena, con altri linguaggi, come una certa qualità di attori che, magari, crescendo in un teatro non ha avuto mai l’opportunità di sperimentare altri modi di lavorare. L’autoreferenzialità è chiusura, la chiusura fa morire il teatro non lo fa di certo crescere. Il nostro non è un modello impostato per essere proposto, però se si facesse sarebbe positivo.
Gli enti pubblici creano spesso problemi ai teatri stabili, in forza dei tempi di pagamento dei fornitori, spesso in contrasto coi tempi dei bilanci pubblici. Come riuscite a fare fronte a questo sfasamento? Avete l’appoggio delle banche o degli sponsor?
È molto difficile, in effetti: noi abbiamo una percentuale di autofinanziamento che arriva circa il 34-36% del bilancio. Una parte abbastanza ridotta che non ci consente di avere il passo leggero nel rapporto con gli enti che tardano ad erogare in modo addirittura rischioso. Finora ce la stiamo facendo, ma con difficoltà. Bisogna fare una riflessione e probabilmente occorre prendere delle decisioni, non come singolo teatro, ma come associazione dei teatri stabili. La legge Tognoli che legava i teatri stabili agli enti locali in modo piuttosto rigido, probabilmente necessita di un correttivo, una via che consenta un rapporto con gli investitori privati realmente efficace. Se si trovasse un percorso virtuoso di detassazione che facilitasse l’avvicinamento di sponsor privati, tutto sarebbe più semplice, soprattutto per le realtà come la nostra. Un teatro come il Piccolo di Milano, operando nel contesto di una città molto più grande, avendo una storia e un’immagine consolidata, ha l’opportunità di offrire un immediato ritorno di immagine agli investitori privati, che certo minimizza questo tipo di problema.
Dunque per lavorare tutti su una minore percentuale di finanziamento a fronte di un maggiore introito da parte degli sponsor è necessaria un’azione da parte del Governo, con una legislazione predisposta.
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Se è vero, come pare, che anch’essi vadano a sintonizzarsi sulla tendenza intrapresa dal Ministero con la riduzione del FUS, saremo in serissime difficoltà, poiché avremo le risorse bastanti a garantire i costi fissi della “struttura teatro”, ma non per la sua attività. Significherebbe dunque congelare il teatro
Un’idea che condividiamo Pietrangelo Buttafuoco e io è che il teatro stabile del futuro sia più simile ad un istituto culturale complesso che ad una articolata compagnia teatrale, per quanto ottima, dedicata unicamente alla produzione di spettacoli.