MANDELA LIFE Prima parte della trilogia di Emilia Ricotti
Un paese, un uomo, una leggenda, Nelson Mandela da tre capanne nel Transkei alla presidenza in Sudafrica, un viaggio difficile, fatto di incontri epifanici; lui ha una valigetta, la apre: ago, filo, forbici; ma lui cuce e altri squartano, le ferite dilagano, le suture non bastano: “il fiore della gioventù Xhosa sta morendo”, i vecchi strumenti non servono, bisogna trovarne di nuovi; ripone l’ago, il filo, le forbici. Ha due pilastri alle spalle e qualche ricordo: un ciuffo di capelli striato di bianco, l’eco di un “no” al magistrato di zona, il fumo della pipa davanti alla morte che incalza, tre capanne e una voce di donna: stai in gamba, figlio mio! Ara, tira il carro, studia, e stira per il reggente e capisce che “il suo destino non è cavare oro per i bianchi, senza sapere nemmeno come si scrive il suo nome” e supera i confini di un mondo dove c’è solo una tribù e il suo popolo, e si accorge di un altro con un epicentro che è l’Africa, fatta di neri, di bianchi, di meticci, indiani, comunisti e occorrono mattoni, malta, tasselli e comincia a Forte Hare, e tra un’elezione amputata e l’espulsione, da un istituto che è Oxford, Cambridge, Harvard e Yale insieme, sceglie questa, e a Mqhekhezweni, decide la fuga da un matrimonio truccato e inizia un percorso ad ostacoli dove qualche furbizia lo stanca, ma la meta è sicura, e continua a Johannesburg, ad Alexandra, ad Orlando dove lontano dalle aule scopre un mondo che gronda; istruzione e attivismo sono gli strumenti che servono. Nella lotta per il boicottaggio delle tariffe degli autobus e durante lo sciopero dei minatori sente che marciare col popolo è vivificante e fermarsi impossibile e se c’è da cambiare, si cambia e i minatori lo sanno: “in miniera siamo già uomini morti!”. Ma è la campagna di disubbidienza degli indiani ad insegnare che la lotta di liberazione, non si fa con i discorsi, le risoluzioni, le delegazioni, ma con un’organizzazione capillare, con un’azione di massa militante e soprattutto col sacrificio e la sofferenza. E quando lo eleggono nell’esecutivo, rimane impigliato alla lotta col corpo e con l’anima. Sale sul ring da una parte c’è Malan e gli afrikaner e le leggi sull’apharteid, dall’altra indiani, africani, meticci, comunisti e la disobbedienza civile: “Ehi Malan, apri le porte della prigione, vogliamo entrare!” e Malan non le apre, ma trasforma in prigione il Sudafrica, il pugno di ferro si abbatte: l’istruzione negata, Sophiatown sventrata, gli abitanti deportati. Ora sa che non ci sono gli inglesi di fronte, ma gli afrikaner e la disobbedienza non basta e deve imparare a rispondere al fuoco, col fuoco. E tra i nuovi strumenti c’è un faro che dice “no” all’oppressione e trasforma l’ingiustizia in giustizia:“ La Carta della libertà”.
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