«Se la musica è il cibo dell'amore,/ne voglio ancora, da farne indigestione,/ che la fame si estingua nel disgusto», esordisce così Orsino nella Dodicesima notte di Shakespeare, tradotta da Patrizia Cavalli, e portata in scena per Marche Teatro da Carlo Cecchi, insieme a un gruppo affiatato di giovani e promettenti attori, con le musiche di Nicola Piovani eseguite dal vivo. Parlare della Dodicesima notte con Carlo Cecchi è parlare del teatro, è parlare di una tensione continua alla magia dell'essere pienamente nel qui ed ora della scena, a partire dalle parole e dalla traduzione.
«Noi non possiamo recitare Shakespeare, ma necessariamente recitiamo una traduzione di Shakespeare, sembra un'ovvietà, ma non lo è – spiega Carlo Cecchi -. Per avvicinarci a Shakespeare, per tradurre la Dodicesima notte, ma direi i grandi classici in generale c'è bisogno di un traduttore con una conoscenza culturale e letteraria, che sappia fare a pugni con il testo originale, sappia interrogarlo, metterlo in crisi fino a tradurlo nella nostra lingua».
Questo è accaduto con Patrizia Cavalli?
«Sono stato io, in tempi remoti, a chiedere a Patrizia di tradurre testi teatrali, suo è stato il mio Anfitrione, suo il Sogno di una notte d'estate. Patrizia Cavalli e Cesare Garboli sono due che quando traducono iniziano una vera battaglia, uno scontro quasi fisico con la parola e il verso poetico».
Una fisicità che si avverte in palcoscenico.
«Le parole delle traduzioni di Cavalli e Garboli sono parole pensate e costruite per essere dette, che trovano sulla scena una loro straordinaria efficacia, che dicono, non raccontano, dicono e fanno al tempo stesso».
Niente letteratura...
«Al contrario altissima letteratura, ma che si compie in teatro, soprattutto per i grandi testi di Shakespeare e Molière che vivono del palcoscenico, del rapporto fra parola, attore e pubblico. Altra cosa è tradurre Beckett, gli autori dell'Ottocento. Shakespeare e Molière sono il gioco del teatro, la festa del teatro».
E' questo che va cercando da un testo teatrale?
«Da una traduzione».
Ciò che emerge dalla sua Dodicesima notte è una chiarezza narrativa esemplare, un mettersi al servizio del testo in favore del pubblico.
«La Dodicesima notte è un play, è un gioco. In inglese play vuol dire giocare e recitare. In fondo è semplicemente teatro. Ciò che mettiamo in scena è un racconto, ciò che accade sulla scena e in quel momento deve essere reale, attenzione non realistico. Ma ciò che si dice e si fa in scena deve essere vero, con tutta l'ambiguità che la parola verità porta con sé».
Parola pesante verità.
«Una parola che riconduce ai preti e ai giudici».
E non al teatro?
«Ciò che accade in scena o andiamo cercando ogni volta che siamo su un palcoscenico, non so se mi spiego, è reale, non è finzione, accade lì davanti agli occhi di un pubblico che è portato a crederci, che vuole da noi l'intensità di un accadimento reale, di una relazione vera, di parole che dette hanno un senso perché chi le dice le fa sue, le ha capite e fatte proprie. L'arte è reale. Per me Rembrandt è realtà».
Una realtà, una verosimiglianza che va cercando nel ruolo di regista?
«Verosimiglianza che non vuol dire scimmiottare la realtà. La regia, cos'è? Il teatro ha tre ingredienti indispensabili: il testo, l'attore e il pubblico. Piuttosto che un regista sono una specie di capocomico. Io ho conosciuto il capocomicato, basta pensare a Eduardo De Filippo con cui ho iniziato, solo per fare un nome. Ecco posso definirmi un capocomico».
Insomma i registi non le vanno a genio?
«Non è questo. I registi che vanno per la maggiore sono quelli che si sostituiscono al testo, che vogliono imporre la loro idea, lavorano per se stessi e non per il teatro, non per quello che accade in scena. Ecco io lavoro per ciò che accade in scena, il mio compito è incoraggiare quell'accadimento magico e reale che è il teatro».
Nessun regista contemporaneo la interessa?
«Dirò di più. Io vivo fra Roma e Parigi e trovo poco interessante quello che accade nei teatri occidentali. E poi a teatro ci vado poco, ma quando so che c'è una compagnia sudafricana, afghana o palestinese corro a vederla».
Perché?
«Perchè lì, in quelle esperienze vi trovo la vita».
E qui torniamo ad un'idea di teatro dell'essere più che dell'apparire e della finzione.
«Di un teatro della consapevolezza della finzione, di un teatro che è gioco e festa ma in quel gioco e in quella festa officianti e partecipanti fanno sul serio, sono reali».
Tutto questo come si raggiunge?
«Con il lavoro. Io sono una specie di allenatore fisico e di parole per i miei attori. Tutte le volte che iniziamo a lavorare in teatro noi iniziamo la prova di una prova, mi spiego? Proviamo sempre e comunque. E' questa tensione, mettere alla prova fino a raggiungere quel momento, quell'istante in cui ciò che accade è reale, carico di senso, vero. Parole che forse non rendono l'intensità che a mio avviso ci deve essere in ogni respiro, in ogni tono, in ogni parola perché ciò che accade in scena sia».
Eppure prima o poi bisogna debuttare?
«Certo. C'è una data per cui bisogna presentarci al pubblico, una data da rispettare. Ma questo non termina il lavoro, se vogliamo è l'inizio dello spettacolo. Prima abbiamo provato a provare, abbiamo lavorato passo passo per misurarci con la parola, con lo spazio, con le relazioni che si creano fra gli attori e fra i personaggi. Beninteso nulla di realistico, naturalistico, il teatro è altra cosa, non è fiction è realtà. Il debutto non segna nulla, segna l'avvio di un racconto che ogni sera cambia, muta perché a mutare sono lo spazio, il pubblico, la nostra predisposizione ad andare in scena».
L'impossibilità di ripetersi identici ogni sera?
«La ripetizione sterile e senza consapevolezza è la morte del teatro e dello spettacolo che è in scena. Io ripeto quella battuta, ma nel dirla devo trovare quell'intensità che la renda ogni sera nuova, improvvisa, reale e credibile perché nel momento in cui la pronuncio sono nella mia pienezza. E' quando mi accorgo che la ripetizione prende il sopravvento che uno spettacolo comincia a morire, se si è a fine tournée si lascia che vada, a volte, ma se siamo solo a metà percorso è necessario fermarsi, rimetterlo in prova. Per questo in ogni piazza proviamo e riproviamo, perché cambia lo spazio, cambiano le condizione e non solo dal punto di vista tecnico».
In questa tensione di essere in prova c'è anche la sua vocazione di maestro?
«Maestro... boh. – dice ridendo -. C'è stato il periodo in cui lavoravo con i miei coetanei, eravamo fratelli, c'erano scontri durissimi, ma anche la consapevolezza che condividevamo alla pari una medesima esperienza e idea di teatro. Poi c'è stato un momento in cui il mio ruolo con gli attori era una sorta di relazione fra un padre e i suoi figli. E in questo caso a volte gli scontri sono stati feroci e dolorosi, come può accadere fra un padre e un figlio. Ora... beh questi ragazzi sono un po' come dei nipoti e io il loro nonno, a volte un po' burbero, ma pur sempre un nonno. Mi piace comunque lavorare con attori che conosco, anche se dopo l'esperienza del Living Theatre credo che gruppi troppo chiusi non facciano bene al teatro. Quella condizione era soffocante. Lavorare con attori di cui conosci le sensibilità è importante e aiuta, basta un'occhiata e ci si intende, ma innesti nuovi possono portare nuova energia e spunti».
Sta di fatto che la compagnia della Dodicesima notte è una compagnia composta da attori che la seguono da qualche tempo?
«Ci sono alcuni ragazzi dell'Accademia di Roma con cui realizzai il Sogno come lavoro di fine corso, di laurea, diremmo oggi. In quell'occasione mi fu chiesto da regista ospite di aiutare gli studenti a realizzare il loro spettacolo di fine percorso. Non so perché accettai, scelsi di fare il Sogno di Shakespeare. Poi pian piano quel lavoro di fine corso è diventato uno spettacolo che ha girato, abbiamo cominciato a fare sul serio».
A tal punto da coinvolgere Nicola Piovani, che fra l'altro compone le musiche anche della Dodicesima notte?
«Con Nicola ci conosciamo da tanto tempo, non sempre abbiamo lavorato insieme. Quando stavo provando il Sogno con i ragazzi dell'Accademia ho messo in mano loro una chitarra e abbiamo cominciato a improvvisare. Poi quelle canzoni e musiche necessitavano di trovare una loro completezza e allora ho pensato a Nicola Piovani, l'ho chiamato chiedendogli se voleva darci qualche suggerimento. E così è stato. Poi per la Dodicesima notte abbiamo lavorato insieme, lo imponeva il testo in cui la musica è protagonista fin dalla prima battuta di Orsino. La musica di Piovani, eseguita dal vero, equivale a un personaggio della pièce».
Ma cosa la spinge a fare un testo piuttosto che un altro?
«Dipende dalle volte. Per esempio con la Dodicesima notte la proposta è venuta dall'Estate Veronese che chiedeva di mettere in scena un testo di Shakespeare. Io ho proposto La dodicesima notte, né più né meno. Ci sono state volte che ho fortemente voluto alcuni testi, l'ultimo caso è stato certo Serata a Colono di Elsa Morante, ma una decisione mia e fortemente voluta è stato mettere in scena il Claus Peymann di Bernhard, oppure Ritter, Dene, Voss, solo per fare alcuni esempi. Ci sono testi che senti di dover mettere in scena perché urgenti, altri che sono il frutto di richieste produttive, della necessità di piazzare spettacoli».
C'è un'urgenza nel fare teatro?
«Se con urgenza intende dire un messaggio, citando Majakosvkij dirò che 'io non faccio il postino'. L'urgenza è il teatro stesso, credo che fare teatro si esaurisca nel compierlo con la maggiore consapevolezza possibile, andare in cerca di quella magia che il teatro sa regalare: una festa, un rito, una realtà accresciuta dalla finzione, ma tutto sta all'interno del teatro, un gioco che ha come punti imprescindibili la parola, l'attore e il pubblico».
*La conversazione è avvenuta il 18 febbraio 2015 nell'ambito del ciclo di incontri promossi da Fondazione Teatro Amilcare Ponchielli di Cremona.