IN TOURNÉE CON LA ROYAL NEW ZEALAND BALLET
PER CONOSCERE I MOTIVI DEL LORO SUCCESSO
Devo dire di essere fortunato. Avere la possibilità di essere scorrazzato per oltre trenta giorni in giro, da una città all'altra, in questa sorprendente Nuova Zelanda, abbracciata dall'oceano Pacifico, popolata più da animali- pecore e bovini- che da popolazione, immersa in una natura rigogliosa, generosa di piante, fiori, prati, dicevo, è una vera fortuna vivere da vicino, spalla a spalla, con il Corpo di Ballo del Royal New Zealand Ballet, diretto dall'italiano Francesco Ventriglia, con la presenza di un bel gruppetto di ballerini italiani che, superate le audizioni, sono entrati a far parte della Compagnia.
Averli così vicino, sia nei viaggi con il pullman, sia in areo, cogli tutti gli aspetti più intimi di ciascuno: c'è chi ama giocare con lo skateboard, esibendosi ai colleghi, c'è chi legge immerso in un libro, chi si dedica a cucire le scarpette, chi gioca con l'iPad, chi mangia continuamente patatine, chi dorme alla grande, chi si cura le unghie, chi ciuccia un lecca lecca. Piccoli atti umani, che ci avvicinano sempre più a questi "mostri" del movimento in musica quando sono sulla scena per interpretare due creazioni del grande, abile, malizioso Roland Petit, "Carmen", e "L'Arlésienne" , due spettacoli in vita dal 1949, che non c'è teatro del mondo che non li voglia avere in repertorio.
Ventidue recite, seguite tutte le sere, per nostra curiosità professionale, ma anche per capire la vita e il successo che accompagna questo gruppo che vive solo e sempre di continuo lavoro: viaggi, sistemazione negli alberghi, classi di riscaldamento, recita serale, ritorno alla dimora, dove, (con la complicità dei supermercati, vere isole di rifornimento per le cibarie e soluzione ideale per la sopravvivenza degli interessati) si ritirano per alimentarsi, e magari per dare qualche brivido al corpo, alzando un po' più il braccio per un bel bicchiere di vino, o altri intrugli alcolici; e il rito si riprende al mattino, giorno dopo giorno, salvo quando si replica per due o più giorni, il cammino che abbiamo conosciuto e che vogliamo raccontare.
È vero che queste città visitate, (Christchurch, ancora con le ferite dell'ultimo terremoto; Invercargill, tristemente desolata; Dunedin, palestra di giovani; Blenheim, regno del vino; Rotorua, abitata dal vento e nebbia, però attenta al nostro Leonardo Da Vinci, tanto da dedicarli una bellissima mostra; Palmerston North, città di stile californiano; Wellington, piccola capitale del mondo, di cui Sipario ha parlato molto nel numero attualmente in vendita; Auckland, ambiziosa europea, dove sono arrivati anche gli stilisti italiani) alcune di queste non offrono una grande vita: a volte sembrano città fantasma, ma a mezza sera, all'ora dello spettacolo, escono fuori attempate signore e signori che riempiono i teatri.
Questo Corpo di ballo, pur essendo stabile a Wellington, in parte fa vita da comunità itinerante, avulsa dalla realtà quotidiana, che si autoalimenta dal proprio interno, creando rapporti d'amore, relazioni, e anche matrimoni, e teneri diverbi, incomprensioni tra giovani ballerini e "nonni". Un bene da proteggere, renderlo vivo offrendo loro armonia, consapevolezza del sacrificio che fanno, nell'arco strettissimo della propria esistenza, di carriera di artisti.
Si vivono tra loro in quasi perfetta armonia, dicevo, senza invidie, solo piccoli e innocui contrasti, pur sapendo che uno può avere più chance dell'altro per emergere per bravura, per studio sentito, ma questa "armonia" è dovuta anche alla filosofia della direzione che, pur essendo una compagnia di soli 36 elementi, consente numerose combinazioni di cast, dove un ballerino, per una sera e più, può essere impegnato in un ruolo importante da protagonista nella prima, ma poi torna nella seconda parte dello spettacolo per ballare uno dei tanti nel Corpo di ballo. Commovente.
Si salvano da questa logica di coinvolgimento solo gli ospiti che arrivano, fanno la loro parte e poi ripartono.
E questa tournée per la Nuova Zelanda si ripete ogni anno, per ogni produzione, poiché essendo l'unica Compagnia nazionale, il Ministero paga ogni recita svolta, e l'incasso al botteghino rimane alla Compagnia, che deve arrivare sul posto con tutto il materiale tecnico e di supporto, come lavatrice, ferri da stiro, eccetera, visto che i teatri offerti sono pure scatole vuote, e solo l'accoglienza per il pubblico è a carico del teatro, ma agevolata dalla presenza di anziani pensionati che volontariamente si offrono come maschere di sala che accompagnano gli anziani spettatori al loro rispettivo posto.
Anche qui c'è il problema del ricambio generazionale del pubblico: e la direzione del balletto si opera in tale senso portando eventi, spaccati di balletto nelle scuole, tra i giovani.
E adesso parliamo dello spettacolo che abbiamo ben conosciuto ma lo attendevamo al suo debutto ufficiale nella propria sede di Wellington dove è restato per sette repliche consecutive con un affluenza di pubblico straordinaria.
L'Arlésienne, balletto in un atto, coreografie di Roland Petit, riprese da Luigi Bonino per le parti soliste, e da Gillian Whittingham per le azioni del Corpo di Ballo. Musica, Georges Bizet.
Il balletto, ispirato al racconto di Alphonse Daudet e al dramma teatrale tratto dallo stesso scrittore sei anni dopo, nel 1872, racconta la storia del fidanzamento impossibile di Frédéri con l'amica d'infanzia Vivette. La coppia non arriverà mai al matrimonio a causa dell'ossessione dell'uomo per il ricordo di una donna che turba il nuovo rapporto con Vivette. L'oggetto dell'antica passione è l'Arlésienne, una donna di Arles, con cui un tempo Frédéri ha avuto un breve incontro e alla quale ha dovuto rinunciare avendone appreso i trascorsi poco limpidi. Egli ha cercato di dimenticare la ragazza, sforzandosi di innamorarsi di Vivette; addirittura si è fidanzato con lei, tuttavia non riesce a dimenticare la vecchia passione.
Questo è l'antefatto che, nel balletto narrativo, non è raccontato in modo esplicito; il lavoro, infatti, si svolge interamente nella sola giornata della festa di sant'Eligio, nelle ore decisive per il rapporto dei due fidanzati, in una crisi ormai irreversibile destinata a risolversi con un drammatico epilogo. L'antefatto sostanzialmente emerge dal racconto delle difficoltà di questa relazione, dal contrasto tra la gaiezza degli amici della coppia, che si godono la festa scatenandosi in una farandola nella piazza del paese, e la tristezza dei fidanzati, totalmente assorbiti dai dolcissimi tentativi di Vivette di farsi amare da Frédéri, dall'impegno dell'uomo per riuscire ad assecondarla, ma anche dal suo rifiuto della nuova fidanzata allorché il ricordo dell'Arlesiana si fa ossessivo. Come nel testo di Daudet, l'Arlesiana non appare mai, ma la sua presenza è tangibile, grava sulla sorte della coppia, è l'elemento che scatena il dramma di questo rapporto impossibile, concluso col suicidio di Frédéri, che si lancia dalla finestra del granaio.
Il balletto si giova di un'efficace e sobria scena di René Allio, simile ad un paesaggio di Van Gogh, che lascerà il posto a una scatola nera e, poi, alla stilizzazione della sola finestra da cui si butterà Frédéri. I costumi di Christine Laurent rimandano al folklore provenzale: bianchi, neri. Da un lato Petit si ispira al folklore affidando a otto coppie il compito di rappresentare una folla contadina divisa tra l'allegria per la festa e il desiderio di aiutare i due compaesani a risolvere le loro incomprensioni. Per i due fidanzati Petit usa un linguaggio accademico, punteggiato da inconsueta gestualità, ma soprattutto introduce contatti fisici del tutto inediti.
Nel ruolo principale di Frédéri si sono alternati nel diverse repliche: Shaun James Kelly, Massimo Margaria e Nicolai Gorodiskii, e ognuno ha lasciato una personale traccia: Shaun James Kelly, più sobrio, nobile ma intenso; Massimo Margaria, più onirico, partecipato, sofferto, in trans; Nicolai Gorodiskii più estroverso, quasi plateale, ma vigoroso nell'interpretazione.
Nel ruolo di Vivette abbiamo ammirato sia Madeleine Graham, sia Katie Hurst-Saxton, efficaci e puntuali nel dettato coreografico.
Carmen, balletto in cinque quadri, coreografie di Roland Petit, riprese da Luigi Bonino per i solisti, e da Gillian Whittingham per il Corpo di Ballo; musiche, George Bizet.
Il balletto si ispira sia al racconto di Merimée (1845) che all'opera lirica di Bizet (1875). La storia è nota ma è mirabile come Roland Petit sia riuscito a condensarla in cinque quadri, essenziali, con un taglio scenico che rivela l'abilità drammaturgica del coreografo in un'opera che ancora oggi rimane fra le più raffinate che siano uscite dalla sua immaginazione e dalla sua sensibilità.
Il primo quadro ci porta davanti alla fabbrica di sigarette dove scoppia una lite fra Carmen e un'altra donna. Dapprima tutti incitano divertiti le due rivali, poi chiedono l'intervento di Don José per sedare la rissa. Egli arriva ed è subito "rapito" da Carmen che scappa via, con l'aiuto di un complice che sgambetta Don José. Egli allora si fa indicare la strada presa da Carmen dagli altri.
Nel secondo quadro, Don José raggiunge Carmen in una taverna. Entrambe ballano un assolo e scoppia l'amore, in un'atmosfera di passione e festoso delirio di tutti gli occupanti della taverna.
Nel terzo quadro, siamo nella sua camera letto, Carmen stuzzica Don José: all'inizio rifiutandosi, attende che la passione dell'innamorato sia al culmine per concedersi. Ancora in preda all'euforia amorosa, Carmen convince Don José ad unirsi a lei e ai suoi complici per compiere un crimine.
Nel quarto quadro, all'ombra di un carro agricolo, Carmen e i suoi banditi spiegano a Don José, non del tutto convinto, come comportarsi nell'occasione. Arriva un uomo con una borsa piena di preziosi e Don José viene mandato avanti: con un coltello compie un omicidio per amore di Carmen, già intenta coi suoi a raccogliere il bottino e a fuggire via.
Nell'ultimo quadro, abbandonato ma ancora innamorato Don José trova Carmen fuori della corrida: ella ha già conquistato il torero, e correrebbe via con lui se non venisse bloccata dal suo antico amore. Nella lite che scoppia Carmen finirà per perdere la vita dalle stesse mani di Don José, ancora con lo stesso coltello e con la stessa disperazione dell'omicidio.
Nel ruolo di Carmen, si sono alternate Natascha Kusch, ospite, e Mayu Tanigaito della Compagnia. Se pur entrambe lontane dall'immagine che si ha di Carmen, prototipo consolidato nell'immaginario collettivo, a loro modo le sue ballerine hanno consegnato allo spettacolo due singolari Carmen: la prima più sinuosa ed eroticamente più accattivante, la seconda più precisa e convincente nell'esecuzione della coreografia. Comunque, sono piaciute ed applaudite entrambi.
Nel ruolo di Don Jose si sono alternati Joseph Skelton, Daniel Gaudiello, Kohei Iwamoto e Alexandre Ferreira e tutti si sono distinti tra loro per caratteristiche diverse: Joseph Skelton, bello e ossequioso è mancato di grinta, mentre Daniel Gaudiello, ospite, ha conferito più partecipazione emotiva; anche Kohei Iwamoto, per il terzo cast, ha mostrato capacità per sostenere il ruolo; così con forza ed energia c'è l'ha mostrato Alexandre Ferreira.
Apprezzati i banditi di Filippo Valmorbida in coppia con Massimo Margaria, dando vita a due tipi ben caratterizzati. Nel ruolo del Toreador, Paul Mathews, Jacob Chown e Alexandre Ferreira hanno avuto i loro apprezzamenti.
Tutta la coreografia di Petit è dominata da un grottesco figurativo, e contrappuntata da una sottile ironia verso tutta la storia che si conclude con la morte di Carmen.
Del pubblico si è detto: sempre numeroso, plaudente e caloroso. Convinto.