Dopo due estati di spettacoli adattati alle esigenze della pandemia, sia in termini di fruizione da parte del pubblico che di tipologia di spettacoli da proporre, con i festival di questa estate le rappresentazioni all'aperto tornano a essere quelle cui eravamo abituati fino al 2019: prive di restrizioni, con un pubblico felice di poter assistere allo spettacolo da una platea senza sedie vuote e gli interpreti che sul palco possono muoversi liberamente e interagire tra loro senza distanze da rispettare.
Superati con brillantezza i 3/4 di secolo senza mai prendersi un'estate di pausa, la Festa del Teatro di San Miniato, giunta quest'anno alla sua LXXVI edizione, ha portato in scena dal 18 al 24 luglio il suo spettacolo di punta: "Irma Kohn è stata qui", una pièce tratta dall'omonimo romanzo di Matteo Corradini, per la regia di Pablo Solari.
In scena un palco semivuoto, se non per una scrivania e una struttura in metallo che funge, di volta in volta, da macchina per la pioggia, panchina, elemento di separazione tra platea e proscenio. Qui prende corpo una vicenda che inizia il primo giorno della primavera del 1945 a Königsberg, città affacciata sul Baltico che ha dato i natali a Kant e che oggi costituisce il capoluogo di un'enclave russa con il nome di Kaliningrad. E' la storia di una ragazza ebrea di 16 anni, Irma Kohn, unica componente della famiglia che è riuscita a salvarsi dal rastrellamento: per nasconderla una partigiana la conduce all'interno del bordello cittadino, ultimo luogo, in teoria, in cui cercare una fuggiasca; di un musicista dell'orchestra cittadina, Kacinski, che è stato incaricato dai nazisti di compilare le liste degli ebrei da rastrellare e accetta questo incarico nella speranza di poter sopravvivere e riuscire a salvare qualche componente della sua comunità; e di un ufficiale dell'esercito tedesco, Wolf, consapevole che i russi stanno per invadere la città ma ugualmente convinto di dover portare a termine il proprio dovere e trovare tutti gli ebrei presenti sulla lista affidata a Kacinski.
La maggior parte della vicenda è ambientata nelle stanze del bordello, una zona franca dove l'illusione di relazioni umane non mediate da canne di fucili o minacce di morte continua a sopravvivere, almeno nella convinzione delle tre donne che ci lavorano. A esse si unisce Irma, che verrà ribattezzata Petra e resterà nascosta fino a quando i sospetti dei frequentatori inizieranno a diventare pesanti. Nel pieno della sua adolescenza, Irma stenta a comprendere ciò che accade attorno a lei. I personaggi che le fanno da corona - per proteggerla o provare a catturarla - raccontano di sé e dei propri desideri come se il nemico non fosse alle porte e tutto potesse continuare come prima. Il senso di precarietà, pur incombente, non si respira tanto nello sviluppo degli avvenimenti, quanto nell'espressione dei ruoli che ciascuno si è ritagliato e che continuano a offrire coordinate necessarie a non perdersi del tutto. I dialoghi sussurrati o urlati, in rima o cantati, percorrono una diversità di linguaggi che stentano a trovare un terreno comune. Ciascuno parla agli altri ma soprattutto a se stesso, esprimendo con le modalità che la guerra gli ha lasciato in dote le sue paure e cercando in questo spazio di confine, terrestre ma anche temporale, un senso che gli permetta di continuare a procedere nel proprio percorso. Forse solo la salvezza o la cattura di Irma, perseguite entrambe con convinzione dai protagonisti, riescono a dirigere pensieri e speranze, comportamenti e sogni, in un momento in cui tutto può cambiare.
Pensato per essere portato in scena nel 2020, ma per l'impossibilità di allestirlo rimandato di due anni, lo spettacolo debutta in un momento particolare in cui una guerra inaspettata e assurda sta scavando una traccia indelebile nel cuore dell'Europa. Come in altre circostanze, l'Istituto Dramma Popolare ha invitato l'autore di un testo, selezionato per la sua capacità di suscitare riflessioni di grande attualità, a portarlo in scena. Ne è emersa una vicenda a più piani di lettura, dove il bisogno di sopravvivere e quello di salvarsi tentano di coniugarsi attraverso scelte difficili e controverse, in cui il senso di colpa e il bisogno di condanna appaiono un corollario inestinguibile. Le soluzioni della regia (dai dialoghi alle presenze mute alla funzione del coro) denotano una creatività artistica non comune, garantiscono un ritmo intenso e riflessioni costanti, tuttavia non sempre riescono a combinarsi in un’armonia d'insieme, lasciando talora l'impressione di un polittico elegante ma frammentato, malgrado l'intensità che ciascun interprete offre al proprio personaggio.
Anche il Teatro Povero di Monticchiello, passata l'emergenza pandemica, ha riportato nella sua Piazza della Commenda il pubblico che era abituato a riempirla nelle edizioni passate. Lo ha fatto con "Ultima chiamata", spettacolo che - come da tradizione - è stato ideato, scritto e interpretato dagli abitanti di questo piccolo borgo della Val d'Orcia ed è andato in scena dal 30 luglio al 14 agosto. L'autodramma, così lo definì con felice sintesi Giorgio Strehler negli anni Settanta, ha da sempre accompagnato una riflessione corale sull'identità del borgo e sulla sua relazione con la modernità: dai postumi della guerra alla ricostruzione, dall'epopea contadina ai bed & breakfast, dal diradarsi dei servizi pubblici alla necessità di rimboccarsi le maniche senza contare su aiuti esterni, ogni anno veniva regalato al pubblico uno psicodramma collettivo fatto di pensieri a voce alta, possibili soluzioni, ricordi del passato e speranze per il futuro. Andrea Cresti, per quasi 40 anni motore del progetto e custode della tradizione scenica, ci ha lasciati un anno fa, e in occasione di questa nuova edizione gli è stato intitolato il teatro ospitato all'interno di una chiesa sconsacrata.
Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli, che ne hanno raccolto l'eredità artistica, anno dopo anno si stanno cimentando nella difficile missione di proseguire lungo il solco tracciato, svecchiando però al contempo la dimensione drammaturgica e trovando nuova linfa nelle generazioni di monitcchiellesi più giovani. In passato infatti era palpabile la sensazione che il peso dell'operazione gravasse soprattutto sulle spalle degli interpreti storici, e che talvolta lo sviluppo drammaturgico seguisse strade tortuose, che non sempre riuscivano a valorizzare appieno il lavoro di messa in scena.
Quest'anno la partecipazione di molti giovani, unita a un plot comprensibile e capace di offrire molteplici spunti di riflessione, hanno permesso alla rappresentazione di parlare davvero a tutti: ai più anziani, rivivendo i fatti d'Ungheria del '56, con l'invasione dei carri armati sovietici e le ripercussioni che la vicenda aveva avuto sulla politica locale. E ai più giovani, con una carrellata di vicende che, prendendo le mosse da quell'anno, si sono succedute nel tempo sotto i nostri occhi: il muro di Berlino, i carri armati in Piazza Tien'anmen, le Torri Gemelle, il G8 di Genova, le bare portate via di notte dalla città di Bergamo, i bombardamenti in Ucraina. Ma anche i Beatles, l'uomo sulla luna, Zoff che alza al cielo la Coppa del Mondo, Gorbaciov e i cortei a favore dell'aborto.
Date simboliche che hanno riempito le nostre vite e che oggi osserviamo come figlie di un passato ormai lontano. Ma cosa accadde quando, con l'unico telefono presente a Monticchiello e ubicato nella Casa del Popolo, arrivò la notizia dell'invasione di Budapest? Come si schierarono i compagni d'allora? Sbagliavano, erano fedeli alla linea, si ponevano il problema? E il loro contraltare, la DC, che trovava posti di lavoro pubblici ai propri elettori e occupava ruoli di rilievo all'interno delle amministrazioni nazionali, come viveva questa invasione quasi ai confini di casa?
Con intuizione felicissima sono le donne a raccontare la storia con i loro occhi. Donne lasciate ai margini, nelle cucine e nella cura di figli e anziani, dal maschio che torna dai campi e si sente il solo degno interlocutore nell'agone politico. Donne come Rosa, che riceve casualmente la telefonata dalla sede romana del PCI, e risponde che le donne vogliono la terra, e non la guerra. Donne come Giada, la nipote, che ritrova in una valigia della nonna tutti i drappi che le donne volevano cucire assieme in nome della pace. Donne che, insieme, hanno fatto in pochi anni quei passi che le loro nonne nemmeno potevano immaginare, e che si scontrano con un uomo sempre più violento e sempre più insidiato nel proprio ruolo di dominus all'interno della famiglia.
La scena è bianca e accogliente, costruita come sempre nella parte bassa della piazza, a formare con il palco una sorta di antiteatro naturale, ed occupata da sgabelli su cui le donne si siedono e parlano tra loro; sul fondale un sipario, dietro il quale un bambino, come un irriverente Padre della Patria, raccomanda agli italiani i comportamenti più virtuosi, necessari perché la guerra e il conseguente blocco delle merci e delle risorse, richiede di convertirsi a nuove modalità di consumo.
La traiettoria ellittica, i richiami tra passato e presente, il confronto tra uomini e donne, ma anche tra giovani e anziani, sono il sale dello spettacolo: come se solo nel dialogo, nel confronto, nell'ascolto, come già aveva intuito Platone 25 secoli fa, fosse possibile trovare una risposta alle grandi domande dell'esistenza.
Anche in questa edizione Monticchiello non ha tradito i suoi fedelissimi spettatori. In più, ha lasciato intravedere una porzione di futuro, sia nelle persone che nelle idee e nelle espressioni da queste veicolate, che ci ha consentito di tornare a casa con la sensazione che ancora per molti anni ci saranno storie da condividere davanti a un palco della Val d'Orcia in una notte d'estate.
Mauro Martinelli