IL MIO NOME È...
di Giuseppe Raineri
Non odio chi mi ha fatto del male. Non potrei nemmeno se lo volessi.
Mi hanno rubato gli occhi, la pelle, il cuore, la vita, con una ferocia che non è di bestie, non è di uomini.
Ho scelto di vivere da persona, non da uomo, non da donna.
Poche ore di dolore, di un dolore acuto, disumano, intenso, inimmaginabile, hanno fatto di me qualcosa di speciale, di indimenticabile.
Quando mi è stata inflitta una condanna ingiusta e mi è toccata una morte ignominiosa, ho gridato, ho avuto paura, ho dubitato.
La verità non ha un prezzo, vale più della mia stessa vita, più della vita di noi tutti messi insieme.
Non mi aspetto né mi auguro che tocchi in sorte anche a voi quello che è capitato a me.
Ho camminato in mezzo a voi tutti i giorni, mi avete osannato, ammirato, portato in trionfo per la mia sapienza, la mia saggezza, perfino quando ho rimproverato, denunciato senza pudore e senza reticenze le debolezze, le piccinerie, le incoerenze degli uomini.
Ho parlato di verità e di tolleranza per sconfiggere l’ignoranza.
Quando ho avuto bisogno di aiuto, non c’era più nessuno. Nessuno che sapesse portarmi conforto; ho dovuto assaporare il gusto amaro della solitudine, della sconfitta, dell’indifferenza.
Il potere e chi lo regge ha addotto la giustificazione di difendere, di salvaguardare il benessere e gli equilibri della società, ma hanno mentito nascondendo la verità e si sono macchiati di mancanze ben più gravi dell’ingiusta condanna e del martirio di un singolo.
Tutti gli altri dove si erano nascosti? Paura, codardia e omertà si sono trasformate in silenziosa complicità. Perché hanno taciuto? Il silenzio, il distogliere lo sguardo sono stati la condanna peggiore.
Che cosa volete che me ne faccia della memoria nei secoli, dei dibattiti, delle parole che verranno spese per condannare i miei carnefici, per fare emergere la verità o piuttosto camuffarla, piegarla alla convenienza del momento?
Quello che vedo con profonda amarezza è che non avete tratto nessun insegnamento da quello che mi è stato fatto; non sono serviti di lezione, uno, mille martirii.
Quale progresso sarà mai possibile se la bellezza dell’universo e delle leggi che lo governano non prevarrà su una natura umana sottomessa alla grettezza e all’ignoranza?
I miei assassini non mi hanno rubato solamente la vita, ma anche e soprattutto mi hanno defraudato della mia natura, di ciò che ero e sono veramente: una persona a servizio della verità e non di una parte dell’umanità contro o a favore di un’altra.
Rimane di me il ricordo dell’affronto, della violenza subita, poco degli insegnamenti, poco della parola, svuotati della loro essenza ed in nome di cause a me estranee.
Questo è ciò che non posso perdonare loro, sottomessi a giochi di potere, alla stupidità ed al pregiudizio che gli si rivolterà contro e contro l’intera umanità.
Gli sono stati padri e figli tutti quelli che hanno ripetuto lo stesso crimine nella storia, prima e dopo.
La violenza, l’odio instillati dall’ignoranza non possono trovare giustificazioni in nessun contesto storico: sono inutili e un banale segno della follia e della disumanità.
La conoscenza è vita e combatte i pregiudizi, la falsità.
Se il sapere è destinato a crescere e arricchirsi con il tempo, la natura dell’uomo no, quella rimarrà ancorata ai bisogni e all’obbligo di sopravvivere e per salvare sé stessa si perderà. Questo feroce attaccamento alla vita ad ogni costo renderà immutabilmente gli uomini ciechi, sordi e questo istinto primitivo renderà vano ogni progresso.
Non accusatemi di insensibilità, e come potrei proprio io che ho sofferto dolori atroci, se più della scomparsa di persone, piango la perdita immensa del pensiero, l’unica cosa che sopravvive alla morte, alla caducità dei corpi.
Il mio nome è Ipazia, cittadina di Alessandria d’Egitto, figlia di Teone, ultimo direttore del Museo, andato perduto con l’intera biblioteca e il Serapeo era la mia casa.