GOLDEN HOUR
di Andrea Milano
La corsa forsennata nella calura tremula. Le scapole bambine che spaccano la pelle ad ogni spinta. Le spalle di Lu arse dal sole mentre scatta in testa al gruppo come uno sparviero.
E io mi chiedo come possa la zavorra che ha dentro renderlo così leggero, come riesca a impennare la ruota anteriore a ogni colpo che dà sul pedale destro, come reggano le sue scarpe strappate, come facciano i lacci a non finirgli tra i raggi e catapultarlo in avanti, schiantandolo sull’asfalto caldo delle nostre strade.
Lo immagino a terra e prendo una buca. Il manubrio mi scappa dalle mani e la ruota anteriore s’avvita su se stessa. La bici e il mio piccolo corpo si sollevano in aria e sbattono a terra in una caduta tremenda. Manca poco alla fine della giornata. Alzo gli occhi in tempo per vederlo arrivare al traguardo.
Avevamo tutti le scarpe nuove, il giorno del funerale di suo padre.
Sui gradini della chiesa partì una sfida a chi riusciva a sputare più lontano.
I più scarsi s’infradiciarono tutto il papillon.
Lanciai un’occhiata alle nostre madri che, tutte in gruppo, parlavano a bassa voce guardando verso di lui. Indossava un abito bellissimo, una camicia bianca come un dente e una giacca nera. Era tutto pettinato, con la riga al centro. Quando iniziò la messa, dalla manica bianca spuntava solo il nero delle sue unghie sporche di grasso che grattavano sulla panca accanto alla nostra.
Lu compie un giro verso il resto del branco per sbatterci in faccia il suo sguardo da criminale. Salta giù dalla bici, lasciandola sfracellare a terra. Col sole che gli abbraccia le spalle, vedo la sua sagoma saltare, tirare calci al vento, sollevare la polvere in un turbine di esultanza e di gioia. Il suo trionfo ci riempie la bocca di terra e sudore. Lu guarda verso di me, ne sono sicuro anche se non lo vedo, schiantato com’è contro il sole, mi punta mentre faccio perno sulle ginocchia sanguinanti per potermi rialzare e arrivare subito dopo di lui. Ha tutto il tempo di recuperare la bici. Ci ha staccati tanto da doverci inventare una scusa, una giustificazione assurda per la nostra vergogna. Qualcuno chiede di annullare la gara e ricominciare, partendo dai vasi vicino alla palma, ma ormai si accendono i primi lampioni. Le madri svettano dalle finestre e ognuno saluta, chi dando appuntamento per il mattino successivo, chi girando le spalle pieno di rancore.
Lu resta lì, dove la luce dei lampioni si confonde con quella dell’estate. Lo guardo dal balcone che capovolge la bicicletta e fa andare a vuoto la ruota, rabbiosamente. Dà un colpo sui pedali e la catena sbalza fuori dalla corona, mio padre mi chiama a tavola, ma la ruota continua imperterrita, la ruota vortica e sibila nel quartiere deserto, mia madre fa a piccoli pezzi la carne bianca, Lu armeggia sul telaio, mi guardo le ginocchia e penso che domani lo batterò, questo è certo, domani lo batterò e se non lo batterò domani ho ancora tutta l’estate, sì. Addento la carne.
Le sue dita, nel cielo luminoso, diventano sempre più nere di grasso.