Alla Biennale Teatro c'è fame di storie
È partito il Terzo atto: drammaturgie. Di scena la parola che fa mondo
di Nicola Arrigoni
Atto terzo: drammaturgie. Antonio Latella prosegue il suo percorso in Biennale Teatro all'interno della semantica della scena, degli elementi costitutivi del rito teatrale. E così dopo l'edizione dedicata alla regia e quella all'attore performer, ora tocca alla drammaturgia, o meglio alle drammaturgie. Piace rubare il riferimento etimologico che Latella – in apertura di catalogo del 47° festival – mette in evidenza: la derivazione del termine drammaturgia dal verbo greco drao che significa agire. Col rischio di ripetersi quello che nei primi giorni di festival emerge è la potenza dell'azione, ma anche la capacità della parola di fare mondi, di costruire racconti. Ma si dirà di più: a fare drammaturgia non sono solo le parole, ma sono spesso gli oggetti, l'azione che si compie in scena, la parola incarnata dall'attore o il racconto sotteso alla costruzione e metamorfosi dello spazio scenico. Per questo drammaturgia è declinata al plurale. L'esperienza di Biennale College rende la frequentazione della semantica teatrale una incredibile movimento carico di energia con il coinvolgimento di centinaia di ragazzi chiamati a fare teatro e a scrivere teatro. Nel caso del college autori: 20 giovani drammaturghi selezionati su 181, dei 20 che nel 2018 hanno partecipato alla masterclass con Linda Dalisi e Letizia Russo sul bacio. A soli undici autori di questi venti è stato dato un tema da sviluppare: lampadario. Caroline Baglioni, Pier Lorenzo Pisano, Dario Postiglione sono i tre autori selezionati di cui nei primi giorni di festival sono stati letti i tre testi in una sala delle Colonne di Palazzo Giustinian brulicante di ragazzi. Piace l'idea che Latella nell'aprire il trittico di testi selezionati e affidati a letture sceniche mattutine abbia sottolineato: «Mi interessava che i testi fuoriusciti dalla selezione grazie alla collaborazione con Linda Dalisi e Letizia Russo, venissero presentati ai ragazzi liberi da ogni intermediazione registica, da ogni pensiero interpretativo, mi piaceva l'idea che le parole e le storie risuonassero nel loro essere verbo, drammaturgia, ovvero storie che ci spingono ad agire sia come artisti che come spettatori. Ma in questa sede mi sembrava importante cogliere insieme il suono, il portato semantico dei testi nella loro assolutezza di racconto». E detta così da un regista dalla forte impronta autorale fa un po' specie. L'iconoclasta Latella non smette di frequentare con coerenza il suo pensiero artistico in cui la parola appare sempre più centrale. Latella è il regista che smonta i testi e li ricompone, il regista che chiede agli attori di prendersi cura delle sue opere – è accaduto con il Servitore dei due padroni -, l'attore Antonio Latella che sa cosa vuol dire calcare la scena e conosce le fragilità dell'attore. In questa edizione alle prime battute si avverte una consapevolezza: nella costruzione di un testo, nella sua lettura, interpretazione, trasformazione in azione scenica si avverte la lezione di Massimo Castri, la volontà di ascoltare, interrogare, forzare, agire i testi e i racconti. Per questo Latella è un classico, per questo la sua Biennale esprime così bene la voglia di fare del teatro una comunità in dialogo, di sostenere col teatro la creatività dei giovani, dare loro voce non soltanto perché giovani, ma perché pieni di talento ed entusiasmo, pronti a mettersi in gioco nel confronto e a seguire le indicazioni del loro maestro e mentore, una presenza costante, silenziosa, discreta e sorridente che se li guarda, se li coccola, li striglia quando c'è bisogno, ma soprattutto condivide con loro la passione del teatro che dice e sa dialogare.
Tutto ciò per Antonio Latella si compie tanto nella costruzione del festival, quanto nella sezione – che è cuore della stessa Biennale – dedicata ai ragazzi, sezione college che nel 2020 vedrà fondersi la parte drammaturgica con quella registica, per la messinscena del testo prescelto. È questa forza della parola che agisce e spinge ad agire che sta caratterizzando l'avvio del festival, fin con il conferimento del Leone d'Argento all'olandese Jetse Batelaan di cui al Goldoni è andato in scena The story of the story, spettacolo di teatro ragazzi, rivolto in Olanda ai bimbi dagli otto anni in su, un modo di intendere il teatro ragazzi insolito e inedito per la nostra tradizione. Nel consegnare il Leone d'argento al regista olandese – del tutto sconosciuto in Italia – il presidente della Biennale, Paolo Baratta ha sottolineato la coerenza di questa scelta con un passato remoto in cui il teatro ragazzi aveva avuto cittadinanza all'interno di Biennale, una tradizione recuperata nel segno della pluralità dei racconti. «Mi piace l'idea di iniziare con uno spettacolo che mette in scena la necessità di raccontare una storia in una modalità che non è usuale per il teatro ragazzi, almeno in Italia – ha affermato a margine della cerimonia, Antonio Latella -. Ho voluto anche evidenziare come oggi sia più che mai necessario abituare i ragazzi e non solo loro a concedersi delle narrazioni e a leggere ciò che accade in maniera attiva e creativa».
In questo senso The story of the story esemplifica questa volontà e pone al centro l'atto del narrare in un mondo distrutto, primitivo e caotico. Sulla scena si muovono uomini primitivi post-moderni che con materiali di risulta costruiscono una nuova civiltà, esemplificano uno stato iniziale delle cose, tracciano una nuova parabola aurorale dell'umanità. Essi sono parte della storia e Storia essi stessi. La storia con la S maiuscola, ovvero quel racconto che ci posiziona nello spazio e nel tempo del mondo. A questa presenza di una rinascente umanità un po' buffa e inetta si appone l'ingresso di tre grandi sagome: quella del calciatore Ronaldo, del presidente Trump e della cantante Beyoncé, rispettivamente figlio, papà e mamma di una famigliola molto pop e un po' trash. In questa famiglia di famosi c'è la pretesa che la storia coincida con la loro storia, con quello che fanno e dicono, ancora di più: sono storia semplicemente per il fatto di essere. Ma a mettere in crisi questo narrarsi autoreferenziato e narcisistico è il piccolo di casa che chiede disperatamente di avere, di incontrare una storia altra, mentre il papà Trump vede in lui solo il futuro Messi e mamma Beyoncé finisce col flirtare con Kim Jong-un. The Story of the story è una parabola sul narrare storie e far parte della storia, è un gioco a tratti spiazzante che mostra la finzione del teatro, pone al centro la storia intesa sia come racconto che come necessità di elaborare una narrazione che ci comprenda. In questo comprenderci c'è la vacuità e banalità delle tre figure di vip che vivono di una bidimensionalità soffocante, intorno a loro si muovono gli uomini/nuovi che costruiscono una realtà sulle rimanenze di una civiltà forse consumata e passata. Da un lato ci sono gli uomini della nuova humanitas che recuperano i segni delle culture tribali, del mito, della religione come grandi scenari di un mondo raccontato, dall'altro c'è la famiglia vip che crede bastante raccontare la storia di sé, in un continuo riflettersi in un'angoscia che non dà spazio e prospettiva. In questo doppio registro The story of the story è un racconto esso stesso della nostra incapacità di narrarci storie che ci consolino o rassicurino. E allora il pianto, la ricerca della storia che non c'è di Ronaldo, figlio di Trump e Beyoncè, vuole essere, forse, anche un po' il nostro bisogno e il nostro rimpianto di epiche ormai inattuabili e inattuali.
La Storia come traccia tematica la si ritrova anche in Mauser di Heiner Müller, nella riscrittura registica di Oliver Frljic. Anche in questo caso l'aspetto narrativo si intreccia con quello metanarrativo, in un teatro di grande potenza fisica e icastica che mette a nudo la cecità della violenza rivoluzionaria, i meccanismi dell'annientamento del sé in un contesto di totalizzante indottrinamento ideologico. Heiner Müller – il cui ritratto campeggia sul fondale della scena – con Mauser «affronta il tema della rivoluzione che inizia a divorare i suoi propri figli. Si domanda per cosa oggi siamo pronti ad uccidere e, ancora di più, per cosa siamo disposti a morire», scrive il regista bosniaco che vive in Croazia, ma è costretto a lavorare in Germania. Mauser è un lavoro di grande fisicità in cui l'accecamento e l'annichilimento ideologici/rivoluzionari portano ad un crescendo di violenza, in una ritualità della sopraffazione che si traduce nella corporeità oltraggiata dei giovani interpreti: Franz Pätzold, Götz Schulte, Marcel Heuperman, Nora Buzalka, Christian Erdt. Mauser è una riflessione sulla violenza e l'annullamento del singolo, sacrificato alla causa rivoluzionaria che acceca e fa perdere la consapevolezza dell'altro, ma è anche sul finale una riflessione sul ruolo dell'intellettuale, su Heiner Müller e la sua posizione eterodossa nei confronti della Repubblica Democratica Tedesca il cui busto di ghiaccio vene fatto a pezzi e poi usato per un buon whisky on the rocks... Quasi a significare un ruolo disciolto dell'intellettuale nei confronti della realtà. Ancora una volta la narrazione della violenza rivoluzionaria che acceca e trasforma il singolo in oppressore dell'altro nel segno di un bene comune che annienta si intreccia con la necessità di decostruire il narrato per fare emergere il punto di vista dell'autore e in un certo qual modo metterlo in crisi, trasformando l'icona incombente di Heiner Müller in un busto di ghiaccio da distruggere e utilizzare sciolto per un buon drink. In questo c'è forse una concessione eccessiva al disvelamento di matrice brechtiana che arriva tanto repentina e inattesa dal mettere in crisi e in ombra quanto detto e fatto prima. E alla fine l'applauso del pubblico non può che essere lungo e caloroso per un lavoro carico di suggestione e di pensiero. Un inizio Biennale interessante e molto densa che conferma come la direzione di Antonio Latella cerchi nella coerenza delle proposte non solo una poetica, ma anche una politica dell'agire teatrale.