coreografia e regia: Constanza Macras
drammaturgia: Carmen Mehnert
costumi: Gilvan Coelho de Oliveira
disegno luci: Mark Howett
suono: Stephan Wöhrmann, video: Lisa Böffgen
Interpreti: parte I: Knut Berger, Jill Emerson, Jared Gradinger, Hyoung-Min Kim
parte II: Nabih Amaraoui, Nir De-Volff, Hyoung-Min Kim, Gail Sharrol Skrela, Tatiana Diara, musicisti: Claus Erbskorn, Sabine Bremer, Almut Lustig
Roma, Auditorium della musica, 30 e 31 marzo 2007
Nell’universo magicamente caotico di Constanza Macras
«La memoria è fragile, la spazzatura dura per sempre». Con questa frase, riconducibile al suo spettacolo culto Back to the Present (2003), Constanza Macras accoglie i visitatori del sito ufficiale di Dorky Park, la compagnia fondata dalla coreografa argentina a Berlino, città che l’ha accolta nel 1995, dopo gli studi di danza e fashion design a Buenos Aires e i soggiorni di studio/lavoro a New York e Amsterdam.
Nel ribadire la tesi di quello spettacolo – ogni cosa finisce in spazzatura e questa è destinata a durare più a lungo di qualsiasi progetto l’abbia originata – Macras introduce immediatamente il lettore/spettatore nel «suo» mondo: un universo caotico, segnato dalla complessità dello scontro tra culture e dall’artificio delle costruzioni di genere. Anche I’m not the Only One, nuova creazione in due capitoli tra loro indipendenti con la quale la coreografa ha incontrato il 30 e il 31 marzo, per il terzo anno consecutivo, il pubblico romano dell’Auditorium Parco della Musica, si posiziona – come le precedenti produzioni del gruppo – in quella terra di mezzo in cui convergono danza, live-music, teatro, video…
Qui, inaugurando una nuova fase del suo percorso creativo, Macras abbandona il consueto impianto corale per affidare ai singoli performer il racconto del proprio, personale sradicamento. Cosa spinge una persona a lasciare la terra natale? E soprattutto, che cos’è la terra natale? Queste le domande da cui prende le mosse lo spettacolo e alle quali rimandano quei momenti che paiono attingere più direttamente al vissuto degli attori-danzatori: l’allontanamento improvviso dalla casa e dal lavoro alla ricerca di una vita più entusiasmante, il ricordo di un cane amato abbandonato alla sua malattia, la lettera di una madre ormai avanti negli anni.
Si tratta solo di una delle componenti messe in campo dalla coreografa argentina, che affolla la scena di molti altri materiali, accostati gli uni agli altri a comporre un magma volutamente privo di una struttura formale riconoscibile. Come in tanti lavori prodotti dalla nuova generazione della danza contemporanea internazionale, di cui Constanza Macras è unanimemente riconosciuta tra le autrici di punta, natura e artificio si autorappresentano in un continuo slittamento di senso.
Così azioni aggressive in stile reality-show ed exploit canori sul genere Mtv si contrappongono a brani più strettamente danzati, come il bel trio costruito in pura tecnica contact o l’autoironico assolo della ragazza «a disagio» nel suo corpo ipersnodabile. In momenti come questi, quando il corpo trova una forma per urlare la sua «semplice» verità, si libera un moto di emozione, altrimenti sacrificata nell’estenuata riproposizione di frammenti difficili da ricondurre a una unità di senso.
Alla fine, restano negli occhi i corpi di tutti gli straordinari interpreti, ugualmente efficaci nel materializzare slanci coreografici e ossessioni interiori, proprie e dell’autrice.
Ada D’Adamo
«I'm not the only one», il nuovo lavoro della coreografa argentina. Un ritratto d'artista come perdita, condizione dolorosa incarnata con sorprendente bravura dalla bionda danzatrice americana Jill Emerson
Roma
Che luogo è questo? Una intelaiatura di legno modella la struttura di quella che potrebbe essere una scenografia in costruzione o forse il suo backstage. Un grande schermo bianco campeggia al centro e da un lato si apre una zona separata, chiusa da una porta e approssimativamente arredata, sommersa dalla confusione, panni per terra, cavi elettrici, bottiglie d'acqua minerale, un televisore sempre acceso. Uno spazio provvisorio, comunque. Uno spazio di prova. Dove i tre interpreti venuti da continenti diversi attendono seduti l'ingresso degli spettatori. Un quarto se ne sta immobile contro una parete nel suo antro reclusorio, reso quasi indistinguibile da una tutina a pois identica alla tappezzeria.
Consacrata a Bordeaux da una «lunga traversata» attraverso il suo repertorio e richiesta da molti teatri europei, coinvolta da Thomas Ostermeier in una messinscena shakespeariana alla prestigiosissima Schaubuehne berlinese ma ancora condannata all'insicurezza produttiva, Costanza Macras è tornata all'Auditorium con le due parti della sua nuova creazione. E torna a esplodere l'immaginario fusion della giovane coreografa argentina, l'eclettica voracità con cui vi si consumano le immagini della nostra quotidianità, il gusto divertito e divertente per le commistioni pasticciate, il suo indisciplinato giocare tra generi, ma anche un severo bisogno etico di «tornare al presente», come suggeriva il titolo del suo primo successo.
I'm not the only one è un ritratto dell'artista come sradicato. La perdita, l'abbandono sono la materia di cui è fatto. Una condizione in cui si riflette evidentemente una parte non trascurabile di umanità. Se nel precedente No Wonder l'artefice aveva scelto di rimettersi in gioco anche fisicamente (e impudicamente) in prima persona, convocando sul palcoscenico un'altra argentina emigrata in Europa, Lisi Estaras, per un corpo a corpo con i fantasmi del loro paese, qui il coinvolgimento personale investe invece gli attori della compagnia Dorky Park. Laddove è inevitabile fare i conti con la memoria del mondo che ci si è lasciati alle spalle, reso concreto e presente dalle immagini filmate che si alternano o si sovrappongono all'azione.
Ecco il ragazzo di Geselkirchen, un tempo zona mineraria e ora paesone senza più identità, che da adolescente ambisce ad essere cool, con indosso le scarpe leopardate che luccicano nel buio, mentre la voce di Kurt Cobain suggerisce una nostalgia d'annata. I cento lavori precari per tirar su qualche cosa, perché alla vita nell'arte che non paga non si vuol rinunciare. La ragazza coreana che sogna un ristorante coreano al posto dell'odiato sushibar.
Una cabina telefonica, in primo piano, è il luogo di comunicazione con il mondo che hanno lasciato. Cosa manca a Clarion? chiede la voce lontana. E ti si para davanti questo Mid West americano alla Fargo, mentre lei, Jill Emerson, fuggita a quel suo destino di reginetta delle mucche e di madre di una sfilza di bambini a cui la si vorrebbe richiamare indietro, insiste «voglio danzare». Volto e corpo in cui un po' si identifica il teatro di Constanza Macras, la bionda danzatrice americana è di una bravura mostruosa. Sa fare tutto. Attraversa la scena con movenze da cheerlady e gioca con le maschere di Star Wars. Si trasforma in cantante country. Oppure duetta con Knut Berger l'esilarante incontro con un ex fidanzatino, ora commesso in una formaggeria che vorrebbe ricondurla a un tempo felicemente dimenticato. E alla fine si abbandona a un solitario passo di danza, la gonna tirata su a coprire il volto, mentre cresce il volume della musica.
Nel teatro di Constanza Macras, la danza è come una via di fuga. Mai un esercizio di stile fine a se stesso. Perché possa svilupparsi, qualcosa deve caricarsi fino a rischiare di esplodere. La danza è ciò che resta dopo che tutto si è consumato. Quando non c'è più nulla da comunicare e bisogna invece esprimere. Lo si vede bene quando finalmente la ragazza penetra nel covo del maniaco, impegnato fin lì in lezioni di spagnolo ed emissioni radiofoniche su come trasformare in positivo il pensiero negativo, scientology o chissà che altro, in mezzo a esercizi estenuanti di autoerotismo. Ed è scontro fisico violento, questa invasione di campo, concluso da un erotico passo a due che si consuma su un tavolino con la ritualità sinuosa di un'arte marziale. Lei lo replicherà da sola, alla fine, quel momento erotico. Nella solitudine del suono di un violino. Al di là ormai della soglia del dolore.
Certo, dopo l'emozione intensa della serata precedente, la seconda parte del lavoro può lasciare confusi. Anche perché la drammaturgia di Carmen Mehnert appare qui più sfilacciata, le singole storie stentano a prendere corpo nei nuovi interpreti (e quanto ci manca Jill Emerson). E il riproporsi dei medesimi temi provoca un effetto di «già detto». La scena ora appare svuotata. È rimasto lo schermo cinematografico, al centro, dove riappare la strada che corre diritta in un paesaggio desertico, ingentilito dalla presenza viva di una donna albero. Sono rimasti i tre musicisti da un lato e soprattutto la giovane coreana Hyoung-Min Kim dall'energia inesausta e la voce stentorea. È rimasta la voglia di giocare con la comicità slapstick, sfruttando il consunto meccanismo delle torte in faccia per rendere il palco una superficie scivolosa di panna e foglie morte che dona alla danza la dimensione aleatoria dei movimenti incontrollati. Ed è proprio lì che colpisce, Macras, con l'emergere spiazzante di una memoria dolorosa. Nel calderone dello spettacolo si mescolano vestiti colorati e odalische ancheggianti, canzoni ebraiche e pop asiatico. «La memoria è fragile, la spazzatura invece rimane sempre» diceva il primo motto della compagnia. E a distanza di tempo la lezione resta valida. Che anche nella spazzatura bisogna cercare il segno di una vita.
Gianni Manzella