da Hamlet di William Shakespeare
danzano Saburo Teshigawara, Rihoko Sato
regia, disegno luci Saburo Teshigawara
collaborazione artistica Rihoko Sato
costumi Saburo Teshigawara, Rihoko Sato
musiche Saburo Teshigawara, prima italiana
al teatro Ponchielli, Cremona, 19 aprile 2024
Ad un certo punto parte potente un Buuu, buuu, ripetuto tre volte. Il Ponchielli, alla prima italiana di Ophelia di Saburo Teshigawara, copre quel dissenso con gli applausi, sostenuti dal buio in sala. Il volto di Rihoko Sato si blocca, Saburo Teshigawara non fa trasparire alcuna reazione. Da qui si crede di dover partire per leggere Ophelia, un lavoro performativo e – si oserebbe dire – installativo che divide e interroga il pubblico. Che cosa ha suscitato il dissenso e cosa il consenso di chi ha applaudito? In primi si crede che a scatenare il rifiuto sia l’inganno narrativo e rappresentativo che implica Ophelia, ovvero la necessità di rintracciare il racconto dell’amore tragico di Ofelia per Amleto. Tutto ciò nel lavoro di Teshigawara è marginale, al coreografo interessa più l’effetto delle azioni che le azioni stesse e dunque ci pone di fronte all’abisso, allo sprofondare senza fine di Ofelia, innamorata di Amleto, ma rifiutata dal principe di Danimarca. Sola nell’oscurità l’Ofelia della performer Rihoko Sato scende negli abissi, si lascia trascinare, se non dalla follia, certo dal dolore dell’abbandono. Non è un caso che la complessa e mai banale partitura musicale/sonora recuperi il suono dell’acqua che scorre, un accenno di temporale, una mosca che ronza insieme a Il matto sul filo di Nino Rota fino alla Première Rhapsodie for clarinet di Claude Debussy. Ma a cosa si assiste? Rihoko Sato è corpo che si muove in balia della follia, è donna che cerca di emergere dall’abisso del dolore e dell’abbandono, è essa stessa fantasma, come lo è la figura del principe Amleto, incarnata da Teshigawara. I due corpi si sfiorano, si abbracciano, ma il più delle volte tutto ciò accade per false prospettive in una scena nera disegnata da luci che sono un dipinto nel buio. Ci sono le nuvole di un minaccioso temporale, c’è l’abbagliante chiaroscuro del riflesso cupo di uno stagno dalle insondate profondità. In tutto ciò la danzatrice performer è corpo che vibra, è donna che con la sua capigliatura grigia racconta di un tempo che passa, ma di un amore e dolore che sono eterni. Inevitabile l’eco nipponica a certe posture della danza Butoh, inevitabile una apparente fredda austerità che cozza contro il ribollire della follia, o forse della voglia di recuperare quell’amore incompiuto. Il nostro sguardo occidentale legge nella gestione dello spazio, nel dialogo dei due corpi eco lontane del mito di Orfeo ed Euridice e perché no, certa illusione fantastica e fiabesca della poco favolosa Alice oltre lo specchio. Ed è l’oltre che caratterizza questa Ophelia, mille e una Ofelia, è l’oltre da sé, l’impossibilità o incapacità di quietarsi dinnanzi ad un amore che con non si compie e che – nella storia di Amleto – diventa insopportabile rifiuto. Tutto ciò sulla scena ha l’assolutezza del buio e l’abbaglio di una luce bianca e gelata, tutto ciò è racchiuso in un abito da sposa che allude a una verginità e illibatezza destinata a essere richiusa nel buio della notte e degli abissi. Il racconto di Ophelia è una chiave d’ingresso, ma poi le stanze che questa chiave apre, sono tante e molteplici, uniche e mutabili e si compiono negli sguardi di chi osserva e cerca di entrare, al di là della narrazione. Ecco questa impossibilità di quietarsi nello stare mobile di Ophelia è il fascino di un lavoro che non chiede di essere raccontato ma percepito in un esserci nel tempo, qui, ora e in eterno. Applausi e dissenso quietato alla fine. Nicola Arrigoni