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DON GREGORIO - regia Roberto Recchia

Don Gregorio Don Gregorio Regia Roberto Recchia

di Gateano Donizetti
con: Paolo Bordogna, Mauro Bonfanti, Elizaveta Martirosyan
regia: Roberto Recchia
scene e costumi: Ferdia Murphy, direttore: Stefano Montanari
Orchestra e Coro del Bergamo Musica Festival
Bergamo, Teatro Donizetti, 2 e 4 novembre 2007

Il Manifesto, 10 febbraio 2008
L'Opera, 4 dicembre 2007
L'Eco di Bergamo, 4 novembre 2007
Avvenire, 6 novembre 2007
Il Mattino, 5 novembre 2007
Viziose piume di struzzo contro la claustrofobia

«Don Gregorio» partenopeo di Donizetti. Frenetica e a tratti irresistibile «commedia musicata» allestita da Roberto Recchia Tutti conoscono L'ajo nell'imbarazzo di Gaetano Donizetti, molti meno la sua versione «napoletana» (destinata due anni dopo il debutto allo storico Teatro Nuovo) che prende direttamente il nome dal protagonista della commedia musicata, Don Gregorio. Ora è proprio questi a tornare in scena, in un allestimento di Roberto Recchia, che dopo il debutto al festival inglese di Wexford e una tappa d'obbligo nella donizettiana Bergamo, è giunto al Teatro della Fortuna di Fano, dove è stato elemento catalizzatore del carnevale.
Rispetto alla prima stesura, la revisione che Donizetti e con lui i librettisti Jacopo Ferretti e Andrea Leone Tottola fanno per Napoli dell'opera (tratta a sua volta da una commedia di gran successo di Giovanni Giraud) sta soprattutto nella lingua, con un sagace «adattamento» partenopeo, e nei recitativi che divengono veri e propri brani recitati. Su questo materiale già attraente, ma mai usato in epoca moderna, il regista si è valso anche della collaborazione del basso Paolo Bordogna, che ha adattato ulteriormente in un napoletano corrente «pensieri e parole» dei personaggi tutti.
L'effetto è quello di una gradevole farsa (non solo Donizetti la definì così, ma è l'accezione alta delle antiche compagnie all'italiana), a tratti irresistibile e sempre godibile, ed è un peccato che dialoghi così pieni e lavorati si perdano in qualche momento.
L'intreccio è assai classico, e non alieno dai temi donizettiani. Un nobile rapace tiene i due figli maschi segregati in casa (affidati all'istitutore Don Gregorio appunto), terrorizzato che cedano alle grazie femminili prima che abbiano compiuto il vaccino dei quarant'anni. Così che uno viene irretito dalle male grazie della attempata cameriera (unica donna a girare in casa, che Leopolda Malabaldi carica di grande comicità, quasi tardiva controfigura della Pampanini), e l'altro si scoprirà aver celebrato addirittura un matrimonio segreto con una dirimpettaia, tanto da essere già da un anno padre di un pargolo. In questo claustrofobico universo tutto maschile, si barcamena Don Gregorio/Bordogna, che pure si diverte e garantisce il divertimento del pubblico. La regia gli affida anzi delle «spiegazioni» costituite da vezzi e guardaroba degni del Vizietto, che scivolano fuori imprevisti da armadi e cassettoni. Travestimenti favoriti certo nel loro proliferare dall'ordine repressivo imposto dal tirannico padrone di casa (un assai compunto Bruno Taddia), un ordine fatto di appartamenti serrati, convivenze separate e fantasie, che vi sopravvivono recluse e solo mentalmente evadono. In quel girare e bussare e sbattere di porte alla Feydeau, il rutilare di negligé e piume di struzzo è tanto improbabile quanto innocente, utile solo a dare i necessari segni di comicità e travestimento che la farsa richiede.
La musica di Donizetti resta un grande piacere (L'ajo fu il suo primo vero successo popolare al Valle di Roma), e con grazia decisa ne coglie la misura l'orchestra sinfonica Rossini, diretta con precisione e cuore da Michele Mariotti, giovane ma già sicuro (quasi a smentire per una volta che non sempre è il solo nome d'arte a guidare una carriera). Buone (e molto teatrali) tutte le voci, comprese quelle del coro di Fano costretto a ripetute performance come fosse nella Cucina di Wesker. Ma a parte qualche sottolineatura superflua (Don Gregorio in minigonna alla fine sembra un calco dei travestimenti femminili di Panariello) l'opera fa proprio divertire e riflettere, compresa la sferzata senza appello ai moralismi repressivi e parrucconi, come è in Donizetti. Ma che a Fano ha suscitato qualche protesta fuori del tempo, oscurata per fortuna dal successo clamoroso e dal prevalere inconsueto di giovani nel pubblico.

Gianfranco Capitta

Arlecchino si confessò burlando

Al Teatro Donizetti diverte la riscoperta di Don Gregorio, protagonista un irresistibile Paolo Bordogna, dopo la delusione inaugurale de L’elisir d’amore. Una domenica pomeriggio può capitare che un melodramma giocoso di Donizetti, Don Gregorio, rifacimento partenopeo del più noto Ajo nell'imbarazzo, presentato nel 1826 al Teatro del Fondo, riletto da una tradizionale, ma graffiante regia, finisca per divertirvi, stupirvi, lasciarvi di sale, basirvi pèr l'innegabile modernità. La storia è quella di Don Gregorio, ajo del marchesino Enrico e del fratello, Pippetto: figli di un Don Giulio Antiquati, moralista al cubo, misogino feroce, determinato a salvare i pargoli dal contagio delle femmine. In realtà Enrico non si è fatto impressionare e, complice una finestra, ha conosciuto Gilda, si è innamorato di lei e ha persino concepito un bambino, Bernardino. Intanto Pippetto si è arrangiato con la serva attempata. A Gregorio spetta il compito di condurre la vicenda all'immancabile lieto fine. A Donizetti tocca di rimaneggiare lo spartito precedente, di adattarlo ad una struttura drammaturgica, che prevede l'alternanza di parlato e numeri musicali (come si usava a Napoli), di costruire un lavoro in due atti, dai nitidi contorni. Gli tocca anche di costruire con giovanile genialità un meccanismo ad orologeria che, a ben guardare, cela significati reconditi e offre spunti per più significative riflessioni sulla famiglia.

Roberto Recchia non si lascia sfuggire l'occasione e confeziona un piccolo capolavoro registico. Trasporta l'azione nel 1921. Contamina Don Gregorio con il teatro di Scarpetta e di Feydeau, ma condisce l'operazione con un pizzico di vetriolo. Don Gregorio, il professore, coltiva in segreto l'amore per l'intimo femminile e l'azione, guarda un po' si scioglie in un gioco di travestimenti, dove alla fine tutti gli uomini dell' opera, coro compreso, indossano un capo di fine lingerie, mentre Gilda, la futura moglie di Enrico, trionfa, sfoggiando un completo maschile. La soluzione è condotta con garbo e, come Arlecchino, dice la verità ridendo. Ma intanto l'opera regge meravigliosamente questa lettura e nel II atto accoglie connotazioni surreali che furono sempre tipiche della comicità del Bergamasco e che qui risaltano senza mezzi termini. A rendere ancora più riuscita l'operazione concorre proprio il colore di una partitura, variopinta come gli indumenti femminili degli uomini, che contrastano con la severa scena di Ferdia Murphy, cui si devono anche i graziosi costumi, utili anche a talune estrose soluzioni della regia. Così la Cabaletta dell'Aria di Gilda e poi il Rondò finale sono eseguiti come se la ragazza fosse una sorta di diva del café chantant, servita da muti arlecchini che la circondano di ventagli di piume di struzzo, superflui come la coloratura che snocciola. Lo stile guarda a Rossini, ma con la chiara capacità di smarcare il modello sia nell’impianto armonico che nella vocalità. Donizetti mostra un suo talento innato per la parodia dei linguaggi, con ampio uso di accenti melodrammatici, che in questo contesto risultano buffi, dal momento che sono fuor di luogo, come le sonorità in minore, quando esse vengano evocate.

Il deus ex machina dello spettacolo è Paolo Bordogna, che nel panorama dei cantanti dei nostri giorni si ricava un posto particolare per il talento con cui sa fare rivive il mondo dell'opera buffa. Padrone della scena, a suo agio nel vernacolo napoletano, in possesso di voce e vocalità adatta a questo repertorio, muove l'azione da cantante-attore consumato. Ma il mestiere non è mai routine. È piuttosto quella sorta di naturale inclinazione all' estro, che si sostanzia ii soluzioni sempre intelligenti, governate da buon gusto, anche quando i travestimenti imposti dalla regia rischierebbero di diventare grevi. Si può dire a buon diritto che rivive in Bordogna la gloriosa arte dei buffi caratteristi napoletani, dei Casaccia, per intenderei, così ammirati da Stendhal, o per quel Gennaro Luzio, sul cui talento Donizetti modellò la parte di Don Gregorio.

Il resto del cast asseconda il gioco di Bordogna e si muove con scioltezza attorno al suo burattinaio. Sotto il profilo vocale molti sarebbero i colpi di gesso da battere contro la lavagna, quando si ascolta Enrico, Giorgio Trucco, in un'Aria di sortita che non brilla certo di grazia tenorile, o Giorgio Valerio, un Don Giulio dalla vocalità faticosa, o Elizaveta Martirosyan che lascia a desiderare in una scrittura che esigerebbe voce più morbida, emissione più omogenea e il delizioso talento di un autentico soprano soubrette; eppure in questo contesto e in questo tipo di opere, quello giocoso, che in fondo non richiede autorevolezza di vocalità, tutti svolgono il loro compito e fanno divertire il pubblico. A loro si associa la Leonarda di Alessandra Fratelli, il Simone di Luca Ludoviei e il Pippetto di Livio Scarpellini. L’Orchestra e il Coro del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti erano diretti da Stefano Montanari il cui pregio consiste nel non avere messo i bastoni tra le ruote ad un palcoscenico dove Bordogna ha fatto dimenticare i limiti della direzione e dei suoi partners, portando l'operazione a buon fine tra il tripudio del pubblico.

Giancarlo Landini

Don Gregorio, un Donizetti incontenibile
Esilarante messa in scena esaltata dalla grande comunicativa del basso Paolo Bordogna.

Due giovanotti e un padre-padrone: la regia di Roberto Recchia sottolinea i significati nascosti. Gli studiosi di Donizetti non si sorprendono: da tempo ogni recupero delle opere del grande maestro bergamasco, anche quelle più rare, hanno in serbo sorprese. Non fa notizia dunque che il Don Gregorio riesumato doposecolare oblio dal Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti sia una signora opera buffa, o melodramma giocoso, come recita il frontespizio del libretto.
In particolare, la prova della scena - che indubbiamente ha argomenti ancora più validi - ha dimostrato che Don Gregorio è uno spettacolo ricco, estroso, carico di messaggi non solo esilaranti, ma anche profondi e che sa far ridere di gusto anche a distanza di duecento anni. Insomma, ancora una volta il "Donizetti minore" si rivela tutt'altro che minore, e anche questa non è ormai una novità.
Va certamente detto che lo spettacolo proposto venerdì sera al Teatro Donizetti (in replica oggi alle 15.30) si è valso di due elementi portanti, in un complesso comunque funzionale: dal lato degli interpreti c'è stato il mattatore annunciato Paolo Bordogna, un basso buffo che Bergamo ha già avuto modo di ammirare (era la strepitosa Mamma Agata nelle Convenienze e inconvenienze teatrali). E poi la firma del regista Roberto Recchia, oggetto di qualche contestazione nella Cavalleria rusticana dello scorso anno, ma qui semplicemente splendido e geniale nel pennellare tutta la vicenda e nell'indicare vari significati reconditi e simbolici.
Andiamo con ordine. La riproposta del Don Gregorio, ossia la versione in napoletano del fortunato L'Ajo nell'imbarazzo, aveva qualche rischio: non solo quello della comprensibilità del dialetto, pur se quello partenopeo, un po' come il romanesco, è quasi nazionale. Anche qui, peraltro, ci ha messo del suo Paolo Bordogna, che ha adattato i dialoghi ricostruiti da Maria Chiara Bertieri, mettendoci quel colore e quell'immediatezza contagiosa che sono la forza di ogni dialetto. Ovviamente in napoletano parla solo Don Gregorio, che pure è il più dotto della compagnia, essendo il precettore dei due figli del marchese Giulio Antiquati.
Alla trama di infallibile successo dell'Ajo, questo Don Gregorio aggiunge le spezie di una situazione ancor più saporita e, se possibile, guizzante. In mezzo ai tanti guai che i due suoi "ragazzi" di 19 e 25 anni gli combinano con le donne, non è difficile intravedere l'alter ego dello stesso Donizetti (stesse iniziali) che spesso, specie nelle opere comiche, si divertiva a lasciare un'impronta personale tra i personaggi. Aggiungiamoci che sul palco Paolo Bordogna ha recitato con gusto e forza comunicativa infallibile il misto di atteggiamenti moralistici, di patetismi, di furbizie e di buon animo che han fatto del suo ruolo da solo una sorta di teatro nel teatro: un atteggiamento vestito con naturalezza anche dalle altre due donne della scena, la cameriera Leonarda e soprattutto madama Gilda Tallemanni, sposa di Enrico. Per muovere a compassione Gregorio non esita a recitare il tragico futuro solitario che le si prospetta e in quel momento un bel telo di sipario rosso scende al suo fianco, rimarcando la sua riuscita recitazione.
Ecco la mano maestra di Roberto Recchia. Giustamente il regista si chiede perché Don Giulio sia così misogino, tanto da non volere che i figli conoscano donna prima dei quarant'anni. E poi, che fine ha fatto la moglie? Perché in fondo tutto il meccanismo teatrale nasce da questa proibizione assurda e assoluta, rispettata da Don Gregorio con rigore onesto e miseramente fallita per le naturali pulsioni dei due giovanotti. Recchia dice di aver cambiato solo la collocazione temporale, ai tempi dell'era fascista, lasciando invariato tutto il resto. Dice poi che il rischio maggiore da evitare è di trasformare lo spettacolo in farsa: non si tratta di una messa in scena di macchiette napoletane, ma di personaggi in carne ed ossa. Anche questo funziona a meraviglia e non si raffredda il tono scherzoso e il divertimento, lo rende invece meno sguaiato e più credibile. Però - e questo Recchia non lo dice - c'è un'aggiunta inedita che diventa la chiave di volta della messa in scena: Don Gregorio ha un armadio segreto pieno di vestiti femminili sgargianti (in contrasto con il livido grigio delle stanze), con cui si diletta - apprendiamo - a travestirsi di tanto in tanto.
Quel che succede è davvero esplosivo: uno dopo l'altro Don Gregorio, Enrico e infine addisittura Don Giulio son costretti a ricorrere al medesimo armadio per travestrirsi e nascondere - vanamente - la propria identità. Così, quanto è stato bandito dalla porta rientra dalla finestra. E anche tutto il gran finale del secondo atto, con la faticosa accettazione di Don Giulio, che riconosce i due sposi e il piccolo Bernardino, avviene con i tre in abiti femminili. Difficile immaginare un risalto migliore al distico finale di Gilda: "Siamo serve, ma regniamo, siamo nate a comandar".
Bene si è comportato tutto il cast vocale, con gli squilli equilibrati e le acrobazie di Elizaveta Martirosyan (Gilda), i timbri intensi e gli scioglilingua ineffabili di Bordogna, le buone voci di Giorgio Valerio (Giulio), Giorgio Trucco (Enrico), Livio Scarpellini (Pippetto) e Alessandra Fratelli (Leonarda). Buono l'apporto del Coro e l'Orchestra del Festival, guidate con pragmatismo e gesto più eloquente che elegante da Stefano Montanari.

Bernardino Zappa

Rivive «Don Gregorio» di Donizetti
Ma la regia di Recchia tradisce l'opera

Peccato. Perché l'occasione era davvero ghiotta. Peccato che la prima esecuzione in tempi moderni in Italia del Don Gregorio di Gaetano Donizetti (l'unico precedente al festival di Wexford nel 2006) sia avvenuta in forma scenica. Il Bergamo musica festival ha apprezzabilmente tolto la polvere da una partitura che il musicista di casa pensò nel 1824 per Roma e riscrisse nel 1826 per Napoli sostituendo i recitativi con dialoghi in un colorito dialetto: lo ha fatto affidando la revisione critica a Maria Chiara Bertieri e mettendola sul leggio di Stefano Montanari, apprezzato primo violino dell'Accademia bizantina e qui puntuale ed efficace direttore della musica che Donizetti scrisse strizzando l'occhio a Rossini. Peccato, si diceva, che la storia esilarante di Don Gregorio sia finita nelle mani di Roberto Recchia, regista che, da quello che si è visto in scena, sembra non credere nella forza della musica: nel suo Don Gregorio, ambientato nel Ventennio, infatti, ci sono gag da avanspettacolo, siparietti stile musical con piume di struzzo a volontà, drammi da sceneggiata napoletana. Ma non c'è Donizetti che finisce per soccombere in un'inutile girandola di travestimenti (a volte anche di cattivo gusto: quando il libretto vuole Don Gregorio intabarrato Recchia lo veste da cameriera) che vede tutti gli uomini, prima o poi, entrare in scena in abiti femminili. A salvare lo spettacolo c'è la direzione di Montanari alla guida della frizzante orchestra del festival e ci sono le voci di Paolo Bordogna (Don Gregorio), Elizaveta Martirosyan (Gilda) e Alessandra Fratelli (Leonarda).

Pierachille Dolfini

«Don Gregorio» e i bamboccioni di Donizetti

Alessandro Bottelli Bergamo. «Don Gregorio», melodramma giocoso approntato da Gaetano Donizetti nel 1826 per il Teatro Nuovo di Napoli sulla base del precedente «Aio nell'imbarazzo» (Roma, 1824) è stato ripreso in prima italiana moderna nella città che gli ha dato i natali, nell'ambito del Bergamo Musica Festival. La scena, unica per i due atti (firmata da Ferdia Murphy, come i costumi), mette in evidenza il grigiume di muri di una severità comunque allusiva, fitti di finestrelle circolari, per nulla rassicuranti. In tali sale vivono un padre dal rigore morale ormai fuori corso e i suoi due figli, in età non proprio puberale e per di più mossi da sconvolgimenti ormonali difficilmente controllabili, oltre a una cameriera e un insegnante, il solo ad esprimersi nella parlata partenopea. Qui Donizetti ha già un mestiere da invidia, non solo nel far squillare a festa lo smalto dei concertati, ma oltremodo in parti che mescolano la malinconia, il senso di ripiegamento nostalgico, all'efficacia drammaturgica tout court. Per dire: l'inedito Quintetto del secondo atto, un brano dotato di luce propria eppure mai eseguito in teatro, nemmeno nelle rappresentazioni napoletane dell'epoca. L'attento lavoro di ripristino di questo e di altri materiali è avvenuto grazie alle cure di Maria Chiara Bertieri e della Fondazione Donizetti, che hanno messo a punto una versione attendibile della partitura (con dialoghi in prosa al posto dei recitativi), purtroppo non più rintracciabile nella sua versione autografa. Ma a rendere lo spettacolo (disegnato dal regista Roberto Recchia) agevole e ammiccante contribuiscono Elizaveta Martirosyan, Livio Scarpellini, Giorgio Trucco, Alessandra Fratelli, Giorgio Valerio, oltre naturalmente alle veracissime attitudini attoriali di Paolo Bordogna-Don Gregorio (nella foto, un momento dello spettacolo). E dalla mistica buca campeggia e si sbraccia Stefano Montanari, paladino del violino barocco, per l'occasione dinamicamente calato nella parte (non prevista da Donizetti in partitura) del direttore d'orchestra.

Ultima modifica il Lunedì, 22 Luglio 2013 10:37
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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