di Giuseppe Verdi
direttore: Daniele Gatti
regia e scene: Stéphane Braunschweig
costumi: Thibault van Craenenbroeck
luci: Marion Hewlett
con Ferruccio Furlanetto, Stuart Neill, Fiorenza Cedolins
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Milano, Teatro alla Scala, dal 7 dicembre 2008 al 15 gennaio 2009
Dopo la «prima». Il suono dell' orchestra ha «coperto» spesso i cantanti anche a causa delle percussioni tipo «effetti speciali» Certi stacchi di tempo (troppo lenti) non sono stati sostenuti da un' intensità del sentire comune al comando del direttore
«Le Monde» è stato scorretto nel recensire la «primina» per i giovani e non lo spettacolo atteso per il 7 dicembre
Il caso Filianoti ha nuociuto al clima Voci e minimalismo non hanno aiutato
Avevo annunciato ieri che mi sarebbe toccato il trattare l' affaire dei fischi indirizzati al maestro Gatti la serata inaugurale della stagione della Scala, ma non senza l' altra affaire dell' esclusione del tenore Filianoti dalla «prima» dopo che il maestro Gatti e la soprintendenza della Scala avevano portato il Filianoti fino alla prova generale. Filianoti non è stato colpito dall' istituto della «protesta»: è stato «amichevolmente consigliato», com' è ovvio «per il suo bene», di non cantare il 7 dicembre. I meridionali come me conoscono perfettamente questa prassi. Un titolare di un pubblico esercizio, mettiamo, un negoziante di articoli da bagno, si vede arrivare uno sconosciuto sorridente che con tono gentile gli domanda come si porti in salute. Sorpreso, il negoziante risponde che sta benissimo ma che non capisce il senso della domanda provenendogli essa da sconosciuto. «Ma io sono un Suo amico, anche se Lei non lo sa. E Lei ha tanti amici che ci (ossia: Le) vogliono bene e si dispiacerebbero assai se le dovesse capitare qualcosa di male...». Quanto ho scritto ieri e confermo oggi è che la valanga di fischi e grida ostili onde il maestro Gatti è stato colpito proveniva da tutti i settori del teatro e non da una ben individuata schiera di pochi individui. Il fenomeno mi ha fatto dispiacere, giacché il Gatti, che ho conosciuto in una telefonata durata una decina di minuti, è gentile e simpatico. Chi afferma che i dissensi verso il direttore provenissero da una macchinazione ordita dal Filianoti mente perché un cantante da solo non potrebbe disporre di truppe cammellate di tale entità, e formula una precisa accusa contro un soggetto il quale ben farebbe a ricorrere a chi di ragione per tutelare la sua onorabilità. Se non mente, una clinica psichiatrica è pronta ad accogliere il taluno. In fatto, se io fossi il Soprintendente della Scala non chiamerei il Filianoti a interpretare il personaggio di don Carlo: ma se ciò avessi fatto, consenziente il direttore d' orchestra, e avessi portato il suddetto artista attraverso le prove di sala, poi quelle con l' orchestra, fino alla prova generale, mi sarei assunto le mie responsabilità per una questione etica ed estetica insieme e sarei andato incontro al rischio. Come poi si vede, l' espediente nulla ha potuto su di una sala che doveva essere già stanca per la indecorosa grancassa massmediale avutasi nella settimana volta verso il 7 dicembre. L' immagine della Scala ne ha perso non poco. E, ultima considerazione etico-estetica, i giornali (Le Monde che veniva considerato autorevole e imparziale) i quali hanno pubblicato una recensione alla stregua della prova generale del 4 dicembre, hanno agito con scorrettezza disdicevole, avendo essi scritto di un altro spettacolo rispetto a quello ch' erano chiamati a trattare. Com' erano belli i tempi ove le prove generali si tenevano al chiuso. Non ho ancora detto una parola sull' allestimento scenico (regia e scene di Stéphane Braunschweig, costumi di Thibault Van Kraenenbroek). Ho sentito chiamarla «minimalista»: purtroppo quando ho fatto le scuole questa parola non esisteva. Vi sono scene vuote, con false prospettive bianche e nere che non dispiacciono; scene piene di folla disturbate da qualche stravaganza: un pupo che sale verso il cielo sottraendosi alle fiamme dell' auto da fè; e poi le terribili «proiezioni», che ritraggono Elisabetta nel felice passato di Fontainebleau e i due ragazzi, Carlo e Posa, cresciuti insieme, nella qualità di adolescenti in atteggiamenti un po' birichini: poteva mancare la psicanalisi? I monaci portano l' abito benedettino laddove dovrebbero essere domenicani; il Grande Inquisitore è in abiti cardinalizi mentre dovrebbe portare il saio (e togliamocelo subito di mezzo, il peggiore di una compagnia fatta per partorire perplessità, si chiama Anatoli Kotscherga, il La bemolle del quale sembra il suono di una grattugia); nell' auto da fè sono schierati ben sedici cardinali, cioè l' equivalente di due terzi del Sacro Collegio d' allora; bimbi-simbolo percorrono la scena. Ora veniamo al dunque: il brutto suono dell' orchestra, conseguenza in parte forse del nervosismo onde il direttore è stato posseduto a seguito dei segni di mancato gradimento della sua prestazione; un suono brutto e che copre spesso i cantanti per eccesso di decibel e con le percussioni adoperate quali «effetti speciali»; l' inspiegabilità, mi ripeto, di certi stacchi di tempo troppo lenti non quanto a metronomo ma perché non sostenuti da un' intensità del sentire comune al comando del direttore e a coloro che debbono eseguirlo; o a volte d' un' inspiegabile velocità. Trovo però che il principal difetto del maestro Gatti sia non nella sua qualità di direttore, quanto di concertatore. Tutti i cantanti, Filianoti (prova generale) compreso ed esclusa Dolora Zajick quale principessa d' Eboli, a parte i difetti e gl' incidenti cantano senza alcuna espressione, riducendo l' aspetto drammatico del Don Carlo, il solo che a Verdi importasse, a una sorta di encefalogramma piatto. E' possibile che durante le prove di sala il maestro non riesca a tirar fuori da costoro una pronuncia netta della parola, scandita come la voleva Verdi, una fonazione articolata donde far scaturire (è sempre Verdi) «l' effetto»? Perciò il sentimento che questo Don Carlo ha prodotto in me è stato quello del tedio, scacciato solo dalla presenza della principessa d' Eboli. Ferruccio Furlanetto ha un' autorevolezza nel ruolo di Filippo purtroppo minata dal fatto che la voce «balla» a partire dal Re «taglio in gola» e dallo sconoscere egli che per cantare piano non si deve emettere una minor quantità di fiato; il duca di Posa, Dalibor Jenis, sconosce come il suo Re la medesima cosa ed è l' emblema stesso dell' encefalogramma piatto, quando il suo personaggio dovrebb' essere l' incarnazione della virile eleganza; Stuart Neill, don Carlo, è un tenore di serie B e ammette egli stesso di non comprendere il significato di tutte le parole che pronuncia; Fiorenza Cedolins ha difficoltà sul «passaggio» e anche nell' intonazione; ottimo «un frate», cioè Carlo V, il quale qui invece di tirarsi dietro don Carlo nel black hole lo avvolge perché la morte avvenga nel suo ampio mantello.
Paolo Isotta
Protagonismo sinfonico anche perché le voci non sono irresistibili
La Spagna, come cornice nel Don Carlo di Verdi, di solito viene rappresentata o abbagliante o tenebrosa; ma la nuova produzione con cui la Scala ha inaugurato ieri la stagione 2008-09, direttore Daniele Gatti, regìa e scene di Stéphane Braunschweig, ignora l'alternativa, anzi si può dire ignori anche la Spagna, per dedicarsi a una scenografia essenziale, di poche linee geometriche, e al rigoroso gioco a scacchiera di colori bianchi e neri; una concessione paesaggistica, con ariose vedute di boschi, evoca la foresta di Fontainebleau dove si è svolto l'antefatto; meno necessaria l'idea di far circolare per la scena dei bambini come immagini dell'infanzia dei protagonisti, ispirandosi, secondo quanto si legge sul programma, a un passo di Schiller; ma allo spettatore la trovata sembra un'inutile stravaganza, anche perché i frugoletti non si limitano ad apparire (bellissima in sè l'entrata di Filippo seguito da una Elisabetta bimba), ma entrano anche nell'azione, ad esempio nella scena dell'autodafé, in modi che contrastano con il realismo sempre univoco di Verdi.
Tuttavia, a parte questi impacci, che si potrebbero rimuovere mandando a letto i bambini, la regìa di Braunschweig non solo ha salvaguardato la scabra serietà di fondo dell'opera, ma ha lavorato con fine intuito sui cantanti dando rilievo ai loro drammi famigliari: è felicissima l'immagine di Filippo che, dopo averla insultata, tiene fra le sue braccia Elisabetta, come se sapesse che è lui ad avere più bisogno di lei.
Ma ancora più ricca di spunti nuovi è la direzione musicale di Daniele Gatti; non che manchi la massa sonora e lo scatto, basta sentire la partenza bruciante del quadro dell'autodafé, o il respiro risorgimentale del tema dell'amicizia; ma è un fatto che le nostre orecchie sono continuamente indirizzate a cogliere finezze e velature di armonia, di ritmo, di fraseggio, il tutto realizzato splendidamente dall'orchestra scaligera in gran vena. Alcuni punti sono esemplari: nel meraviglioso Preludio al terzo quadro (peccato non aver tenuto il sipario chiuso per tutta la sua durata!), nell'introduzione al monologo di Filippo i timbri puri e gli impasti assumono un colore schiettamente mitteleuropeo, un sentore di Brahms e di Mahler portati spontaneamente ad affiorare nella grandiosa unità ritmica della scena dell'autodafè.
Ma ancora un particolare fra tanti: quando il re Filippo canta «nel posar sul mio capo la corona» la qualità spoglia, fredda, dell'accordo sottostante dei fiati basta a svelarne la funebre tragicità sotto la pompa esteriore; anche nelle parti meno alte, i contorni mondani e dialoghi salottieri, sempre accurate sottolineature di accenti espressivi: attenzioni forse superflue in un'altra opera, non nel Don Carlo, testo principe di un Verdi «europeo».
Questa presenza sinfonica di primo piano è anche dovuta al fatto che la compagnia vocale, in generale, non è di quelle irresistibili; certo, Ferruccio Furlanetto si muove come un pesce nell'acqua nella parte di Filippo: scolpito e autorevole nei confronti «politici» con Rodrigo e con il Grande Inquisitore, in Ella giammai m'amò si rende intelligibile senza mai staccarsi dalla mezza voce; diventa credibile il suo amore per la giovane regina, un sentimento, di solito trascurato, che aggiunge intima tristezza alla complessità shakespeariana del personaggio. Il Carlo di Stuart Neill non è aiutato dal fisico ma ha timbro squillante e voce sicura. Lascia un po' a desiderare nei tratti indecisi, introversi del personaggio. L'Inquisitore Anatolis Kotscherga è nella parte.
Il frate-Carlo V Diogenes Randes ha una voce tonante come occorre. Fiorenza Cedolins come Elisabetta ha voce pulita e duttile, capace di seguire le pieghe più segrete della melodia in tutti i momenti in cui ricorda il passato felice; ma per i gesti tragici le manca ancora qualche grado di volume e di intensità drammatica. Dolora Zajicki è una Eboli un po' stanca, la sua voce va e viene, non ha un arco continuo ma nell'aria del rimorso ha tirato fuori le unghie; il Rodrigo di Dalibor Jenis è un po' diseguale nei registri e ha una voce poco chiara che deve ancora maturare.
Cori bene istruiti da Bruno Casoni e bravi i sei deputati fiamminghi tenuti da Gatti in una timida penombra, presaga della grandine che sta per scaricarsi sul loro capo. Non necessaria, ma interessante, la ripresa dalla prima versione del compianto sul cadavere di Rodrigo, col tema che poi Verdi trasporterà nel Requiem. Alla fine sette minuti di applausi misti a dissensi molto pronunciati per il regista, meno per il direttore. Qualche fischio isolato per la primadonna e il grande Inquisitore.
Giorgio Pestelli
Appena ventiquattr'ore dopo che all'Opera di Roma erano risuonati gli applausi per «Otello» diretto da Muti, a Milano un «Don Carlo» diretto da Gatti ha inaugurato la stagione scaligera. Davvero una casuale congiuntura d'astri, due serate-evento tanto concomitanti? Quel che più conta è l'affinità delle scelte, vòlte a due spartiti verdiani contraddistinti da intriganti problemi estetici e filologici. Ed ecco «Don Carlo»: nella versione italiana in quattro atti approntata per la Scala nel 1886 (come noto, l'opera era nata nel 1867 all'Opéra come «Don Carlos» e in cinque atti) ma ora riproposta in una ricostruzione, dovuta ai musicologi Guenter e Pettazzoni, condotta sulle fonti di una complessa vicenda di tagli, integrazioni, soppressioni di pagine, cui il capolavoro andò incontro nel suo travagliatissimo cammino da Parigi alle prime esecuzioni italiane. Nel tradurre in musica la tragedia schilleriana il Maestro si avvide che quanto gli stava uscendo dalla penna era ben altro di uno spettacolone alla Meyerbeer. Un pervicace senso critico lo portò così a quel lavorìo di ripensamenti in progress testimoniato dalle numerose lettere di quegli anni: «Non un'opera di getto, ma un mosaico, e sia pur bello quanto si voglia, ma sempre mosaico». Un grande creatore in piena crisi stava progressivamente mutando l'atteggiamento nei confronti della propria opera: crisi tipica dell'artista moderno che privilegia l'autocontrollo e il ripensamento contro quella spontaneità cui si era finora abbandonato il suo ingegno. Un accanimento critico nel quale le contingenze pratiche (che pure ci furono) non hanno che parte marginale, e dal quale sarebbe uscito quel sentore vagamente «decadente» e di «opera aperta» (che è dire, moderna) acutamente percepito da Gavazzeni in un suo fondamentale scritto, e nel quale sembrano intrisi i personaggi dell'opera. Dove la sconfitta morale e la frustrazione individuale sembrano velare di ombre oscure quelle passioni che già divampavano nella produzione verdiana, e dove il monologo di Filippo II e il susseguente dialogo di lui con il Grande Inquisitore di tale pessimistica vivisezione nel cuore umano segna il culmine drammatico. Lo spettacolo scaligero, però, è compromesso da un errore di fondo, la fallimentare miscela di una recitazione realistica fino all'eccesso disturbata dall'invadenza di elementi simbolico-evocativi: come quel viavai di bambini che, camuffati da adulti come in «Las Medinas» di Velázquez, s'intrufolavano tra i guardinfanti di Elisabetta, le spade di Carlo e di Rodrigo, i «san benitos» degli eretici condotti al rogo a simboleggiare, secondo il regista e scenografo francese Stéphane Braunschweig, «il sogno dell'amore, della speranza in un mondo migliore». Con risultati tra il comico e l'irritante, cui certi interni gessosi e certe anemiche ortaglie da hinterland milanese, in contrasto stridente con i pomposi costumi d'epoca, indossati dai personaggi (ma non dal coro, chissà perché in abiti odierni) facevano da squallido contenitore. Da non vedere, questo «Don Carlo», ma da ascoltare almeno in buona parte, visto l'esito complessivamente apprezzabile di un cast costituito da Ferruccio Furlanetto come Filippo II, Dalibor Jenis come Rodrigo, Fiorenza Cedolins e Dolora Zajick rispettivamente Elisabetta e principessa d'Eboli, Anatolij Kotscherga come Grande Inquisitore al posto di Matti Salinen, Stuart Neill (che all'ultimo momento ha sostituito Giuseppe Filianoti) come protagonista. Contro una prestazione talora imbarazzante del coro, la direzione di Daniele Gatti ha rivelato tutto l'impegno e la perspicuità che sono propri di un musicista del suo calibro, anche se un maggior controllo dei solisti di canto, e delle sonorità orchestrali, spinte talora a esuberanze o a delibazioni eccessive, avrebbe giovato all'insieme.
Giovanni Carli Ballola
Preceduto da polemiche politiche, minacce di sciopero e dalla cacciata del tenore protagonista, lo spettacolo ha deluso chi lo aveva caricato di troppe aspettative. La direzione di Daniele Gatti cerca coerenza con il romanticismo verdiano, ma la regia di Braunschweig, tra psicanalisi e doppi di padre e figlio innamorati della stessa donna, rischia di perdere il controllo
Finalmente è passata anche 'a nuttata di sant'Ambrogio, si potrebbe dire con minimo realismo. Ma suonerebbe cinico, o disdicevole. Questa inaugurazione della Scala era andata via via caricandosi di implicazioni e significati molto al di sopra dell'andata in scena di un melodramma storico. Dalle dichiarazioni del ministro Bondi al limite dell'incoscienza (salvare solo l'ente lirico milanese e «regionalizzare» tutti gli altri) al tiramolla dei sindacati del teatro sullo sciopero minacciato, e rivelatosi poi il solito spauracchio (per quanto fondatissimo nelle motivazioni) annullato una settimana prima della prima. Fino al colpo di scena davvero inusuale del tenore protagonista cacciato dal sovrintendente Stephane Lissner il giorno del debutto, e sostituito col sostituto americano, un tipo fisico esattamente opposto all'altro, ma forse dotato di maggior voce, e soprattutto disposto a tirarla fuori. Più di quanto non avesse fatto, all'anteprima di giovedì scorso per gli studenti, il cantante titolare. E per la verità neanche tutti gli altri (a parte il fantastico Furlanetto che tuonava la rabbia e la sconfitta sentimentale di Filippo II) si erano spesi troppo. Ma la scoperta di un mondo sconosciuto per parte dei duemila giovani, aveva suscitato applausi entusiastici. Molto più che dall'ingessato e frettoloso pubblico della prima ufficiale.
Da lì probabilmente la stroncatura dell'evento tanto «gonfiato», riassunta nel titolaccio di Le Monde. I francesi erano scesi in massa già dalla settimana scorsa, oltre a Lissner, c'era in ballo la regia di Stephane Braunschweig, un nome forte della scena francese, che arriva a dirigere ora un teatro importante della cintura parigina. Evidentemente l'insieme non li ha soddisfatti, causando il colpo di scena che giornali e tv in Italia non hanno saputo spiegare, al di là di patetiche contrapposizioni (visto che in ogni caso si tratta di star, e non di manodopera bruta). Insomma la delusione viene soprattutto da chi aveva caricato questo sant'Ambrogio di implicazioni eccessive, quasi l'apertura di un settennato che dovrebbe portare Milano a capitale mondiale, in ogni caso caposaldo di una terra e di una cultura che esprime il governo del paese. Ma uno spettacolo si sa, per quanto rispecchi una comunità, resta una costruzione di illusioni e illusionismi, fantasmi che possono spaventare alcuni e deludere altri.
Così è stato anche per questo Don Carlo, versione italiana (più corta di un'ora del primigenio originale francese), che Giuseppe Verdi attinse al focoso e fosco testo romantico di Schiller. E che più di altre occasioni mostra l'intelligenza e la sensibilità straordinaria del «cigno di Busseto». Tanto che il vero nodo drammaturgico è costituito dall'amore per la stessa donna di un padre e di un figlio, Filippo II e Don Carlo appunto, assai più acre degli epigoni seriali di Beautiful. E tessuto dagli intrighi di corte, le bugie traditrici, e soprattutto la violenza cieca della chiesa cattolica attraverso il porporato inquisitore, che pur di ristabilire il proprio ordine, ricorre ad atti criminali.
Insomma Verdi laico e padano, era certo molto più avanti del conformismo soffocante della curia di Ratzinger e dei suoi interlocutori del Palazzo di oggi. La visione di quella corte cinquecentesca, il racconto di quegli amori impossibili e rivali, il finale tormentato che salva il giovane facendolo rapire dal fantasma del nonno Carlo V, sono una storia bella e affascinante. La direzione musicale di Daniele Gatti ha cercato di proporre la coerenza fascinosa di un racconto complicato. E in larga parte c'è riuscito, trascinando l'orchestra e lavorando d'accordo con la regia.
Braunschweig, chiamato dopo la perfezione wagneriana di Chereau della passata inaugurazione (si potrà rivedere tra due mesi), ha lavorato con razionalità e impegno. Come aveva fatto, per citare una sua precedente esperienza italiana, per un bel Fidelio al Palafenice. Ma qui la materia è più complicata e scottante. Individuato come binario la lettura analitica dell'opera, rischia poi di perderne il controllo. La scena, firmata dallo stesso regista, è geometrica e scarna, bianchi e neri in gioco tra loro, traiettorie visive, corridoi mentali ed esistenziali, teorie di porte all'occorrenza girevoli (e qualche brivido per l'evocazione di certe toilette maschili). I personaggi principali hanno un doppio in creature infantili che ne evocano la giovinezza e la sincerità di un tempo perduto. Ma quei bambini ad un tratto sembrano moltiplicarsi, provocano quasi confusione. O imbarazzo, se nell'orrore dell'autodafè orchestrato dai temibili cardinali inquisitori, tra i pali dei roghi, un ennesimo bimbo ascende al cielo, tra vapori baracconi di fumi rossastri. Il popolino osannante porta a sorpresa abiti novecenteschi, il programma dice addirittura da Spagna della guerra civile. Non si sa come e perché, visto che le regine paiono dame elisabettiane e gli eroi, citando dipinti famosi, hanno giubbe e culotte da omino Michelin. Ma il teatro è un gioco, e il pubblico della prima sembrava aver dato abbastanza dopo quattro ore e mezzo di esposizione impietosa.
Gianfranco Capitta
Milano - Era finita da nemmeno un'ora l'anteprima, nella regìa con tutti quei bambini mescolati nell'azione, e già girava la voce che nella bacheca dell'ordine del giorno una mano anonima avesse scritto «Viva Erode». E la sera di Sant'Ambrogio qualcuno annunciava che il tenore titolare allontanato dalla prima recita avrebbe polemicamente cantato la sua parte sulla piazza davanti al teatro. Se ne dicon di tutte, leggende fulminee, in questi eventi pittoreschi e fastosi. E dunque il critico musicale ha più che mai il compito di spiegare semplicemente quel che può con chiarezza.
Dunque. La Scala, come opera inaugurale ha scelto Don Carlo. Ne abbiamo lungo i giorni scorsi ricordato la bellezza inebriante e la grande difficoltà. La direzione dell'opera è stata affidata al Maestro Daniele Gatti, quarantasettenne milanese con un curriculum serio e prestigioso. Gatti ha scelto, o in parte lasciato scegliere, un cast di nomi noti, curiosamente mescolati: un basso espertissimo, un soprano di grande regolarità, un mezzosoprano d'antan del genere tonante, un tenore molto leggero per il ruolo, un baritono promettente.
Ci doveva essere anche un altro basso illustre, Matti Salminen, come Grande Inquisitore, ma si è ammalato e al suo posto è apparso, con grande presenza d'interprete, Anatoly Kotcherga. Ognuno ha cantato a modo suo, avendo in comune una buona dizione (salvo il mezzosoprano Dolora Zajick, che ha cantato in Zajickese) e una bella partecipazione all'intensità della musica.
Gatti ha condotto la vicenda con padronanza tecnica e con dedizione, con energia quasi eccessiva; gli è rimasta estranea la tinta visionaria tipica di quest'opera, che aveva fatto parlare di decadentismo alcuni studiosi; così ha mancato le occasioni di morbida sensualità sperduta che completano la storia e i personaggi: la molle canzone delle dame alle porte del chiostro in cui desidereremmo svettasse sinuosa la Principessa Eboli, l'incontro di lei con il principe Carlo nello strano sogno che li accomuna e sùbito divide. Autorevole con l'orchestra, è stato magistrale nelle parti severe intese con moralistica fermezza.
Secondo la Scala, era la compagnia migliore possibile oggi per quest'opera, o una delle migliori. Il tenore prescelto, Filianoti, Don Carlo, è intelligente, ha squillo, ed era molto credibile; ma era difficile che arrivasse in porto senza stanchezze; alla Scala se ne sono accorti solo dopo l'anteprima e hanno riparato con il tenore del secondo cast, Stuart Neill, più sicuro e rotondo (e rotondissimo da vedere) ma più generico e lontano da quella baldanza da ragazzo che permetteva anche scenicamente di rendere credibile la sua amicizia ideale con Dalibor Jenis, il marchese Rodrigo, il quale è brillante e duttile e soltanto un poco acerbo ma interessante.
Fiorenza Cedolins, Elisabetta di Valois, ha nell'uniformità della voce ottimamente tornita il grande pregio ma anche il limite dell'interpretazione; Dolora Zajick ha cantato con piglio ma anche con pesantezza; Ferruccio Furlanetto stesso, forse ormai identificando lodevolmente il personaggio del Re con la sua natura veneta bonaria, pur in una prestazione di alto calibro, ha qualche momento un po' troppo borghese nei lamenti e nelle collere.
Valeva allora la pena di mettere in scena un Don Carlo, di cui si ricordano straordinarie edizioni recenti alla Scala, senza avere una compagnia tutta di rango e ben equilibrata?
La regìa era assegnata a Stéphane Braunschweig, che ha tolto il marchio di lussureggiamento barocco o di cupezza fatale di certa tradizione, volendo esprimere solo il dramma dei sogni perduti, e si è costruito una scatola scenica elementare, in cui far risaltare le presenze dei personaggi e i ritmi essenziali dell'azione, rinviando la bellezza delle immagini ai costumi di Thibault van Craenenbroeck, che però sembrano un po' normali costumi da noleggio. La volontà era di rappresentare le illusioni come sogni infantili, primo fra tutti il ricordo della foresta in cui Elisabetta di Valois si era incantata col fidanzato Carlo di Spagna, di cui invece aveva dovuto sposare il padre, e dunque appare ogni tanto sul fondo anche un boschetto smilzo e fascinoso.
Ci sono due guai: uno è che per rappresentare i sogni il regista ha pensato di doppiare i gesti degli umani con bambini che li anticipano o ripetono, e se li deve portar dietro lungo l'opera, disturbando la nudità drammatica: quando nessuno osa disarmare Carlo, salvo l'amico Rodrigo per saggezza politica, è un bambino che gli prende la spada; e quando Elisabetta prega solitaria sulla tomba dell'Imperatore un bambino le si agita accanto.
L'altro è che, azzerando l'ambientazione storica, oltre tutto il regista a un tratto veste il popolo da epoca franchista con inaccettabile rozzezza. Malgrado questa inutile licenza, la regìa non appartiene però al genere provocatorio e sviluppa comunque un evidente lavoro sulle posizioni sceniche in cui soprattutto consiste la recitazione. È solo un po' poco.
All'apparire del Maestro Gatti all'inizio del secondo e del terzo atto ci sono stati dissensi e fischi piovuti dall'alto così sproporzionati e sorprendenti da suscitare una clamorosa reazione contraria, il che ha giovato al successo dello spettacolo. In chiusura, otto minuti di applausi e ancora fischi per il direttore e il regista.
Lorenzo Arruga