opera in tre atti
musica e libretto: Gian Carlo Menotti
direttore: David Charles Abell, regia: Vincent Boussard, scene: Vincent Lemaire, costumi: Christian Lacroix
con Nuccia Focile, Eugenie Grunewald, Paulo Szot, Sophie Pondjiclis, Jacques Lemaire, Chris Pedro Trakas, Louis Lemaire
Spoleto, Teatro Nuovo, dal 29 giugno al 13 luglio 2007
È ancora un suo festival. E non solo perché si rappresentava la sua Maria Golovin, ma anche perché era stato lui, Giancarlo Menotti, a mettere in programma quest'opera per aprire l'edizione del Cinquantenario, e persino a sceglierne l'allestimento, dopo averlo approvato lo scorso anno all'Opéra di Marsiglia. Forse, se a febbraio non ci avesse lasciato per sempre, il vecchio patron si sarebbe trascinato fino al Teatro Nuovo, che proprio l'altra sera riapriva le porte dopo quattro anni di restauri, e avrebbe applaudito non tanto la sua opera quanto la bella regia di Vincent Boussard, la scena di Vincent Lemaire, un interno disadorno in linea con il taglio psicologico della rappresentazione, e la bravura degli interpreti come cantanti e come attori.
Un allestimento proteso a mostrare il meglio di un'opera che non ha mai riscosso i consensi della critica. In passato era considerata al massimo, fra le opere di Menotti, una delle meno importanti. Definita spesso un collage di stili altrui, più o meno contemporanei, nei contenuti è stata accusata di essere un abile assemblaggio di elementi teatrali, un giallo, una reportage di vita contemporanea; persino un fumetto. Forse sono cambiati i tempi, i gusti o le chiavi interpretative: certo l'altra sera Maria Golovin ha svolto assai degnamente il compito di rappresentare e di ricordare un autore che ha lasciato un segno. L'amore di un cieco di guerra per la moglie di un prigioniero diventa impossibile quando quest'ultimo torna. La gelosia, prima latente, esplode nel vero senso del termine. Il cieco usa infatti il suo revolver per uccidere la donna. Sbaglia ovviamente la mira, ma gli fanno credere d'aver fatto centro. Un colpo di scena alla Hitchcock, se la cecità non avesse un valore soprattutto simbolico.
La musica segue la vicenda con semplicità e con precisione quasi didascalica: alterna melodia a tensioni dissonanti ed espone l'orchestra a rischi che la direzione sicura di David Charles Abell evita quasi sempre. La linea del canto ha trovato nel cast interpreti tutti molto bravi. Di Paul Szot (Donato, il cieco) ha convinto sia la straordinaria recitazione che l'eccellente interpretazione vocale; e lo stesso si può dire per Nuccia Focile (la Golovin). Impeccabili anche Eugenie Grunewald (la madre) e Sophie Pondjiclis (Agata). Applausi lunghi e non di circostanza.
Virgilio Celletti
da Roma
Se la musica ha un potere evocativo - e non c'è dubbio che l'abbia - venerdì sera il pubblico del Festival dei due Mondi ha vissuto una sorta di esperienza medianico-musicale. Perché quella nel teatro di Nuovo di Spoleto non è stata solo l'inaugurazione dell'edizione del cinquantenario; è stata soprattutto la prima orfana di colui che era l'anima del festival: il leggendario fondatore Gian Carlo Menotti, scomparso quattro mesi fa. E poiché in scena si dava la Maria Golovin dello stesso Menotti, non è difficile immaginare quanta emozione, e quale commosso successo, abbiano coronato questo ritorno a casa del maestro. Certo: Maria Golovin non è in assoluto la partitura migliore di Menotti: lui stesso la considerava la sua «opera sfortunata» perché a un'abituale trama ricca d'effetti melodrammatici sostituisce una riflessione sull'amore e la gelosia dal tono più raccolto, sostanzialmente privo d'azione e, per conseguenza, una musica povera di slanci melodici. Ma proprio in questo risiede il suo fascino.
La storia è quella del cieco Donato, che in un paese immaginario alla fine di una guerra non precisata, s'innamora di una donna che non può avere, Maria, perché prigioniero della propria cecità come lei lo è di un marito lontano ma incombente, in quanto prigioniero di guerra. Il libretto (dello stesso Menotti) è un lungo, ininterrotto duetto d'amore e gelosia, ma così ricco di sfumature psicologiche, e sul quale la musica aderisce come un guanto con tali nuances melodiche, da avviluppare lentamente il pubblico in una fascinosa spira emotiva. La cecità stessa del protagonista (il robusto e bravissimo Paulo Szot), lungi dal risultare un mezzuccio sentimentale, ha un evidente valore simbolico, accentuato da un severo ma efficacissimo allestimento di Vincent Boussard, che gioca su ambientazioni nude e stilizzate, in mille sfumature di un solo colore, il grigio, e in cui ottimi cantanti e attori (la vibrante Nuccia Focile, l'energica Eugenie Grunewald, la volitiva Sophie Pondjiclis) si muovono sensibilissimi dietro lo sviluppo soprattutto interiore dell'azione. L'interesse del pubblico è andato via via crescendo, assieme alla sua commozione. E alla fine, ecco il miracolo: il maestro era davvero tornato a casa.
Paolo Scotti