Lawrence Foster, direttore
David Lefèvre, violino
David Kadouch, pianoforte
Musiche di Dutilleux, Beethoven e Dvorák
Auditorium Rainier III, Montecarlo 9 dicembre 2012
L'Auditorium Rainier III si riempe di gente ed è di nuovo magia: il Maestro Lawrence Foster, statunitense di origine rumena, sale sul podio dell'Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, di cui è stato Directeur Musical negli anni Ottanta, e guida i Suoi orchestrali ed il Suo pubblico in un concerto che accosta momenti, artisti ed espressioni storico/musicali molto diverse tra loro.
Si comincia con il brano Sur le même accordo di Henri Dutilleux, un notturno per violino e orchestra che vede impegnato come interprete David Lefèvre, violino solista dell'OPMC. Il brano, composto tra il 2001 ed il 2002 è stato dedicato ad Anne-Sophie Mutter, che ne ha dato la prima esecuzione alla Royal Festival Hall di Londra accompagnata dalla London Philharmonic Orchestra sotto la direzione di Kurt Masur. Dutilleux, ritenuto l'ultimo erede vivente della grande Scuola francese, è ovviamente un abile compositore e in questo caso sembra voler sviluppare la materia musicale a partire da una cellula embrionale, plasmandola e portandola, grazie al sostegno di una compagine orchestrale quanto mai vasta, all'eccesso sonoro. Lefèvre impone fin dalle prime note la Sua fortissima personalità musicale, come si addice ad un virtuoso dello strumento: il Suo suono, sempre rotondo e potente, riscalda ben presto la sala ed i cuori dei Suoi ascoltatori, trasformando un pezzo che, pur non brillando per novità stilistiche, dopo un primo momento di quiete disincantata prende finalmente slancio e vita verso nuove forme. Il Solista sembra così divenire portavoce di una profonda consapevolezza interiore, di una ricerca dell'estasi musicale e di una rara rivelazione del sentimento umano, dove dolore, impeto ed emozione si sublimano e si concedono senza sosta alla Sua volontà. Lefèvre e Foster dimostrano inoltre un'intesa perfetta, fatta di sguardi e di intenti d'animo che si muovono coinvolgendo l'intera Orchestra, sempre concentrata ed attenta nel percepire le intuizioni del Solista e del Direttore.
Si prosegue nell'ascolto con il celebre Concerto per pianoforte n. 3 in do minore op. 37 di Beethoven, che personalmente ritengo uno tra i concerti più complessi e più affascinanti mai scritti per questo strumento: assolutamente meravigliosa la lunga introduzione orchestrale, in cui il suono degli archi dell'OPMC diviene all'occorrenza delicatissimo e vellutato o vigoroso e pieno di impeto, nel rispetto fedele ad una partitura capace di rivelare in modo eclatante il grande genio beethoveniano. Ad interpretare questo capolavoro è il francese David Kadouch, astro nascente del pianismo internazionale e noto quale allievo prediletto di Barenboim, di cui apprezzo soprattutto la volontà di una visione artistica d'insieme e l'evidente desiderio di interpretare l'opera in modo personale come solo un giovane artista può fare: in Lui si coglie l'aspirazione, quasi ossessiva, di dimostrare la passione e l'ardore che scaturisce da questa composizione, talvolta esasperandone le sonorità e imponendo un suono forte e granitico sul tappeto strumentale che gli viene offerto. Il fraseggio rimane sempre interessante ed il Suo approccio, marcato dall'esuberanza della Sua elegante gioventù, conquista il pubblico fino a richiedere due bis conclusivi.
Il concerto termina quindi con le Danze slave op. 46 di Antonin Dvorák, in assoluto tra le opere più note dell'illustre compositore. Ricordiamo che l'Opus 46 rappresenta la prima raccolta di otto danze (le successive otto vanno sotto il nome di Opus 72), la cui ispirazione fu suggerita a Dvorák dalle famose Danze ungheresi di Johannes Brahms, autore verso cui il compositore ceco dimostrò sempre una forte ammirazione professionale ed umana (non a caso fu proprio Brahms a riconoscere per primo il talento del giovane Dvorák e a consigliare al Suo editore Fritz Simrock di pubblicarne i lavori). Oggi Dvorák è storicamente considerato come un compositore estremamente attento alle proprie origini e, benchè la Sua musica rappresenti la corrente più "occidentale" della musica ceca, l'elemento musicale nazionale (per non dire "nazionalistico") della Sua Terra non è mai stato tradito: frenesia, impeto e folclore si mescolano sapientemente in questa partitura, interpretata dall'OPMC con la stessa veemenza e lo stesso lirismo che sembrano aver ispirato Dvorák nella composizione. Foster punta sui giochi chiaroscurali grazie a dinamiche ben evidenziate, mentre i Suoi attacchi sono perentori ed il gesto si precisa senza inutili platealità. In particolare evidenzio l'interpretazione della Danza n. 2 in mi minore, che riprende lo stile della dumka, un canto popolare slavo di origine ucraina, in cui la dolente melodia iniziale viene introdotta dai legni per poi essere ripresa dagli archi. Ineccepibile anche l'interpretazione della Danza n. 4 in fa maggiore, in cui l'oboe, sostenuto dai violoncelli, espone il tema iniziale, ripetuto poi in diverse combinazioni fino al rapido crescendo, capace di conquistare totalmente i presenti.
Prima dell'ultima danza il Maestro si rivolge al pubblico, incapace di trattenere gli applausi, e con tono amichevole rivela nuovamente un legame sottile e quasi "familiare" che sembra unirlo saldamente all'OPMC ed agli ascoltatori, enfatizzando l'emozione e la partecipazione empatica della sala. Si termina dunque con la celeberrima Danza n. 8 in sol minore, un Presto di rara bellezza, sintesi di grazia e di contrasti sonori in costante oscillazione tra il sol minore ed il sol maggiore della partitura, in cui le ondate di volume degli archi sembrano riuscire abbracciare quanti hanno partecipato all'evento, mentre gli ottoni, maestosi ed imponenti, primeggiano nella loro fiera grandezza: un'altra grande prova di un'Orchestra che continua sempre più ad appassionare e a coinvolgere il Suo pubblico.
Caterina Bergo