dal romanzo di Michela Murgia
edito da Giulio Einaudi Editore
drammaturgia Carlotta Corradi
con Anna Della Rosa
regia Veronica Cruciani
scene Antonio Belardi
costumi Anna Coluccia
luci Gianni Staropoli e Raffaella Vitiello
suono Hubert Westkemper
musiche a cura di John Cascone
video Lorenzo Letizi
a
assistente alla regia Mario Scandale
foto di scena Marina Alessi
Milano, Teatro Franco Parenti 6 aprile 2019
Perché vestite sempre di nero?
Perché vestite sempre di nero? Porto il lutto per la mia vita.
Si apre così uno dei capisaldi cechoviani rendendo asettica la più scolorita fra le tinte. A volte persino fuori da quest'ultima categoria, generalmente indica l'assenza, la mancanza di colore. Il lutto, appunto. L'umore totalmente inappagato, il lavoro poco ortodosso, l'immaginario homunculus punitivo al quale si smette di credere insieme a Babbo Natale. Ma nero sa essere anche il fondente olezzo, appetitoso quanto la seppia che si difende dal risotto, dannatamente solleticante come il venerdì delle offerte. Il pigmento oscuro porta il lutto oppure lo culla in modo che muti in un dolce ricordo: un manto nero che protegge una luce infinitamente bianca.
In questa scacchiera emotiva si inserisce, come pezzo unico, il pluripremiato Accabadora di Michela Murgia che a maggio compie dieci anni. Il romanzo pone indirettamente domande delicate su tematiche che lo sono altrettanto fornendo risposte velate e spesso insoddisfacenti tanto che il lettore preferisce annegare nella penna affusolata ed elegante dell'autrice. Così il nero diventa, agli occhi di Maria Listru, "il colore naturale delle cose di tutti i giorni"1, che non mostra il dolore ma ne copre la nudità, preservandone la purezza. "Invece, davanti a Giannina Bastìu che stava accucciata accanto al figlio con un abito a fiori sgargianti che non aveva una sola macchia di nero, Maria vide con chiarezza che quella era la donna più a lutto che avesse mai pianto un morto a Soreni [...]"1. Sfogliando pagina dopo pagina, il lettore cambia inevitabilmente postazione, assiste alle vicende su una nuvola e osserva da una prospettiva diversa dalla sua. Ed è più o meno in questo modo che tutti si riscoprono fillus de anima di qualcuno, capendo di poter bere un'acqua che avrebbero altrimenti creduto non potabile.
La trasposizione drammaturgica, firmata da Carlotta Corradi, si mantiene fedele al romanzo madre, partendo dal capitolo sedicesimo, ma va a pescare aneddoti e ricordi da quelli precedenti, alcuni piacevoli altri meno. La messa in scena segue pedissequamente la trama ma forse non avrebbe disdegnato qualche contaminazione. Nel libro che recita Anna Della Rosa, in scena come Maria Listru, i capitoli non possono essere vissuti una seconda volta e vengono quindi presentati come memorie, sottoforma di monologo rivolto a Tzia Bonaria Urrai, ormai in fin di vita. Dell'attrice emerge in modo particolare una grande confidenza con lo spazio e con il testo che la emoziona in maniera sincera. La straordinaria destrezza di Murgia le consente di globalizzare una figura, quella della femina accabadora, prima isolata nell'immaginario entroterra sardo, in modo naturale. Neanche durante il monologo si fa un uso spropositato di parole come 'eutanasia' o 'adozione', forse Soreni è rimasta illesa dal funesto attacco etichettatore degli esseri umani, quanto piuttosto di desiderio, volontà. Vedere la morte quasi come possibilità è quantomeno inusuale e forse è a questo punto che lo spettatore vorrebbe scappare e rifugiarsi nell'odore degli amaretti, nella storia dei gueffus, perdersi nelle vendemmie dei Bastìu o nella pelle chiara della signora Gentili. E accondiscendere a questa fregola pone lo spettatore, e Maria, di fronte ad una guerra interiore dalla quale, però, Tzia Bonaria vuole che si torni. La regia di Veronica Cruciani capovolge tale visione e identifica il pubblico, muto, nell'Accabadora. L'aspetto più interessante del coordinamento di Corradi è senza dubbio il gioco di ombre, il graduale annerimento di Maria che la rende visivamente più libera e leggiadra, più bianca. Prima la gonna, poi la camicia, infine lo scialle: è una trasformazione che appare quasi bramosa per far tacere i lamenti di Tzia Bonaria. La mente di Maria viene proiettata su uno schermo: ricordi freschi e puliti, ma bidimensionali. Come Tzia Bonaria negli ultimi due capitoli. La democraticità del romanzo viene mantenuta nello spettacolo, coprendo il lutto di Maria e rendendola, forse, Accabadora e fonde insieme le due protagoniste con il pubblico preceduto soltanto da una quarta parete ormai sgretolata.
1 Michela Murgia, Accabadora (G. Einaudi Editore: 2009), pp. 98, 99
Giovanni Moreddu