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SERVE (LE) – regia Veronica Cruciani

"Le Serve", regia Veronica Cruciani. Foto Laila Pozzo "Le Serve", regia Veronica Cruciani. Foto Laila Pozzo

di Jean Genet
con Eva Robin’s (Signora), Beatrice Vecchione (Claire), Matilde Vigna (Solange)
regia Veronica Cruciani
traduzione Monica Capuani
adattamento Veronica Cruciani
scene Paola Villani, costumi Erika Carretta
drammaturgia sonora John Cascone  disegno luci Théo Longuemare
movement coach Marta Ciappina, assistente alla regia Ilaria Costa
scenotecnica Officine Contesto, sarto Lucio Imperio, fotografie Laila Pozzo service Piano&Forte
produzione CMC – Nidodiragno, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Bolzano, si ringrazia il Teatro Comunale di San Giovanni in Persiceto (BO)
Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna, in prima assoluta il 1° febbraio 2024

www.Sipario.it, 3 febbraio 2024

Per Jean Genet la realtà del mondo in cui viviamo è la scissione, che da metafisica si è fatta storica per diventare infine sociale e nel capitalismo di oggi soprattutto economica, dunque la maniera più sincera per rappresentare il mondo e la sua realtà è mettere in scena il più 'crudelmente' possibile (in una interpretazione della crudeltà artaudiana fedele ma anche singolarmente dolente) questa scissione mimeticamente speculare in cui le identità si fanno e si disfano, mantenendo sempre però una 'differenza' insuperabile, nel reciproco specchiarsi che è in fondo un reciproco crearsi.

In tutto questo specchiarsi ustorio ciò che alla fine 'brucia' perdendosi in cenere è proprio l'umanità, l'uomo maschile e femminile, la donna femminile e maschile, l'origine dimenticata di ogni nostro essere deiettati dal mitico Eden al mondo che si è fatto storia.

Scrive in proposito, e ci sembra assai appropriato e coerente a questa suggestione, il filosofo Jean Soldini: “per difendere l'essere umano è necessario difendere l'indeterminato a-morale, il meno quasi-uno, la forma impura che sempre scivola verso l'informe producendo persone e che, in alcuni casi, è assegnata alla brutalità di una maschera imposta sopra una spogliazione (mio il grassetto) che nulla ha a che fare con la riduzione al servizio dell'arte di fare persone. Un'arte inseparabile dalla libertà dalle persone in favore dell'uomo, per tornare poi alla libertà personale perché questa non sia preda del nichilismo”.

Del resto la stessa esistenza di Genet nasce all'insegna della scissione, della separazione nell'abbandono, a partire dalla sua infanzia, una scissione che l'ha consegnato alla parte subordinata e coartata di quel doppio specchio che è stato il mondo (per lui).

Da qui la necessità di crearsi continuamente una e più 'Persone' che in quel mondo (per lui) potessero in qualche modo accadere per vivere, una necessità ed una persona che si alimentavano dell'immaginazione di quella parte oscura e crudele dello specchio per farsi sua affermazione e continua ribellione (dal 'ladro' che da dieci anni di età ha cominciato a frequentare carceri, alla fascinazione per il marinaio che naviga senza altra meta che non sia sé stesso, o a quella per l'assassino frequentato in quelle carceri o nella Legione Straniera).

Ciò che però è essenziale è che, per Genet, questa condizione di deiezione casuale nel mondo, dentro il quale ci troviamo imposto un ruolo dalla Società, riguarda tutti, in alto o in basso che siano, deboli e potenti, poveri e ricchi, e soprattutto produce in tutti 'dolore' e sofferenza inestirpabili salvo forse che con il pharmakos dell'arte.

Infatti non si tratta solo di necessità ma anche di consapevole 'energia' creativa in grado di proiettarsi talvolta nel sublime di un Funambolo che accetta il rischio della morte o della caduta dal suo filo sospeso e che così conquista la 'bellezza'.

Evidenti dunque le radici interiori, anche estetiche se vogliamo, delle sue prese di posizione più esplicitamente politiche, sempre dalla parte dei sottomessi, dei ribelli, degli ultimi, che peraltro sono in realtà più connesse alla specifica temperie storica che Genet ha vissuto, senza assumere una egemonia estetica o esistenziale.

Ma è, infine, la sua scrittura anche uno specchio che illumina il rapporto, vissuto fin nella propria carne, tra vita e letteratura, una vita da reietto, soprattutto nei suoi ultimi anni, nonostante i rapporti profondi e l'aiuto di Jean Cocteau e di Jean-Paul Sartre, una vita da 'ladro' quasi necessaria anch'essa alla poesia dei suoi scritti, una scrittura di lirica fascinazione, che permane irrisolta ma evidente anche quando il racconto scivola, senza mai 'pervertirsi', nel perverso che sanguina sempre abbondantemente.

Le serve è il suo primo testo teatrale, e rimane forse il più significativo e conosciuto fin nella dinamica narrativa a tutti nota, scritto nel 1946 è ispirato ad un fatto di cronaca che fece scalpore e che la drammaturgia di Genet in un certo senso trasfigura, modificandone eventi ma mantenendo la coerenza di fondo con gli stessi, e ciò, come in apparenza parrebbe dalla espunzione delle sue punte più sanguinose e voyeuristiche, anziché alleggerirne l'impatto lo incrementa trasferendolo nella profondità dei meccanismi psicologici reciprocamente prodotti dentro quella scissione e quella contrapposizione di classe.

Perché in Jean Genet la lotta di classe, e il conseguente odio di classe che produce e insieme la alimenta, è lucidamente presente nella sua capacità di traslarli alla estetica dell'immaginario che produce 'persone' che compiono atti che hanno radici anche oltre la contingenza storica.

La messa in scena, nella efficace traduzione di Monica Capuani e nell'interessante adattamento e regia di Veronica Cruciani, sceglie di sottolineare più marcatamente il gioco scenico delle proiezioni, facendolo triplo da doppio, con la cuspide del triangolo nella Signora che sembra occupare la centralità della scena, pur temporalmente limitata, dando così una più ricca espressione prospettica alla dinamica psicologica tra le due serve proprio grazie a questa presenza assenza.

La Signora di Eva Robin's, che sa rendere il grottesco del meccanismo proiettivo che la investe, è una sorta di precipitato di tutte le fome mutevoli del potere, della sua capacità 'transgenica' quasi che ne assicura la persistenza, da parte loro le due giovani Beatrice Vecchione e Matilde Vigna danno un'ottima prova delle loro qualità recitative, mimiche e di prossemica, brave come sono a rendere con espressività il tragico che contraddistingue i personaggi nella contro-luce del testo, in una scena dai forti tratti direi 'esistenzialisti' (nel senso di essere un farsi dell'esistere) più che simbolisti.

In questo la messa in scena coglie inconsapevolmente uno dei lati della vita/letteratura di Jean Genet, quella di essere 'dentro' a molti movimenti estetici e politici del Secolo Breve senza fare parte di nessuno di questi.

Uno spettacolo profondo e intenso, crudele ma commovente nel senso pieno del termine. Alla prima, sala piena e molti applausi.

Maria Dolores Pesce

Ultima modifica il Mercoledì, 07 Febbraio 2024 06:32

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