Di Giovanni Testori
Regia di Mino Manni
Con Gaetano Callegaro
Assistente alla regia Marta Ossoli
Disegno luci Fulvio Melli
Direttore di produzione Elisa Mondadori
Manifatture Teatrali Milanaesi
Teatro Litta/La Cavallerizza dal 19 al 31 marzo 2019
Seduto su una sedia lo spettatore scopre immediatamente il protagonista, insieme il centro di gravità ed il punto di fuga dello sguardo, ed in quella dimensione zero, assoluta, dell'essere attore, spogliato da un'implacabile rasoio di Occam, quest'ultimo si offre, e metalinguisticamente, spostando l'apostrofo, s'offre come se fosse una delle incarnazioni del cechoviano Svetlovitoz, pronto ad intonare il suo canto del cigno. La sua parola è, sin da subito, in punta di fonema, porta in dote con sé una sorta di calma olimpica, perché nel centro del tornado esistenziale, nel cuore di questo finale di partita, c'è una calma orientale, ed i gesti rallentano, si coagulano in piccole azioni dalla densità prossima all'infinito, ognuno di essi esprime quell'orizzonte degli eventi oltre al quale, al di là del segno che rappresentano, c'è la negazione assoluta della quale Testori si fa carico idealmente di parlare. Il regista Mino Manni accetta la sfida, di superare le colonne d'Ercole parmenidee, di parlare del non essere, di superare il paradosso e raccontare il crepuscolo, che per trasposizione di significati, diventa quello della parola stessa, che cerca di ricordare da quale tramonto sfumi la luce. Impressiona sentire quanto il verbo testoriano possa conquistare una serenità apollinea, dopo aver cartografato l'hic sunt leones del dionisiaco, dell'irrazionalità. Il vecchio attore, protagonista del monologo, è quasi cieco, tuttavia questa cecità è un passaggio necessario, per donare al personaggio la facoltà aedica di vedere oltre, di oracolare al pari di Tiresia, di richiamare la Musa più forte e fatale, per dare alle sue parole una luminosità adamantina. Gaetano Callegaro, l'interprete, mostra allo spettatore un'anima fonetica che si fa corpo in tutti i suoi soffiati, nella potenza terribile di una vocalità sottile, l'unica possibile per raccontare ciò che è prossimo all'essere irraccontabile. Della tragedia si sente soltanto la scomposizione vaga, l'ultima scia, l'estrema eco dell'urlo, del pugno prometeico diretto al divino. La battaglia è giocata in punta di fioretto,anzi abbassando la guardia, rinfoderando la spada dialettica, è tutta in interiore homine, l'unico posto dove cercare la luce di una verità. Su un tavolaccio lungo, obitoriale, giace la poesia del bianco, nella forma di una cascata di neve immobile, costituita da un lungo tessuto. Questo simbolo assoluto della madre, che rende fecondo il ventre apparentemente sterile dell'ombra assoluta, che crea un legame psichico profondo ed inscindibile tra la nascita e la morte, diviene la parte centrale di un rito che l'attore è chiamato ad attraversare. Steso sul tavolo, strisciando su di esso, a meno di un fiato dallo spettatore, esprime il suo verbo più alto, entra in un'intimità quasi mistica con la platea, ed il suo sussurrare alle vestigia scenografiche della madre morente, ha l'effetto di un sisma sulle coscienze, riesce a far entrare in risonanza l'inconscio collettivo, di junghiana memoria, di tutto l'uditorio. E pare quasi che il protagonista, richiamato dalle geometrie cartesiane dei tagli di luce, intuizione metaforica di una razionalità analitica che cerca di indagare sulle soglie della metafisica, realizzi l'utopia artaudiana del corpo senza organi, libero di farsi espressione artistica, di esprimere tutto il suo potenziale estetico, plastico, di statua in movimento, di marmo animato. E nel primissimo piano del suo viso si scorge il messaggio più potente, che sembra tradurre in parola poetica quella filosofia di Heidegger, ovvero nella morte l'esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questo confronto con il fatale finis terrae, ritrova la sua natura più autentica, esplorando la possibilità più estrema che sta sulla punta della lama amletica, la quale è resa oltremodo tagliente dalla mola del "non essere". Dunque fa bene allo spirito questo spettacolo, ha la funzione psicacogica, catartica di portare l'anima sul ciglio del corpo, perché si accorga di se stessa, si riscopra. Il regista ha certamente il merito di aver messo la sordina ai rumori del mondo, lasciando solo il gocciolio dell'acqua, sostanzializzazione del tempo cronologico, il tempo che scava, cancella e diventa "memento mori", ed alcuni brani classici struggenti, adagiati sull'ascolto dello spettatore come il niveo tessuto scenografico. Si può accarezzare ed abbracciare, prima di tutto con le parole, persino la morte, per farne versi da posare, come incantevoli fiori baudelairiani, sul grembo dello spettatore.
Danilo Caravà