di Giovanni Testori
con Marta Ossoli
regia di Mino Manni
assistente alla regia Serena Lietti
disegno luci Alberto Gualdoni
spettacolo prodotto con il sostegno e la collaborazione di
Amministrazione Comunale di Castel San Giovanni, Diana Ceni, Giulio Fassina,
Francesco Paladino, Angelo Sordi, Nuccia Zuterni
Manni/Ossoli Manifatture Teatrali Milanesi
Premio Nazionale Franco Enriquez 2017 - Giovani Grandi Interpreti
La Cavallerizza, Milano Dal 5 al 10 marzo 2019
Bisognerà ripensare la frase di Artaud guardando questo spettacolo, non si fa arte per uscire dall'inferno, ma per raccontarlo, per vivere scientemente quella stagione. Cleopatras sembra dirci che un tempo, se ben ricordava, la sua vita era un festino rimbaudiano, e ce lo dice con un sorriso da drugo, alla Alex, sornione, sibarita, un sorriso che incendia la Somma teologica di Tommaso d'Aquino. Manni ha il merito di restituirci Testori nell'unico modo possibile, transitando nel regno di Ade, girone dopo girone, frase dopo frase, scoprendo dolorosamente nella carne, tra il sangue e gli umori, l'impossibile icore di una poesia universale, versato in remissione dei nostri peccati. Lo si vive così questo autore in scena, scoprendo che la sua parola è un corpo, anzi un vortice di corpi che sembra staccarsi dall'affresco michelangiolesco per regalare all'ascoltatore una sensazione sinestetica, l'impressione di essere toccati da una mano fonetica, insinuante, erotica, all'interno di una dark room spirituale. La regina passa da un tableaux vivant ad un altro, vive idealmente tra i fumi delle bettole, dei lupanari, impugna simbolicamente l'arma caravaggesca che gronda ancora del sangue di Ranuccio Tommasoni per potersi dipingere in scena come apocrifo personaggio evangelico, come Maddalena per nulla pentita, in grado di ribaltare la sua lapidazione, e scagliare fatali fonemi verso la platea, suoni che lasciano lividi sull'anima dello spettatore, che, una volta tanto, sentendo quel dolore, quel bruciore, si accorge di esserci. Danza vorticosamente nel cerchio di Dioniso questa eroina, abiura la dimensione apollinea fin dalla sua dantesca apparizione dal ventre infernale, e parafrasa "il piacere che le prese di Antonio sì forte che ancora non la abbandona" in un testo scritto e da leggere nella sua carne, nel suo corpo, il quale disegna, lettera dopo lettera, un testo che si pianta come un chiodo cristico nell'attenzione dello spettatore. Marta Ossoli si lascia letteralmente possedere dal personaggio, entra fin dalle prime battute in una sorta di trance mistica, e si offre come sibilla lombarda, come Pizia alla platea per donare gli oracoli di questa Cleopatras. Riproduce il suo personaggio per via teurgica, in una sorta di unione mistica con il personaggio. Nella sua danza selvaggia, tribale, evoca la ferseniana candomblè in cui le divinità evocate prendono possesso dei corpi. Trasumana letteralmente questa attrice, abbandonandosi a questo rito bacchico, e grassettando con un sotteso "Evoè" tutta la sua vocalità. Un talking blues da contralto anima le sue corde vocali, e le lacrime impastano, danno vita a questa umanissima creta che ci racconta non una donna, ma la donna, catturata in suo carnale archetipo, in una fisicità che diventa il riflesso sull'acqua dell'anima. Riesce a giocare come il giullare che si esprime nel suo universale grammelot testoriano, ed un attimo dopo, con disinvoltura, indossa i coturni della tragedia per fare a pugni con gli dei, per urlare contro il cielo degli olimpici il suo cri de guerre che risuona con decisione tra le pareti della sala. Scolpita da una mano berniniana, riproduce la deposizione di Antonio, che fatalmente è attirata dalle forze gravitazionali della simbologia cristologica. Sembra une essere in grado di riprodurre in un solo colpo d'occhio i naufraghi della zattera della Medusa del pittore Gèricault, ed insieme l'immediatezza livida, la dannazione iconica, che restituisce l'ambigua sensazione in bilico tra il piacere ed il dolore, antinomia voluta, cercata, tratto distintivo dell'umanità raccontata da Testori, espressa da Bouguereau nella sua tela su Dante e Virgilio all'Inferno. Regala una sensazione da cinebrivido, quello stasimo, quel silenzio, che segue immediatamente la scala di Giacobbe vocale, doppio fonetico di quella presente in scena, percorsa dalla regina facendo i gradini a due due, ha la parvenza di quell'attimo, evocato dal "Silence, please!" tennistico, in cui lo sguardo dello sportivo racchiude nel cerchio di un significato muto ed oscuro il senso di tutta la partita, prima di scagliare tutto se stesso nel devastante servizio imprendibile, che andrà a traguardare lungo la linea, per lasciare agli spettatori la voglia di un applauso, di un gesto liberatorio. E tutto questo avviene in una lingua felicemente reinventata, che riesce a plasmarsi in molteplici fonosimbolismi, riesce a riprodurre con la velocità e l'esattezza stenografica lo scorrere magmatico degli stati d'animo. E' fatale che questa storia non abbia una morale, ma che ci restituisca con la forza di una secchiata di vernice rabbiosamente gettata sulla tela del palcoscenico, l'ecce homo, o meglio l'ecce domina, l'ecce regina espresso da una donna che preferisce miltonianamente regnare nel suo inferno che servire in paradiso.
Danilo Caravà