Da “Il processo” di Franz Kafka
Con Roberto Abbiati
E la partecipazione di Johannes Schlosser
Regia di Claudio Morganti
Musiche di Claudio Morganti e Johannes Schlosser
Realizzazione scene Laboratorio del Teatro Metastasio
Macchinista costruttore Marco Mencacci
Produzione Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa
In collaborazione Armunia Residenze Artistiche
Visto al Teatro Oscar, Milano, domenica 12 febbraio 2023
Una farfalla d’uomo che cambia continuamente colori e pelle (abiti) abitando la miniatura espressionista e naif di una vecchia stanza da letto. Così si potrebbe tenere in un filo d’immagine la memoria del Circo Kafka di Roberto Abbiati. Il Processo di Kafka trasposto in una commedia visuale stralunata, dove l’assurdità danza con le mosse sfasate, la mimica disarticolata di Abbiati. Dove la parola scompare e al suo posto emerge la distesa altamente significante dei suoni, sia vocali sia strumental/oggettuali prodotti dalle dita su un contrabbasso o dal fiato in una cornamusa o dal borbottare ritmico della voce scandito sullo straniante beat di un interruttore che accende/spegne una lampadina.
Una sorta di afasia giocosa si manifesta nel tentativo di parlare imboccando un’armonica; l’intenzione al dire espressa solo attraverso ciò che il fiato ricava dal passare tra le lamelle dello strumento. Come in una mostruosità alla Bosch in cui alla figura umana sia stato incorporato un nuovo organo che deforma la bocca in un imbuto vocale trombettante, qui l’armonica deforma il volto in un sorriso ebete e divaricato cui non resta che giustificarsi di fronte a un giudice che appare e scompare, o è implicitamente presente nella perenne disposizione auto giustificatoria che attraversa tutto il darsi fisico dell’attore sul palco. Il personaggio di Abbiati si giustifica di qualcosa che lui e nemmeno noi sappiamo; e il giudice appare munito di una ruota (della fortuna, del destino, della legge?), un ruotino di bicicletta senza camera d’aria, che un cartoncino tra i raggi fa ticchettare come un pallino nella roulette della sorte, di cui il magistrato sornione interpreta a gesti e allusioni gestual/vocali la indicazioni, dando per dimostrata l’evidente colpevolezza dell’indiziato e insieme sollevandosi, mercé l’incedere della ruota, da quale che sia responsabilità personale.
Ma quella stessa ruota, per uno di quei soprassalti semantici che avvicinano il gesto teatrale alla poesia, alla sua capacità di dissoluzioni metamorfiche di un segno nell’altro, diventa anche, a un certo punto, il diteggiante ticchettio della macchina da scrivere del giudice, in un gioco di ricreazione sonora dell’oggetto invisibile. Nel pieno di queste rutilanti e ironiche riverberazioni di senso tra suoni e oggetti e gestualità, ecco di colpo una rarefazione improvvisa. Nell’apparente inciampo di una musica che non arriva, ecco la parola, dimessa, affiorare alle labbra dell’attore. E’ un discorso che rompe l’onda e, apparentemente, manda in bonaccia lo spettacolo. Si rompe la parete del gioco rappresentativo, e la voce di Abbiati ci interpella. Gela la compulsività di uno spettatore incredibilmente intento al proprio smartphone e poi riflette. Che cos’è uno spettacolo se non un meccanismo che a un certo punto, una volta avviato, procede, un po’ misteriosamente, da sé? E il parallelo è con un macinino da caffè: tu giri la manovella, non sai cosa accade dentro alla scatola di legno, alla fine di quel girare, ecco la polvere; o la bicicletta che avviata dalla pedalata poi prosegue il moto. C’è come un richiamo a un segreto trasformativo, che non vediamo, ma del cui sussistere e operare non dubitiamo. Ci fidiamo. Uno spettacolo è questo – così sembra dire Abbiati – per metà fare per metà non sapere del fare e a cui una certa ineluttabilità del moto inizialmente impresso gli assegna destino e una certa compiutezza. E’ un’intuizione che mette di colpo al centro il senso stesso dello spettacolo (e forse del fare teatro tout court). Ma così, viene poi da pensare, è anche per K, il personaggio. Immesso nel meccanismo senza senso però di una macchina che non si vede, intenta com’è a perpetuare il proprio indifferente disegno a scapito del protagonista, fino alla pugnalata finale.
Franco Acquaviva